ARTICOLO n. 80 / 2023

UNA COMUNITÀ DI CURA

Pubblichiamo un’anticipazione da Sentirsi a casa. Una cultura dei luoghi (Meltemi editore, traduzione di feminoska). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Quando scrivo del mio passato in Kentucky, parlo raramente di mia madre Rosa Bell e di mio padre Veodis, ma è anche la loro presenza che mi ha spinta a tornare a casa. Stanno invecchiando, avvicinandosi alla morte, e il mio desiderio di passare del tempo con loro in questo momento di deterioramento si è fatto imperioso. Mio padre paragona il periodo della vita in cui si comincia a essere vecchi al momento in cui non si cammina più in montagna. “Gloria”, mi dice, “non salirò mai più sulle montagne. Sto scendendo, sto tornando a casa”. La sua metafora mi stupisce perché sia Rosa sia Veodis volevano allontanarsi dalle montagne e dalle colline, dalla vita contadina in cui erano nati, alla ricerca del nuovo e del moderno. Niente agricoltura per loro, niente lavoro sfiancante nei campi. Entrambi volevano vivere in città. E, in quanto creatura della campagna, mi sono sentita in disaccordo con loro fin dalla mia nascita. La mamma, a volte scherzando e a volte con rabbia, si scagliava contro le nostre differenze esclamando: “Non so da dove sei saltata fuori, ma vorrei tanto poterti riportare indietro!”. E oh, quanto desideravo tornare indietro, andare a vivere dai miei nonni con i quali sentivo una maggiore consonanza di spirito. Mamma e papà non me lo avrebbero permesso. 

Volevano che diventassi una ragazza di città e desideravano lo stesso per i miei fratelli; volevano che non fossi la “campagnola”. Eppure, per molti versi, sono davvero campagnola, più simile ai miei nonni che a loro.

Parlo la lingua dei miei nonni, il patois nero del Kentucky, ma so utilizzare anche la lingua della città, una lingua neutra che non lascia trasparire la propria provenienza. Sentirmi parlare la lingua della città è stato confortante per i miei genitori. Questo fino a quando non ho acquisito la mia voce dissidente, una voce che ha scioccato e scosso la loro sensibilità, una voce che li ha spaventati. Per loro qualsiasi espressione che vada contro l’autorità, quella che un giorno avrei chiamato la cultura dominante, è un rischio potenziale. E quindi era meglio tacere. I miei discorsi li spaventavano, e in un certo senso furono contenti quando me ne andai di casa e mi misi a viaggiare da una città all’altra, perché così non sarebbero stati costretti ad ascoltarli. Non avevano mai capito che per molti versi ero solo una ragazza di campagna, e che lo sarei rimasta indipendentemente dai libri letti, dal livello di istruzione o di fama raggiunta. In Citizenship Papers, Wendell Berry afferma con audacia: “Credo che questa competizione tra industrializzazione e mondo contadino definisca la differenza umana più fondamentale, perché divide non solo due concetti quasi opposti di agricoltura e sfruttamento della terra, ma anche due modi quasi opposti di comprendere noi stessi, i nostri simili e il mondo”. Per me, questa citazione evoca lo scisma esistente tra me e i miei genitori. Loro rappresentavano la città, la cultura del nuovo, “fare più soldi, comprare più cose, buttare via cose, avere sempre di più”. I miei nonni, sia materni che paterni, rappresentavano la campagna, la cultura della tradizione, dove nulla era scarto, tutto era utilizzato, utile, riciclato. Ora Rosa Bell e Veodis sono diventati parte della cultura del passato. Papà a ottantotto anni è uno degli ultimi sopravvissuti viventi della fanteria tutta nera di cui faceva parte durante la Seconda guerra mondiale. La mamma ha dieci anni in meno, ma la perdita di memoria l’ha condotta verso l’eternità. Lei, più di papà, sente di non avere un vero posto tra i vivi, di non appartenere a nulla e nessuno.

A differenza di papà, lei vorrebbe morire. Perdere la memoria, a causa della demenza o dell’Alzheimer, è un modo di morire. Ci porta in un luogo in cui non esistono più connessioni e non si comunica più con la mente. Le parole non hanno più molto peso, e il linguaggio non significa nulla. La distinzione tra città e campagna non esiste più. Il tempo non può essere compreso in alcun modo lineare o coerente, e converge su sé stesso; il passato si trasforma facilmente nel presente, e gli anni si confondono gli uni con gli altri. Anche i volti cadono nell’oblio e le relazioni diventano ombre indistinte. Mamma si sveglia e mi chiede, del marito con cui è stata in coppia per quasi sessant’anni, “Chi è?”. Quando glielo dico, risponde soltanto: “Oh!”. Più tardi, lo chiamerà per nome e gli parlerà con la consueta intimità. Ma questa vivida consapevolezza non durerà a lungo. 

Mamma sa ancora chi sono. Sente la mia voce e sa che Gloria Jean la sta chiamando. Sente la mia voce e capisce il mio stato d’animo. Un giorno l’ho chiamata e mi ha detto: “Stavo proprio guardando uno dei tuoi libri”. L’ultima volta che sono stata a casa, aveva in mano uno dei miei libri e continuava a leggere il retro di copertina, dove c’è la descrizione dell’autrice. Leggendolo ad alta voce più e più volte, alla fine sembrava soddisfatta di aver afferrato almeno in parte chi sono, la sua figlia scrittrice. Eppure la mia scrittura è stata una fonte di dolore per la mamma, poiché ha rivelato pubblicamente molte cose che lei avrebbe preferito rimanessero private, segrete. È orgogliosa della mia scrittura, anche se una volta mi ha detto che il mio lavoro le causa così tanto dolore che a volte vorrebbe solo cadere in ginocchio e pregare. Entrambi i miei genitori hanno resistito alla turbolenza del mio lavoro, e per quanto la nostra famiglia possa essere disfunzionale, hanno continuato a prendersi cura di tutti i loro figli, della famiglia. Giunta alla mezza età, ho imparato ad apprezzare profondamente la disciplina necessaria a mantenere un impegno reciproco per più di cinquant’anni. Ho vissuto da sola lo stesso numero di anni passati in una relazione, ho visto matrimoni e legami, etero e gay, fiorire e spezzarsi, cadere a pezzi a causa di differenze considerate inconciliabili, per questo apprezzo la determinazione necessaria a tenere vivo così a lungo l’impegno reciproco, e comprendo la visione del matrimonio come sacramento. 

P. Travis Kroeker esprime con delicatezza questa idea, quando sostiene da un punto di vista cristiano che “donare noi stessi nel matrimonio è un’occasione di gioia, lo celebriamo perché come esseri umani siamo fatti per l’intima comunione con Dio e con la vita tutta”. Continua: “Il sacramento del matrimonio è quindi tutt’altro che un atto privato ed esclusivo, è sempre legato alla comunità più ampia di cui fa parte. Uno dei maggiori pericoli dell’amore romantico è la privatizzazione dell’amore, che lo priva dei nutrienti essenziali. Un matrimonio florido ha bisogno del sostegno della comunità e, a sua volta, sarà il fondamento della comunità e della vita del mondo”. 

Ho visto questo principio messo in pratica nel corso del lungo matrimonio dei miei genitori e negli oltre settant’anni insieme dei miei nonni materni. Purtroppo, entrambi questi matrimoni non sono stati particolarmente amorevoli o gioiosi. Ciononostante, le condizioni dell’amore erano presenti: cura, impegno, conoscenza, responsabilità, rispetto e fiducia; le parti coinvolte hanno semplicemente scelto di non onorarli nella loro interezza, ma si sono concentrate sulla cura e sull’impegno. In quanto testimone della loro vita, posso testimoniare che sono stati ottimi esempi di questi due aspetti dell’amore. E a prescindere dall’incapacità di mantenere un benessere duraturo, la loro volontà di impegnarsi ancora oggi mi intimorisce e mi impressiona. Anche io desidero un impegno simile nel contesto di una relazione d’amore. 

Questi due matrimoni sono durati così a lungo proprio perché si sono svolti nel contesto della comunità. Erano sostenuti dalla costante interazione esistente all’interno della famiglia allargata, della chiesa, del lavoro e del mondo civico: una vita di comunità. Quando ho iniziato ad andare oltre alle aspre critiche che non ho mai risparmiato al matrimonio disfunzionale dei miei genitori, ho notato alcuni aspetti positivi nel loro legame, e sono persino arrivata a invidiarli. Ciò che ho ammirato e ammiro di più della loro vita è la loro capacità di impegnarsi, in modo disciplinato, nel creare e sostenere una vita di comunità. E anche se non sono stati in grado di creare per sé stessi un legame d’amore, hanno preparato il terreno per l’amore piantando due semi importanti, la cura e l’impegno, che considero essenziali per ogni sforzo amorevole. Di conseguenza, sono loro grata per aver fornito a me e ai miei fratelli e sorelle, attraverso l’esempio, la comprensione del significato dell’impegno e della cura. 

Sono felice di aver vissuto abbastanza a lungo e di avere genitori viventi ai quali esprimere gratitudine per i doni di cura e impegno che mi hanno elargito. Nel saggio An Economy of Gratitude, Norman Wirzba sostiene che: “Impegnandosi nella pratica e con costanza verso un luogo e una comunità, i segni della gratitudine […] si fanno più nitidi”. Definisce quei segni come “affetto, attenzione, gioia, gentilezza, lode, convivialità e pentimento”. Tutti questi tratti caratteristici sono presenti quando vivo in comunione con i miei genitori nel nostro luogo natale, la loro casa in Kentucky. Lo spirito di conflitto e contestazione che per anni ha caratterizzato le nostre interazioni è sparito: nel farci comprendere che non esiste conflitto abbastanza potente da spezzare i legami di cura e di impegno, i nostri genitori, e specialmente nostra madre, hanno mantenuto costantemente in vita un luogo di riconciliazione e di incontro, un modo per tornare a casa. 

Kroeker sottolinea l’importanza di creare una “comunità di cura” tale che le nostre relazioni reciproche possano essere “governate dalla convivialità piuttosto che dal sospetto, dalla lode piuttosto che dalla colpa”. Inoltre, “In una comunità di cura le persone si rivolgono le une alle altre; hanno rinunciato alla menzogna illusoria che la felicità sia sempre da qualche altra parte, con altre persone”. Significa anche accogliere i nostri genitori, accettarli per quello che sono e non perché sono diventati ciò che volevamo che fossero. Kroeker spiega: “Impegnandoci insieme ad altre persone e sforzandoci di conoscerle, impariamo ad apprezzarle nella loro profondità e integrità e comprendiamo meglio il loro potenziale e i loro bisogni. Le vediamo finalmente per le creature uniche che sono, e cominciamo a cogliere la complessità, la bellezza e il mistero di ogni cosa e di ogni persona a questo mondo. La loro bellezza finalmente si manifesta, suscitando in noi una reazione fatta di amore e celebrazione”. La mia esperienza nel rapporto con i miei genitori, con la comunità in cui sono cresciuta e ora con la cittadina del Kentucky che chiamo casa mia è stata esattamente questa. 

Le comunità di cura sono sostenute da rituali di attenzione, e nel nostro caso mangiare insieme era un aspetto fondamentale delle riunioni di famiglia. A tavola ci si racconta quanto è successo nella giornata, si scherza e si condivide il piacere derivante dal cibo casalingo cucinato con amore. Nostra madre era un’ottima cuoca. Come Kroeker credo che: “Intorno al tavolo creiamo le condizioni per la convivialità e la lode. Condividendo il pasto esprimiamo concretamente la nostra gratitudine, assaggiando una fetta di paradiso”. Era certamente così nella cucina di nostra madre. 

Purtroppo, nel suo nuovo stato di smemoratezza, la mamma non cucina più, né ricava piacere nel mangiare cibo delizioso. Deve essere persuasa a sedersi a tavola, cosa comune dei malati di demenza o Alzheimer. Diventa quindi importante creare nuovi rituali di cura. Prima di perdere la memoria, mamma era sempre in piedi a lavorare, cucinare, pulire, soddisfare i bisogni di qualcun altro. Nell’ambito di un matrimonio di stampo patriarcale, ha badato assiduamente a nostro padre, ma ora è lei ad aver bisogno delle nostre attenzioni e della nostra cura. Nel farlo mettiamo in atto un rituale di rispetto. La devozione che suscita nei suoi cari è il risultato naturale della cura e dell’impegno che un tempo ha dedicato a tutti noi. E anche se per papà è stato difficile cambiare, accettare la fine di certe forme di privilegio patriarcale che riteneva fossero un suo diritto per il semplice fatto di essere nato maschio, sta imparando a farle da badante. 

Al giorno d’oggi, mamma trascorre gran parte del suo tempo seduta. Ci sono aspetti belli, persino meravigliosi, nelle sue attuali forme di autoespressione e identità. È una gioia sedersi accanto a lei, poterla stringere, accarezzarle le mani, tutti gesti che in passato sarebbero stati impossibili. Avrebbe ritenuto sciocco starsene seduta a parlare d’amore quando c’era del lavoro da fare. Com’è meraviglioso vedere queste nuove esperienze convergere con le vecchie, vederla così tenera, vulnerabile, priva ormai della vergogna e delle inibizioni convenzionali. Ora vedo in lei la natura selvaggia dello spirito che una volta lei vedeva in me, quello spirito che voleva schiacciare per paura che fosse pericoloso. La gratitudine che provo nel poter essere presente, testimone della sua vita in questo momento, mentre lotta per dare un senso a punti che non si collegano e viaggia verso la morte, non conosce limiti. Ed è bello vedere papà che scende con grazia dalla montagna, e dargli di tanto in tanto una mano.Kroeker è convinto che “dedicandoci gli uni agli altri sperimentiamo quotidianamente e direttamente la vasta gamma di doni che contribuiscono alla qualità della nostra vita: la gratitudine troverà dunque il posto che le spetta, in quanto aspetto fondamentale capace di guidare le nostre vite”. La gratitudine è la via che conduce a mille benedizioni e prepara il terreno del nostro essere per l’amore: ed è bello vedere che, alla fine, l’amore vince sempre.

ARTICOLO n. 93 / 2024