ARTICOLO n. 75 / 2024

UN SEMPLICE NOME COME NOBEL DELL’ECONOMIA 2024

Anche quest’anno il premio Nobel per l’Economia a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson può essere inteso come un’allusione. Fuori da quella disciplinata e inflessibile dottrina economica neoliberale – il mainstrean che detta le regole alla nostra vita quotidiana – c’è un’alternativa. Ma sempre sotto la forma di un’allusione, appunto. Flatus vocis, disse Roscellino di Compiègne, il grande teorico del nominalismo che definì “soffio della voce” quei concetti universali che non hanno una realtà oggettiva e sono semplici nomi. Solo un nome è considerato sulla scena globale l’alternativa ai dogmi del “libero mercato” governato dalla “mano invisibile” o a quell’altro della massimizzazione del profitto da parte di individui egoisti. Eppure esiste. 

Il nome, in realtà, condensa fior di studi critici tra i ricercatori economici in tutto il mondo che hanno maturato negli ultimi decenni la chiara consapevolezza di quella finzione che è la società governata dal mercato. Il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson – nella lettura che ho potuto dare dei loro libri e a partire dallo sviluppo delle riflessioni quasi quotidiane di Acemoglu – si colloca sul limite tra un flatus vocis dell’alternativa e le posizioni più avanzate nell’economia mainstream.

Dal punto di vista di una storia del presente questa è una posizione interessante. Acemoglu, Johnson e Robinson riflettono a partire dall’impresentabilità dei vecchi dogmi che in realtà sono vivissimi nelle politiche economiche di tutti i paesi. Basti pensare a cosa sta accadendo in Francia o, in maniera diversa, in Italia che stanno adottando i dogmi dell’austerità nelle loro leggi di bilancio.

Gli autori, allo stesso tempo, hanno maturato una serie di indicazioni politiche che potrebbero essere definite di ordine social-liberale progressista, una specie di speranza nella socialdemocrazia in un tempo in cui la socialdemocrazia è scomparsa. E, con essa, la stessa idea di alternativa a un neoliberalismo autoritario che sta divorando la democrazia e ogni possibile sbocco in senso contrario, cioè socialista, per non dire comunista. Questi sì, puri nomi che potrebbero avere un altro avvenire. Anche se spesso sono considerati discorsi privi di consistenza o promesse che non hanno seguito. L’opera di Acemoglu, Johnson e Robinson si colloca in quella zona di indistinzione tra la realtà e l’astrazione di un nome che contiene mondi.

I tre economisti e politologi – uno dei quali è turco e americano, l’altro britannico, ma tutti e tre hanno trascorso la loro intera carriera negli Stati Uniti – sono partiti da una delle domande più classiche dell’economia liberale: perché alcune nazioni registrano una crescita economica più forte di altre? Domanda che è stata ripetuta fin dagli albori dell’economia intesa come “scienza”, a partire dal suo padre fondatore, Adam Smith. Di questo parla il suo libro più famoso sulle indagini sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776.

La prima risposta è stata data 23 anni fa in un articolo che è diventato uno dei più citati della letteratura economica mondiale: “The Colonial Origins of Comparative Development” pubblicato dall’American Economic Review nel 2001. Storici dell’economia, Acemoglu, Johnson e Robinson hanno fatto ricorso ai numeri per confrontare le tabelle di mortalità dei coloni bianchi in diverse colonie con i tassi di crescita degli Stati nati da queste colonie. La conclusione è questa: dove i coloni erano in grado di popolare ampi territori grazie a un ambiente sanitario meno duro, hanno creato istituzioni capaci di garantire i diritti – in particolare i diritti di proprietà – e di stimolare il progresso tecnico ed economico. Mentre dove l’ambiente era malsano, si limitavano a schiavizzare la manodopera locale o a importarla per sfruttare le risorse locali, agricole o minerarie, al fine di trarne profitto. Il problema di fondo è il colonialismo. Può forse svolgere una funzione di “civilizzazione” quando crea “buone” istituzioni? Il punto è delicato, evidentemente.

Il problema è stato sfiorato in un articolo, “Reversal of Fortune”, pubblicato nel 2002 sul  Quarterly Journal of Economics, dove gli autori hanno dimostrato che le istituzioni nate dallo schiavismo negli Stati Uniti meridionali alla metà del XIX secolo, quelle che avrebbero garantito uno “sviluppo”, sono diventate un gigantesco problema per la democrazia nel momento in cui il paese procedeva nella sua rivoluzione industriale. 

La politica in Acemoglu, Johnson e Robinson ha il nome di “istituzioni”. Se una politica garantisce la regolazione “istituzionale” dell’innovazione tecnologica, bisogna sempre vedere se i frutti di tale innovazione restano nelle mani di un’élite dominante o viene messa al servizio del maggior numero di persone. Da questo si capisce se una democrazia è più o meno funzionante oppure ha bisogno di essere democratizzata. E oggi la democrazia ne ha un drammatico bisogno. Deve sottrarsi dalla cattura del sistema finanziario per evitare di continuare a subire le crisi che esso produce. Sta qui l’intenzione democratica di Acemoglu, Johnson e Robinson che è stata premiata con il Nobel. Si direbbe: poca roba. Eppure, a chi ha una vaga idea del conformismo feroce che domina l’opinione pubblica oggi, sembra già tanto. Del resto, non è la prima volta che si danno riconoscimenti a questa idea. Cioè al nome di una necessaria trasformazione, a condizione che resti una chimera.

Non diversamente da altri economisti noti, per esempio Thomas Piketty, anche Acemoglu e Johnson hanno scritto libri per il grande pubblico. Ad esempio: Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità (Il Saggiatore). Qui il posto della storia dell’economia è molto importante, ed è anche chiaro il ruolo di ponte elaborato dagli autori per unire l’economia dominante a una scuola “istituzionalista” che ha avuto un certo ruolo sia negli Stati Uniti che in Francia, nell’economia e nella sociologia. Per chi ha una passione per questi argomenti in questo tipo di libri possiamo trovare sia Thorstein Veblen che Robert Boyer e Michel Aglietta. Acemoglu, Johnson e Robinson hanno usato i metodi econometrici per ragionare sulla storia e sulla possibilità di regolare diversamente il capitalismo. È un tentativo di individuare un contrappeso a quella tendenza, apparentemente inarrestabile, di tradurre la vita in modelli matematici che non tengono conto della storia e delle politiche economiche.

Acemoglu, Johnson e Robinson sono stati criticati perché credono in una filosofia della storia secondo la quale la ricchezza è assicurata dall’istituzionalizzazione dei diritti di proprietà, prerogativa della cultura giuridica occidentale.Sulla base di questo liberalismo economico, il cui capolavoro ideologico è stato quello di considerare la proprietà come un diritto fondamentale della persona (lo ha scritto Luigi Ferrajoli, che è un liberale di caratura) Acemoglu, Johnson e Robinson sembrano credere all’esistenza di “buone istituzioni” che garantiscono di per sé il progresso. A condizione che rispettino la legge fondamentale del liberalismo economico. 

Se è questa la base teorica di un lavoro storico di notevole interesse, allora è molto interessante il dialogo tra l’economia marxista italiana di Emiliano Brancaccio e Acemoglu. Il loro tema è se esista o meno una legge generale del capitalismo oggi. Per Brancaccio sì, per Acemoglu no. In realtà, come abbiamo visto, una legge esiste. E va trovata nei trascendentali che guidano quella formidabile macchina teorica – e non solo produttiva e finanziaria – che è il capitalismo. Per una filosofia della storia ispirata al liberalismo economico una legge generale non esiste perché è già determinata in maniera trascendentale. Se il diritto di proprietà è una legge naturale e cosmica, non ha bisogno di essere nominata. Essa esiste e basta.

Nelle argomentazioni di Acemoglu, teorico fine, si comprende l’esistenza di un conflitto a un livello alto, quello marxiano. Per Marx infatti la definizione di una tendenza generale del capitalismo non è una legge eterna, bensì la determinazione storica di un avvenire che nasce dalla critica del capitalismo e del suo dogma: l’esistenza in natura di una proprietà considerata diritto fondamentale dell’uomo. Se fosse tale, allora arriveremmo a giustificare la diseguaglianza tra gli esseri umani, e tra l’uomo e la natura, per esempio. Invece, se parliamo di politica – che non è solo un nome, bensì una prassi – questa idea è inaccettabile. 

ARTICOLO n. 93 / 2024