ARTICOLO n. 41 / 2022

UN FILM SULLA GUERRA CHE SENZA LA GUERRA NON AVREI CONOSCIUTO

L’ascesa di Larisa Shepitko

Voskhozhdenie (L’Ascesa) è un film sulla guerra che senza la guerra non avrei conosciuto. Ne ho scoperta l’esistenza per due ragioni tristemente attuali: il tema del film e la nazionalità della regista.

Fino al 24 febbraio l’Ucraina, oggi centro del mondo, ci riguardava marginalmente. Era un paese distante dai nostri pensieri, dalle nostre prospettive. Quanti di noi sono stati a Kiev, a Leopoli, o nella mitica Odessa? L’Ucraina non faceva parte delle mete ideali né rientrava nel nostro immaginario, era semmai l’Italia a rappresentare un ideale per uomini, e soprattutto donne, ucraini, alcuni dei quali entrati a far parte delle nostre famiglie (nel mio caso, Olga, di Leopoli, che da oltre vent’anni è presenza costante nella mia vita). L’Ucraina esisteva attraverso i loro ricordi, i loro racconti, le loro fotografie. 

E dunque confesso che quando i miei occhi hanno deciso di soffermarsi su una soltanto fra le centinaia di immagini che quotidianamente sorvolano, non è stato tanto per la bellezza indiscutibile della fotografia in bianco e nero, quanto per la didascalia che l’accompagnava: «Immagine dal film L’Ascesa, ambientato durante la seconda guerra mondiale, diretto dalla regista ucraina Larisa Shepitko nel 1977.»

Si trattava del primo piano di un uomo disteso nella neve, il volto semi nascosto dal bavero sollevato del cappotto, gli occhi sbarrati rivolti al cielo. Era vivo? Morto? Chi era quell’uomo? E soprattutto chi era la regista di cui non conoscevo nulla?

Tempo pochi secondi e Larisa Shepitko era entrata nel mio motore di ricerca.

A impressionare è innanzitutto la sua avvenenza. È una donna davvero bellissima Larisa, il viso dai tratti spigolosi e raffinati ricorda Anouk Aimée. Gli occhi scuri, profondi, dal taglio orientale. Leggo alcune note della sua biografia: nata nel 1938 ad Artemovsk, nella regione del Donetsk (oggi nota enclave filorussa, territorio di scontri dal 2014) in Ucraina orientale. Figlia di un ufficiale persiano (ecco da dove vengono quegli occhi…) che ha presto abbandonato la famiglia per seguire l’esercito, Larisa è cresciuta insieme alla madre e ai fratelli. La guerra, subita da bambina e causa di un’infanzia infelice, sarà il tema centrale della sua vita di donna e di artista. Lo affronta sin dal primo film, Krylya (Ali), nel quale mette in scena il conflitto interiore di una pilota pluridecorata per le sue imprese durante la Seconda guerra mondiale, che una volta cessato il conflitto non riesce ad adattarsi al tempo di pace. Le sfumature della vita reale le sono aliene, spiega la regista: «La guerra rende tutto brutale, definitivo ed elementare: un nemico è un nemico, un codardo è un codardo.» L’esperienza drammatica della guerra ha trasformato inesorabilmente gli individui che mai più torneranno a essere ciò che erano prima. Nella filmografia di Shepitko (breve, ahimè, formata solo da cinque film) i personaggi devono sempre superare una prova, sia fisica sia spirituale, e affinché ciò venga onestamente rappresentato, la regista accetta di sottoporre se stessa e la sua troupe a condizioni estreme. Durante le riprese del lungometraggio Znoy (Calore), realizzato per ottenere il diploma di regista dalla prestigiosa università statale pan-russa di cinematografia VGIK (la stessa che laureò Ejzenštejn, Dovzhenko, Tarkovskij, Michalkov, alla quale si era iscritta all’età di sedici anni nonostante le fosse stato suggerito, in quanto donna e bella, di orientarsi verso la recitazione), Shepitko mette in serio pericolo la propria salute fisica. Ambientato nelle steppe arroventate del Kirghizistan, il film inscena il conflitto tra due personalità (e dunque tra due opposte civiltà): un tiranno legato al passato e un idealista proiettato verso il futuro. Le temperature sul set raggiungono i 50°, i tecnici devono “raffreddare” la macchina da presa, la pellicola si squaglia letteralmente. La regista si ammala, sviene diverse volte fino a collassare, le viene diagnosticata un’epatite. Ma non ha nessuna intenzione di fermarsi: pur di portare a termine le riprese dirige il film distesa su una barella. «Se non lavoro, muoio»: per Larisa Shepitko il lavoro di cineasta è anzitutto una missione, e in quanto tale deve essere condotta con spirito di abnegazione e sacrificio. L’Ascesa ne è l’apoteosi.

È davvero un film straordinarioLo si intuisce sin dalla prima immagine: un’inquadratura in campo lungo su una distesa di neve abbagliante che trasmette un senso di vastità, di solennità. 

Il paesaggio pare deserto, qua e là spuntano sghembi pali della luce inclinati dal vento, sembrano croci piantate nel bianco (il colore predominante del film). Ed ecco che dai cumuli di neve emerge una figura solitaria, è ripresa da lontano, la macchina da presa non si avvicina, rimane distante per tutta la sequenza. Dal nulla bianco spuntano altre sagome come burattini in un teatrino. Si guardano intorno, poi cominciano ad avanzare nella nebbia. Ora la macchina da presa si avvicina e li inquadra: è un gruppo di uomini donne e bambini. Affondano i piedi nella neve trascinando slitte, valigie, suppellettili. Per tutta la durata dei titoli di testa seguiamo la loro sfibrante avanzata. «Tedeschi!» urla una voce. Capiamo così che si tratta di gente in fuga, partigiani che cercano di mettersi al riparo dal fuoco dei nazisti. La rappresentazione del loro patimento, della fatica, del freddo è quasi insostenibile. Shepitko ci mette subito in guardia: quel che stiamo per vedere è molto più di un film; non soltanto per noi spettatori, ma anche per la troupe che lo ha realizzato. Il freddo, la neve, la fatica: è tutto vero. Davanti e dietro la macchina da presa si soffre allo stesso modo, la temperatura scende a -40° gradi, e per buona parte del film le riprese si svolgono in esterno. Anche in questo caso Larisa sottopone il suo corpo a prove difficilissime, e di nuovo la sua salute ne risente. Lo spirito sacrificale che contraddistingue le opere di Shepitko, nel L’Ascesa, si acutizza. Larisa sembra aver introiettato come un dogma imprescindibile la lezione del suo mentore Aleksandr Dovzhenko, il grande cineasta ucraino, che alla scuola di cinematografia le aveva detto: «Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo». Un monito che ha il sapore della profezia. 

L’Ascesa è stato concepito durante un periodo molto doloroso: una lesione alla colonna vertebrale, a seguito di una caduta, costringe Larisa Shepitko a sette mesi di immobilità in un letto di ospedale. Durante la convalescenza, «un lungo viaggio dentro me stessa», la trentacinquenne cineasta legge molto, soprattutto Dostoevskij, poi si imbatte in un romanzo di Vasil Bykau, intitolato Sotnikov e decide che quello sarà il suo «testamento artistico». Il suo prossimo film deve «appartenerle totalmente», e non subire dunque l’influenza di nessuno, come era accaduto in passato. La censura politica è una costante minaccia per i cineasti sovietici, i due film precedenti hanno dovuto subire tagli e interventi.  

L’incidente le lascia addosso un senso di morte insieme alla terribile consapevolezza, malgrado la giovane età, di una fine imminente. Si dedica meticolosamente alla sceneggiatura e sebbene non abbia ancora recuperato le forze necessarie, non si risparmia durante l’impegnativa realizzazione del film. L’afflato religioso che ammanta L’Ascesa è tangibile. A cominciare dal titolo, che allude alla Passione di Cristo. La vicenda che unisce i due protagonisti Sotnikov e Rybak, il loro rapporto, le prove che sono chiamati a superare, i dialoghi, richiamano la parabola cristiana.

Sotnikov, uomo schivo, di poche parole, è un insegnante di matematica. Tossisce spesso, respira male. L’altro, Rybac, è un chiacchierone, energico e ottimista. I due sono stati mandati a cercare del cibo: i loro compagni, braccati dai nazisti, sono rimasti bloccati nella neve. Comincia così la loro peregrinazione in un paesaggio ostile e desolato, attraverso villaggi depredati e fattorie distrutte. Intercettati dai tedeschi riescono a mettersi in fuga, ma Sotnikov viene colpito a una gamba e resta indietro. La solitudine dell’uomo, ferito e accasciato nella neve, le grida minacciose dei tedeschi in lontananza, la decisone di uccidersi pur di non cedere al nemico, il primo piano di Sotnikov, che mentre sta per premere il grilletto verso se stesso osserva il cielo, il globo solare offuscato dalla foschia, ed esita quel tanto che basta al compagno per tornare a soccorrerlo, sono descritti attraverso un utilizzo  magistrale delle  inquadrature, dei primi piani e della musica (la colonna sonora è di Alfred Schnittke). Da questo momento in poi, il film cambia registro e vira verso una messa in scena dell’esperienza cristologica. La sofferenza di Sotnikov, incarnata da un attore formidabile, Boris Plotnikov (qui al suo debutto), diventa metafora del martirio. 

Quando i due uomini saranno catturati dai tedeschi le loro personalità si rivelano: se Sotnikov dimostra lealtà, integrità morale e altissimo spirito di sacrificio, Rybak svela la propria debolezza, il desiderio di sopravvivere a ogni costo. Il primo resiste alle torture e rifiuta di collaborare, l’altro cede al nemico in cambio della salvezza. «Ci sono cose più importanti della propria pelle» dice Sotnikov dopo essere stato marchiato a fuoco sulla carne viva. Non vorrei raccontare il finale che per quanto prevedibile nel suo esito si rivela imprevedibile nella mise en scène. Shepitko, reduce dall’aver visto «la morte molto da vicino» restituisce questa prossimità, ne evoca la forza spirituale, il potere purificatorio. Le sequenze finali del film sono straordinarie, chi di voi lo vedrà (me lo auguro) difficilmente dimenticherà la forza di certe immagini (una su tutte: lo scambio di sguardi fra un bambino e Sotnikov, più eloquente di qualsivoglia dialogo). Difficilmente dimenticherà i primi piani, le inquadrature asimmetriche, il sonoro, i paesaggi, la fotografia in bianco e nero, i simbolismi di questo capolavoro del cinema sovietico. 

«Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo»

Due anni dopo l’uscita de L’Ascesa (che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 1977), Larisa è pronta per un nuovo film. Si è aggiudicata i diritti del romanzo Addio a Matyora di Valentin Rasputin, che inizialmente si era opposto a una riduzione cinematografica del libro. «Dopo averla conosciuta, non ho potuto dirle di no» dichiarerà lo scrittore, «era così appassionata, così convincente, così sorprendentemente seria…». La toccante storia di una piccola comunità costretta ad abbandonare il proprio villaggio per consentire la costruzione di una diga idroelettrica accende l’entusiasmo di Larisa, sarà quello il film della consacrazione. È tutto pronto, mancano solo gli ultimi sopralluoghi per le location. Insieme ai suoi più stretti collaboratori, parte in automobile per San Pietroburgo. Non arriveranno mai. Un incidente metterà fine al loro viaggio e alla loro esistenza. All’apice della sua carriera e della sua vita, Larisa Shepitko se ne va, a soli quarant’anni.

Le riprese del film saranno portate a termine dal marito di Larisa, Elem Klimov, regista, sul quale sarebbe giusto inaugurare un altro capitolo, cominciando magari dal suo nome, acronimo di Engels, Lenin e Marx. Non mi dilungherò su di lui salvo citare due suoi film: Va’ e vedi, del 1985, forse l’opera più allucinata, devastante e potente mai realizzata sulla guerra e le sue conseguenze, e Larisa, una struggente dichiarazione d’amore alla moglie scomparsa.

PS: vi invito a cercare (e vedere) i film di Larisa Shepitko. Su YouTube esiste una versione de L’Ascesa con una qualità sorprendentemente buona…

ARTICOLO n. 84 / 2024