ARTICOLO n. 18 / 2022
UN OTTIMO BILOCALE
All’inizio degli anni Novanta, vivevo in un monolocale soppalcato. Il padrone di casa lo definiva ottimo bilocale: angolo cottura, tavolino da picnic, bagno minuscolo e soppalco, ovvero una piccola nicchia sospesa alla quale accedevo salendo una breve rampa di sei gradini. Il soppalco comprendeva un materasso da una piazza e mezza, un comodino, quattro mensole che schiacciavano ancora di più lo spazio tra il letto e il soffitto. Dovevo spostarmi ricurvo in quell’area angusta flettendo le gambe per raggiungere l’altezza media di un bambino di otto anni: soltanto così quel microcosmo diventava vivibile. Eppure, il padrone di casa considerava il soppalco una stanza. Da qui, la definizione di ottimo bilocale.
Il padrone di casa, durante la firma del contratto, mi aveva detto di essere amico di Zvonimir Boban, il calciatore del Milan. A distanza di trent’anni, non ricordo il motivo per cui, forse parlando della caldaia e delle spese condominiali irrisorie – le spese condominiali ancora oggi sono definite irrisorie e non ridicole: benché quasi sinonimi, il ridicolo, più che l’irrisorio, potrebbe svalutare un immobile – aveva detto, sono un amico di Boban. Credo che quella confessione non richiesta mi sia costata almeno 100.000 lire in più d’affitto al mese. Come avrei potuto difendermi? Avrei dovuto replicare con un’affermazione altrettanto roboante. Ma non ero amico di Lothar Matthäus, non ero amico di nessun giocatore dell’Inter e non volevo ribattere con una menzogna. Il padrone di casa aveva vinto, meritavo di pagare 100.000 lire in più di canone.
A volte scendevo al bar per guardare le partite in televisione, erano i primi anni del calcio a pagamento. Il Milan era la squadra migliore in quel periodo, tifavo e tifo Inter ma guardavo volentieri le partite del Milan. Inoltre, il fratello milanista di un amico milanista, si era fidanzato con una ragazza che abitava a quattrocento chilometri di distanza, così programmava i weekend amorosi in rapporto al calendario del Milan, raggiungeva la fidanzata quando il Milan giocava fuori casa, in modo da non perdere le partite casalinghe per le quali aveva pagato l’abbonamento; a volte, capitava che la raggiungesse anche quando il Milan giocava in casa: ah, l’amore.
Il fratello milanista dell’amico milanista mi lasciava la tessera, regalandomi la possibilità di vedere il Milan a San Siro. Ero a disagio sull’autobus, mi sentivo una mezza spia, un impostore, uno che tifava Milan senza tifare Milan, un abbonato che aveva la tessera in tasca e aveva esultato per le vittorie in Coppa dei Campioni negli anni precedenti.
Si dice che il calcio serva a dimenticare gli affanni della vita quotidiana. Non ci ho mai creduto. Il calcio peggiora la propria condizione esistenziale. Boban giocava nel Milan, il padrone di casa sosteneva di essere un amico di Boban, e quel riferimento a Boban, più che ricondurmi al Milan, al calcio, allo svago, mi riportava alla condizione di giovane poco più che ventenne relegato in un monolocale soppalcato definito ottimo bilocale.
Boban era stato acquistato dal Milan a ventitré anni. In precedenza, aveva giocato nella Dinamo Zagabria. Oltre che per le sue doti tecniche eccellenti, è ricordato per il calcio tirato in pancia a un poliziotto federale jugoslavo – scambiato per un poliziotto serbo, in realtà pare fosse bosniaco – durante gli scontri avvenuti prima della partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado, giocata a Zagabria il 13 maggio 1990.
Immagino che oggi, il calcio di Boban rifilato al poliziotto federale jugoslavo sarebbe divenuto, come si dice, virale, e il video avrebbe avuto milioni di visualizzazioni, e la sequenza sarebbe stata commentata in milioni di post. Ma era un’epoca analogica, a maggior ragione per ciò che riguarda l’aggettivo jugoslavo, e di quel periodo sono state riversate in digitale poche immagini, nelle quali si vede comunque Boban prendere la rincorsa e colpire il poliziotto che, sorpreso dall’azione del calciatore, chiude gli occhi per attutire il calcio e perde il caschetto protettivo. A volte, mi capita di pensare al fotoreporter nella sua camera oscura a sviluppare il rullino, quando già sapeva come era andata a finire la partita.
La partita, a causa degli incidenti avvenuti sulle tribune e in campo, era stata rinviata, e il calcio tirato da Boban al poliziotto sarà considerato, a posteriori, una premessa della guerra civile jugoslava e del disfacimento di una nazione.
Boban, ventiduenne, aveva pagato il gesto con la squalifica e la mancata partecipazione ai Mondiali di calcio, in Italia.
Il Milan aveva acquistato Boban nel 1991 e lo aveva prestato al Bari. Poi l’arrivo a Milano e lì, in poco tempo, era diventato, oltre che un giocatore del Milan, amico del mio padrone di casa. Durante la guerra civile jugoslava, Boban era un tesserato del Milan. Giocava poco, il Milan di Berlusconi aveva una squadra di campioni e Boban era ancora abbastanza giovane per restare in panchina. L’abbonamento del fratello milanista dell’amico milanista prevedeva un posto al secondo anello. Visto dall’alto, Boban, quando entrava in campo, pareva un bambino, ma dall’alto tutti i giocatori sembravano bambini, anche Gullit. Se avessi avuto la tessera della tribuna centrale, i calciatori mi sarebbero apparsi come calciatori e forse mi sarei distratto davvero. Il piccolo Boban, invece, mi rispediva dentro il monolocale soppalcato, il piccolo Boban sarebbe stato adatto a muoversi senza sforzo nel microcosmo del soppalco.
Il padre di Boban non ho mai capito se fosse un colonnello o un generale. Ignoro se abbia partecipato o meno alla guerra civile jugoslava, se abbia avuto simpatie per gli ustascia e i loro nipotini fascisti. Leggevo con sgomento le notizie provenienti da quella nazione così prossima a noi, ma come spesso capita, gli affanni della vita quotidiana soverchiavano qualsiasi vera compartecipazione ai drammi dell’umanità. Insomma, pensavo alla mia piccola vita, all’amore, all’arte, alla letteratura, al lavoro e al non lavoro, ai soldi, al monolocale soppalcato e quindi al padrone di casa, al calcio e a Boban: non pensavo alla politica internazionale, o almeno, così credevo.
Ricordo di aver letto qualcosa riguardante il programma edilizio del Terzo Reich pianificato nel 1941, immagino prima di giugno, insomma, qualche settimana antecedente l’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Mi impressionava il fatto che Hitler e i suoi collaboratori pensassero all’edilizia del dopoguerra vittorioso, al benessere dei tedeschi, allo spessore dei muri delle nuove case, e alle, direbbe un agente immobiliare contemporaneo, tipologie di appartamenti, mentre, con le loro scelte, Hitler e i gerarchi sancivano la morte di milioni di persone.
Trilocale über alles & Unternehmen Barbarossa.
Hitler e i gerarchi nazisti erano convinti di costruire centinaia di migliaia di appartamenti e casette suburbane nel corso dei dodici mesi successivi alla fine del conflitto bellico. I morti in guerra sarebbero stati sostituiti dai nuovi nati, e allora sarebbe stato necessario investire nella famiglia tedesca cominciando dalle abitazioni. Se consideriamo una famiglia composta da cinque persone, il piano edilizio hitleriano, in un anno, avrebbe assicurato la casa a un milione e mezzo di persone. In seguito, il Terzo Reich avrebbe espropriato altri campi, pagato indennizzi ai proprietari terrieri e proseguito l’edificazione di nuove case.
In Italia, all’inizio degli anni Novanta, non eravamo in guerra, eppure nessun partito immaginava e tantomeno pianificava qualcosa di significativo per la vita degli italiani. La fine del comunismo nell’Est europeo e la guerra civile jugoslava rafforzavano la fede nell’azione correttiva e spontanea del libero mercato, la finzione con la quale siamo cresciuti. Mi impressionava il fatto che, secondo il programma edilizio del Terzo Reich, l’affitto dell’abitazione tedesca dovesse essere stabilito in rapporto al reddito del cittadino al quale la casa era destinata. Non c’è bisogno di Hitler per capire certe cose, pensavo appollaiato sul soppalco buio del monolocale, mentre sfogliavo la rivista in cui apparivano le graziose case del vittorioso dopoguerra hitleriano. Ciò che guadagnavo serviva, a stento, per pagare l’affitto e comprare il cibo. Nient’altro. Niente cinema. Niente pizzeria. Niente viaggi. Libri soltanto dalla biblioteca. La vecchia Citroen, in vendita. E per fortuna che il fratello milanista dell’amico milanista si era fidanzato con una ragazza che viveva a quattrocento chilometri di distanza, così avevo l’ingresso gratuito allo stadio. Ma il benefit milanista e la visione sfuocata del piccolo Boban mi riconducevano al monolocale soppalcato.
Ikea aveva appena aperto un punto vendita, a Corsico. Non avevo acquistato nulla – anche perché il monolocale non poteva contenere nient’altro – ma afferrato i gadget gratuiti: un foglio marchiato Ikea, un metro marchiato Ikea, una piccola matita marchiata Ikea. Tornato a casa, avevo misurato il monolocale con quel metro stropicciato e comparato la mia condizione abitativa al progetto edilizio nazista. Secondo Hitler, otto case su dieci avrebbero avuto un soggiorno e tre camere da letto; una casa su dieci avrebbe avuto quattro camere; una casa su dieci avrebbe avuto due camere. Per tutte le varie tipologie di appartamento era previsto un ripostiglio, oltre che una dispensa, un bagno e un gabinetto separato dal bagno. La metratura delle case naziste sarebbe andata da poco più di sessanta metri quadrati a quasi novanta metri quadrati. Il monolocale in cui vivevo aveva una superficie complessiva inferiore alla cucina hitleriana del trilocale più piccolo. D’accordo, non ero un nazista con moglie e figli, ma non potevo credere alle condizioni in cui era considerato normale vivere, nell’Occidente vittorioso, meno di mezzo secolo dopo Hitler. L’unica consolazione era il microcosmo del soppalco, che da emblema di oppressione fisica diventava, se paragonato al periodo nazista, uno spazio di libertà. Hitler, infatti, non aveva pensato alla possibilità di un soppalco in ogni abitazione. Aveva pensato, però, alla costruzione dei rifugi antiaerei anche in tempo di pace.
Dal secondo anello di San Siro ho assistito a molte partite vittoriose del Milan.
Ma tutte le cose finiscono e, poco prima di lasciare il monolocale soppalcato, e poco prima che il fratello milanista dell’amico milanista si lasciasse con la fidanzata, il Milan aveva perso dopo cinquantotto partite: 1 a 0 per il Parma, gol di Asprilla, su punizione. Quel pomeriggio ero defilato alla destra della curva sud rossonera. Avrei voluto esultare al gol di Asprilla, ma non ero un tifoso del Parma, forse non ero più nemmeno un tifoso interista, non so, già a partire da quel periodo, più passavano i giorni e meno mi sentivo qualcosa.
Negli ultimi minuti di gioco – sulle note di The Entertainer di Scott Joplin, la colonna sonora de La stangata – i tifosi del Milan avevano cantato perché il Milan è forte alé, perché il Milan è forte alé, perché il Milan è forte, perché il Milan è forte, perché il Milan è forte alé. Un canto durato parecchi minuti, al quale non avevo partecipato. Ero rimasto seduto, mentre intorno a me i milanisti si erano alzati applaudendo e intonando quelle parole. Una bel canto oratoriano, rilassante. Credo fosse un metodo scaramantico, che nascondeva la speranza di segnare un gol negli ultimi istanti della partita e confermare l’imbattibilità, oppure un buon modo per celebrare la forza della propria squadra. Non ricordo se Boban abbia giocato o meno e non voglio sbirciare un file con il tabellino di trent’anni fa.La guerra civile jugoslava era in pieno svolgimento e Boban di lì a poco sarebbe diventato croato o forse era croato fin dalla nascita e il passaporto jugoslavo era stato, per lui, un equivoco, una finzione, un peso insopportabile durato venticinque anni. Il Milan aveva perso e io, di sicuro, non avevo vinto, ero soltanto un ragazzo, e la guerra mondiale, meno di mezzo secolo prima, era finita come tutti sapevamo: in Italia avevano vinti i palazzinari o gli amici di Boban, quale che fosse il loro orientamento politico poco importa. E infatti ancora oggi, soprattutto oggi, nazisti o non nazisti, un trilocale costa caro.