ARTICOLO n. 18 / 2023

L’ULTIMO BLOCKBUSTER SULLA TERRA

In Oregon è rimasto l’ultimo Blockbuster della terra. Un tempo questo colosso colonizzava col suo servizio di noleggio ogni città sufficientemente grande da poter contenere abbastanza appassionati di cinema, ma l’arrivo delle piattaforme di streaming ha via via eliminato questo gesto intimo e collettivo, la voglia di recarsi in un luogo, prendersi il tempo giusto e scegliere due o tre pellicole da fagocitare in una manciata di giorni. Però il Blockbuster Bend esiste e resiste, diventando un luogo quasi sacro nel tempo come lo fu l’Oracolo di Delfi: persone da tutto il mondo si recano in pellegrinaggio per replicare quel gesto nostalgico e famigliare o semplicemente per provare il brivido della prima volta. Durante il Super Bowl è andato in onda uno spot ambientato in un futuro post apocalittico in cui tutto è morto e polveroso, ma il Blockbuster Bend ancora vive e insiste nel perpetuare quel gesto: raccolgo la custodia vuota dallo scaffale, mi reco al bancone e in cambio mi viene fornita la pellicola che dovrò inserire obbligatoriamente in un lettore DVD se non addirittura in un VHS. Quale sarebbe il vostro ultimo film? Questa domanda mi risuona con lo stesso fastidio e la stessa apprensione di quando mi chiedono una classifica dei lungometraggi che ho amato di più. Sono quelle liste che rassicurano e trovano spesso una sistemazione comoda nelle somiglianze e nelle differenze che riscontriamo quando misuriamo noi stessi con le storie che ci hanno cambiato la vita. Allo stesso tempo, però, sono anche richieste leggere che non tengono conto della dimensione emotiva e privata, quel battito sordo in fondo al ventre, il posto in cui dormono tutti i racconti che in qualche modo per noi hanno significato cambiamento, aggiunta, una nuova coperta con cui avvolgersi di notte, la luce accesa sul comodino perché non sai mai che mostri possono nascondersi dentro l’armadio. Però continuo a pensare a quel Blockbuster, e se ormai ho rinunciato a scegliere un solo film per la mia notte, la parte che preferisco di questa intrusione dall’Oregon è senza ombra di dubbio la finestra spalancata sul videonoleggio che ha cambiato la mia vita.

Dovete sapere che la mia storia con i film è iniziata prestissimo, complice un padre che mi ha trasmesso quell’amore puro per le storie e un negozietto di Maranello che ogni venerdì riusciva a trovare almeno tre titoli in grado di stuzzicare la curiosità del mio vecchio. Quando tornava a casa dal lavoro faceva sempre finta di essersi dimenticato di fermarsi al videonoleggio mentre io gli saltavo intorno, smaniosa di sapere che cosa avremmo guardato nel weekend. Era un momento magico, oggi posso definirlo così con consapevolezza, perché come potrei spiegare diversamente quel movimento curioso che seleziona una storia basandosi su pochi elementi e che la fa sedimentare nel tempo e nello spazio per anni e anni, facendoci imparare a memoria battute e formule, mimare gesti e intere scene, cercare nel mondo reale quello che abbiamo visto trasmettere da un televisore? I più cinici diranno che non è magia, ma sono i neuroni specchio che impongono un processo di identificazione e che, queste nuove facce, noi le indossiamo per essere un’ipotetica versione migliore o per diventare completamente qualcun altro. Così nel tempo sono stata la Morgana di Excalibur (1981), la Deborah di C’era una volta in America (1984), Mia Wallace in Pulp Fiction (1994), la Jenny che urla in mezzo al Campidoglio per Forrest Gump (1984) e Laura Palmer, Shelly Johnson e Audrey Horne a seconda di come mi alzavo alla mattina nella mia personale Twin Peaks. I miei genitori non hanno mai posto troppi veti su quali film o meno avrei potuto guardare con loro, tanto meno sulle serie e gli sceneggiati che agli inizi degli anni ‘90 andavano ancora fortissimo in RAI. Non avevamo nemmeno un genere preferito, da validissimi spettatori assoluti guardavamo qualsiasi cosa, ed eravamo capaci di passare dalle musiche straordinarie de Il segreto del Sahara alla penna di Pupi Avati per Voci Notturne, una miniserie diretta da Fabrizio Laurenti che ancora oggi disturba il mio sonno. Ecco, in mezzo alla meraviglia dobbiamo riconoscere che il prezzo da pagare per una vita da spettatrice libera fin dalla prima infanzia è il bagaglio di incubi in agguato nei periodi di maggiore stress.

Tutte le storie che entrano dai nostri occhi creano fotogrammi che si agganciano a frammenti di emozione ancora in costruzione. Quando guardiamo un film o una serie TV si creano dei ponti tra noi e i personaggi dello schermo, e passeggiandoci sopra abbiamo il potere di indossare quelle maschere o metterle in bocca e masticare, ingoiare e digerire fino a renderle profondamente parte di noi. Crescendo e studiando ho capito che certamente la visione ha un potere emotivo, comportamentale ed economico enorme, spesso sottovalutato o sminuito, non solo sui singoli, ma anche sulla performance collettiva che ne scaturisce. Per quanto mi riguarda, ho ricordi vivissimi dell’estate 1991. Nonostante il caldo afoso sono certa di aver dormito con la coperta fino alle sopracciglia, abitudine che ho ancora oggi, e con le ascelle adese al corpo, stringendole fortissimo, per paura di essere morsicata. Avevo appena finito di leggere IT di Stephen King dopo aver guardato il film di Wallace con i miei genitori. Vorrei dirvi che crescendo le cose sono migliorate, in realtà ho solo capito che quella visione in me ha creato una scatola caricata a molla e che nei momenti di forte stress il coperchio si spalanca nella notte e fa uscire un pagliaccio con i denti lunghissimi che punta dritto alla mia ascella destra. Se è vero, però, che i prodotti audiovisivi non fanno morti, è anche vero che diventa fondamentale, nell’era dei social network, fermarsi sulla Vista come senso che distrugge e costruisce, entra ed esce, chiude e apre, generando piccoli spifferi o grandi correnti.

Nella storia dell’Occidente sono stati sterminati popoli interi a causa della Vista, sono stati emulati comportamenti omicidi, sono stati propagandati messaggi all’inconscio, senza consenso, e lavati più cervelli che medaglie apposte sulle divise. Secondo Michel Foucault è proprio attraverso gli occhi che riceviamo l’educazione più rigida su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, messaggio che viene veicolato dal modo in cui dividiamo i corpi in sani e malati, innocenti e colpevoli, conformi e non conformi. Il Blockbuster Bend e la mia prima pellicola sono parzialmente consapevoli di questo passaggio, perché la superficie economica è molto più spessa di quanto sia forte l’analisi socioculturale sottostante. Quando le storie raggiungono i nostri occhi si portano dietro comportamenti che noi potremmo adottare, modi di dire e di pensare, ma anche un’industria che vive esattamente di questa miscela tra noi e quello che vediamo. Il processo educativo e performativo della visione ha sempre un cuore economico, se non altro perché così è strutturata la parte di mondo in cui viviamo. Può essere un guadagno monetario immediato o a lungo termine, oppure la creazione di abitudini e consuetudini che, nel tempo, diventano terreno fertile per altre pratiche di guadagno che ancora devono essere inventate e che, a loro volta, saranno sfruttate nel qui-e-ora oppure si trasformeranno in un nuovo trampolino di lancio. La cosa vera è che quelle storie ci arrivano veicolate dai corpi rappresentati, e che questi involucri non sono semplici insiemi di cellule epiteliali e vasi sanguigni, ma una maschera semantica che attraversa la nostra pelle e instilla inevitabilmente qualcosa che può essere innescato o sfruttato da altre persone per ottenere qualche vantaggio. Non ho tardato molto a capire, per esempio, che il mio corpo sugli schermi non ha valore se non quando deve essere l’involucro del cattivo della storia, manifestare povertà estrema e isolamento, fare da stampella muta al protagonista o alla protagonista della storia. Il mio corpo è il mostro delle storie che preferisco, qualcosa di oscuro e maligno che deve essere sconfitto e risolto, annientato e silenziato. Mentre attacco il cavo HDMI al lettore Blu-Ray e faccio partire Buio Omega per la millesima volta penso a Phineas Tylor Barnum e alla sua gallina dalle uova d’oro, quello che lui decantava come The Greatest Show on Earth e probabilmente aveva anche ragione: il Freak Show

Nella seconda metà dell’Ottocento, a ridosso della seconda Rivoluzione Industriale, il Corpo riveste un ruolo sociale consolidato: dimmi cosa indossi e ti dirò chi sei. A seconda della forma del corpo, dei vestiti, del peso, dell’altezza, della mobilità, del colore della pelle, del sesso esibito, le persone potevano essere associate a precise categorie sociali. In realtà, il corpo ha sempre svolto questo ruolo perché primo baluardo a servizio, appunto, del senso della Vista. Ma nel corso dell’Ottocento l’acuirsi di trattazione politica e le filosofie sul lavoro e sul salario e i moti del 1848 e la crisi incontrovertibile dell’aristocrazia mettono la borghesia nella posizione favorevole per ereditare il potere della nobiltà – e con essi anche tutti i vincoli per mantenere quel potere – restando a contatto col popolo e non chiusa dentro la corte di un palazzo. Questo passaggio del potere dalle mani di un cerchio significativamente chiuso a una classe sociale larga e diffusa, a contatto diretto con le categorie più povere, impose la Vista come strumento atto a identificare, catalogare, sorvegliare e punire chiunque fosse considerato esterno al sistema stabilito di norme. In questo contesto storico trova terreno fertilissimo la monetizzazione della non conformità, un’operazione poderosa di marketing sociale in cui la legge della domanda e dell’offerta non è solo economica, come dicevamo prima. I Freak Show rappresentano la coperta di Linus di una classe sociale che paga per vedere la diversità trattata come un fenomeno da circo, l’esposizione circense di corpi considerati devianti che vengono ridotti a oggetto di divertimento per chi mantiene invece l’ordine stabilito dai poteri. Nelle fiere e nei luna park, persone con caratteristiche fisiche fuori dalla norma vengono esposte e usate per spettacolarizzare il mostruoso e renderlo remunerativo, certo, ma anche pedagogico nei confronti del pubblico: chi oserebbe mai non seguire rigorosamente i diktat sul corpo sapendo che una briciola di deviazione potrebbe portare loro a divenire bestie da esibire e umiliare pubblicamente? 

La parte, però, più interessante di questo fenomeno fu effettivamente il modo in cui andò a evolversi una volta sgonfiata la curiosità per la novità. Nel 1872 Barnum decise di lasciare New York, in cui inizialmente sostava il suo spettacolo, e di renderlo itinerante. In quel momento, buona parte dei materiali in vitro e collezionati a sostegno dello spettacolo furono donati alla Smithsonian Institution di Washington e alla Tuff University, contribuendo alla revisione della teratologia, lo studio della mostruosità: da disciplina di supporto per studi biologici e medici a brand strategy per l’attività museale e non solo. I Musei di Anatomia Comparata rivedono le loro collezioni e iniziano ad avere focus specifici sui corpi che maggiormente possono attirare l’attenzione del pubblico pagante. Ci sono teche piene di alcol con dentro feti fatti a pezzi, raccolte embriologiche complete dall’uovo fecondato al formato del nono mese di gravidanza, tanti preparati anatomici degli organi vitali, sezioni longitudinali e trasversali di corpi umani adulti. E poi ci sono i corpi interi, i mostri. Il rapporto tra le didascalie e le immagini è un esercizio di sapere e di potere del sapere perché, se alla vista abbiamo un mostro, le parole sono mutuate dalla medicina e acquisiscono criterio di veridicità. Guardiamo i mostri, ma siamo alleggeriti da eventuali turbamenti perché ci stiamo facendo una cultura. E funziona. Funziona fino alla nascita dei social network, che su questo principio del corpo da guardare e da incamerare come oggetto del nostro piacere senza alcuna coscienza sociale hanno costruito un impero e un inferno. 

Nelle scorse settimane molte persone hanno parlato del “trend delle ragazze col sondino” un naming affascinante e deleterio a sua volta per intendere ore e ore di dirette di ragazze vittime di anoressia nervosa e dei comportamenti degli utenti, dei genitori e del personale medico a riguardo. In alcuni casi si è arrivati a parlare di narcisismo delle ragazze che, ottenendo attenzione, ne vogliono sempre di più, ma anche di colpevolizzazione dei genitori che assecondano e promuovono questi spazi in cui le ragazze mangiano, per esempio, in diretta e gli utenti sotto applaudono o scherniscono. Eccolo, il Freak Show. Ci sono due aspetti non trascurabili quando si cerca di fare analisi sociali di questo tipo: 1) studiare e storicizzare il qui-e-ora sociale perché non ci interessa il gossip, ma la dinamica generale e imperitura del mondo in cui viviamo che non è spuntato in una notte ma in secoli 2) non trasformarci a nostra volta in Barnum, sfruttando i corpi altrui per portare avanti il nostro show personale. La dinamica che sottende ai trend di Tik Tok ha un’origine ben precisa nella Vista e nel potere che attribuiamo a questo senso, sia come mittenti che come destinatari. Così, il corpo che si mostra vuole essere visto non per narcisismo, ma per ingannevole necessità prodotta dal disturbo di cui è vittima. Ci sarebbe un enorme discorso sul reale consenso in questo senso, ma criticare l’agency delle persone demandandola completamente ai genitori o alle persone vicine non funziona perché, se da un lato abbiamo un disturbo grave del comportamento alimentare capace di uccidere le persone, dall’altro abbiamo persone non preparate a gestirlo e in totale improvvisazione. Mancano le strutture sanitarie adeguate, gli interventi domiciliari, i processi educativi per tutte le generazioni, non solo per le persone più giovani, perché di fronte a questi corpi tutti quanti – ripercorrendo le stesse dinamiche cognitive del pubblico del Freak Show – proviamo stupore e superiorità. Questo è quello che accade quando la Vista svolge il ruolo di selezionatore del nostro interesse perché in realtà non compie solo questa procedura, ma stabilisce un dentro e un fuori dal nostro perimetro. E visto che selezioniamo quel perimetro sulla base del nostro gusto personale, pensiamo non solo di avere una voce in capitolo, ma anche il potere di sottomettere quello che vediamo al nostro volere. Così il passaggio da corpo in esposizione a corpo che fa cose per soddisfare il pubblico è innescato dallo stesso filo che sorveglia e punisce, sottomette e plasma, educa e forma i corpi dall’inizio della loro rappresentazione. 

Il movimento che effettua il pubblico non è nulla di diverso dal gesto intimo e nostalgico riportato alla mente da quel Blockbuster Bend: sfogliamo una copertina dopo l’altra, ne selezioniamo una che potrebbe soddisfare il nostro sguardo e il nostro gusto, la appoggiamo sul bancone e aspettiamo di ricevere in cambio qualcosa da fagocitare in una manciata di giorni. Poi torniamo, riportiamo quanto ci avevano dato perché ha già finito il suo tempo e passiamo alla prossima. Alla prossima pellicola, al prossimo mostro, al prossimo trend.

ARTICOLO n. 96 / 2024