ARTICOLO n. 31 / 2021

TUTTE LE FAMIGLIE SI SOMIGLIANO, PUNTO E BASTA

INTERVISTA DI MARCO MARINO

M.M. Per cominciare la nostra conversazione, vorrei partire da Philip Roth. Autore da lei molto amato. Non mi voglio soffermare, però, sulla querelle della biografia, o sulla questione del politicamente corretto. Mi piacerebbe partire parlando di Roth soltanto come scrittore, e soprattutto del rapporto che intrattenuto con i suoi libri. A diversi anni dalla lettura del Lamento di Portnoy (se ricordo bene fu questo il primo libro che lesse di Roth, o sbaglio?), quanto si sente vicino e quanto lontano dal primo fascino che le suscitarono quelle pagine? Più in generale, quando le capita di rileggere Roth, come si pone di fronte ai suoi romanzi? Un classico a cui riferirsi, un padre da uccidere / ucciso, un autore di cui non ha ancora compreso qualcosa o una sorta di sillabario letterario?

A.P. Anche nella vita del lettore (tanto più se il lettore in questione è uno scrittore) arriva il tempo di storicizzare i propri idoli letterari. C’è stato un lungo periodo della mia vita – inaugurato trentacinque anni fa con la scoperta sullo scaffale più inaccessibile della libreria dei miei genitori di un certo libretto incredibilmente sboccato e licenzioso e strepitosamente divertente, Portnoy, appunto – in cui Roth ha rappresentato per me una specie di ispirazione costante. Come nei grandi amori non corrisposti ho avuto i miei alti e i miei bassi, ma di fondo sono restato fedele al suo magistero. Oggi non è più così. E da un bel po’, direi. La mezza età sopraggiunta e l’abbandono delle scene di Roth e la sopraggiunta morte a stretto giro di posta hanno spezzato l’incantesimo.  Ormai Roth appartiene alla mia piccola storia letteraria interiore, a fianco, che so, a Montaigne o a James. Il suo fraseggio incredibilmente denso e sexy è ancora capace di incantarmi alle lacrime ma non modifica di un punto e virgola ciò che scrivo. Ho faticato a trovare la mia voce. Non consentirò neppure a uno spettro così amato di portarmela via.

M.M. Ha chiuso la sua risposta dicendo: «Ho faticato a trovare la mia voce». Mi interesserebbe molto soffermarmi sul tema della voce. La parola voce si potrebbe tradurre semplicemente con originalità, ma forse è qualcosa di più dell’originalità. Ma cos’è per lei la voce? Cosa l’ha spinta a faticare così tanto per trovarla?

A.P. Non confonderei la voce con l’originalità. Sebbene fatichi a parlare di una questione così specifica in termini generali, astratti, se non addirittura metafisici, mi vien da dire che si può avere una voce senza essere originali, e viceversa. Ha mai notato che i passi delle persone che amiamo hanno un certo rumore – un ritmo, una cadenza – che solo noi siamo in grado di riconoscere? Talvolta sono così peculiari e inconfondibili che quando la persona amata per qualche ragione viene meno ci sentiamo doppiamente orfani. Molto spesso quel modo di camminare è del tutto inconsapevole al camminatore in questione, e tuttavia trova una strana corrispondenza nel suo carattere e nel suo temperamento.  Ci sono camminate nervose, ce ne sono di indolenti e di circospette. Ci si può sforzare di imitare l’incedere altrui ma è molto più sano arrendersi al proprio. Ecco, uno scrittore che cerca la voce deve fare lo stesso faticoso itinerario: capire qual è il suo passo (non è affatto facile) e abbandonarvisi, non opporre resistenza. Proust dall’alto del suo magistero parlava di «patria interiore». Nel mio piccolo mi contento di avere un passo. Ossia, un ritmo, una postura e, visto che ci siamo, anche una meta sicura da raggiungere. Quando le dico che ormai conosco la mia voce, intendo proprio questo: le mie frasi sono articolate, aspirano, non sempre con successo, a una certa flessuosa densità, il tono è ironico e auto-denigratorio, il lessico forbito trova il suo contraltare in espressioni grevi e colloquiali. Sono frasi che scontano un debito con la tradizione, certo, ma a loro modo la rinnovano in una forma che appartiene solo a me.

M.M. Una domanda collaterale: per uno scrittore la voce è tutto?

A.P. Sarebbe bello crederlo. Amerei che fosse così. Ma purtroppo le cose funzionano altrimenti. Affidarsi totalmente alla voce fa di te un ottimo prosatore. Come sa, i buoni prosatori in Italia non sono mai mancati. Sono i buoni romanzieri a scarseggiare. Purtroppo, scrivendo romanzi da più di vent’anni, so che per un narratore la voce è la conquista preliminare, le fondamenta sui cui costruire l’edificio. E, ahimè, un edificio romanzesco è fatto di molte altre cose: e non tutte necessitano di materiali nobili. Bisogna essere allo stesso tempo geometri, ingegneri e architetti. Bisogna essere falegnami, carpentieri e marmisti. Le prometto che la metafora edile finisce qui. Diciamo che una buona tecnica narrativa deve tenere conto di molti fattori. Bisogna capire che ciò che è facile da leggere è molto difficile da scrivere. Per suggestionare un lettore devi mettere in campo parecchi trucchi e mescolare un numero impressionante di ingredienti. Per quanto mi riguarda, riservo grande attenzione ai personaggi e ai cosiddetti ritorni. Creare un personaggio non significa offrire al lettore tutte le informazioni possibili. Significa cogliere quei due o tre tratti caratteristici e trovare il modo di metterli in scena con naturalezza e discrezione, come se non fossero inventati. Per quanto riguarda i ritorni (e qui parliamo di bassa cucina), mi dà grande soddisfazione suscitare nel lettore il brivido che dà solo un cerchio che si chiude. È la famosa pistola di cui parla Hitchcock: se la inquadri all’inizio del film devi sapere che prima o poi dovrai trovare il modo di farla sparare. Tornando alla sua domanda, sarebbe bello che la narrativa potesse esaurirsi in una successione di frasi eleganti e necessarie, come la immaginava un parnassiano come Flaubert. Disgraziatamente, me lo faccia ripetere, non è così che funziona. I romanzi migliori, anche quelli di Flaubert, sono pieni di zeppe, furbizie, volgarità da mestierante. Emozionare un lettore, farlo piangere, ridere, indignarlo e avvincerlo, è un lavoro sporco, un esercizio subdolo.  Mi lasci aggiungere un’ultima cosa su un argomento che mi sta a cuore. Per molto tempo ho prestato attenzione alla plausibilità. Fomentato dagli occhiuti editor mondadoriani e da un sacro fuoco moralista, ho lavorato affinché nella storia che stavo approntando i conti tornassero. Oggi so che è uno scrupolo inutile. Bisogna fidarsi delle proprie invenzioni. Non occorre spiegare tutto, né stare lì a giustificare ogni cosa. Pensi alle città dei film western ricostruite dagli Studios. Ogni spettatore consapevole sa che le facciate degli edifici sono posticce, che dietro non c’è niente. È un’illusione. Un trucco. Ma che importanza ha? Se il film ti prende, tale maldestra mistificazione architettonica viene acquisita con leggerezza e subito dimenticata.

M.M. Sempre a proposito di voce, e cominciando a entrare nelle sue pagine. Di un autore riusciamo a riconoscere, ad apprezzare, chiaramente la sua voce già dagli incipit, e mi piacerebbe infatti riprendere le prime righe di Persecuzione: «Era il 13 luglio 1986 quando un imbarazzante desiderio di non essere mai venuto al mondo s’impossessò di Leo Pontecorvo». L’accento, che segna la vita del protagonista, finisce inevitabilmente sull’aggettivo «imbarazzante». Che nella sua produzione non è affatto un aggettivo trascurabile, anzi: parole come imbarazzante, vergogna, partecipano a un campo semantico che lei indaga molto. Vorrei chiederle di questa sua indagine dei sentimenti di vergogna e, citando Nabokov, domandarle inoltre se questa indagine è per lei il suo «piccolo bagaglio ornamentale personale».

A.P. Niente titilla più il mio sadismo come mettere in imbarazzo un personaggio, infilarlo in qualche situazione difficile da cui io stesso stenterei a riavermi. Insomma, lei ha messo il dito sulla piaga. Nel mio immaginario, sentimenti come imbarazzo, vergogna, inadeguatezza, colpa, ipocrisia appartengono alla medesima area semantica. Non c’è personaggio da me inventato e messo in scena che prima o poi non provi disagio per ciò che è, e in virtù di questo non sia portato a fingersi un altro. Provo invidia per chiunque abbia imparato a indossare i propri panni con naturalezza, e a cuor leggero. Per me l’identità è un enigma inestricabile. Forse non è così strano che tale disfunzione caratteriale s’incarni nei miei personaggi.

M.M. Lei dice: «Niente titilla più il mio sadismo come mettere in imbarazzo un personaggio». Ma questo sadismo non si limita a un singolo personaggio, perché in realtà finisce sempre per comprendere tutta la sua famiglia. Nei suoi romanzi sembra quasi ancestrale, una sorta di richiamo alla tragedia greca, questa ereditarietà della vergogna.

A.P. Diciamo che, come per altri romanzieri amati, ho un debole per le famiglie e per le genealogie.  Non a caso le mie frasi non disdegnano l’uso di tempi e modi un po’ demodé, come il passato remoto i trapassati, sia all’indicativo che al congiuntivo. Immagino che tali abusi verbali denuncino un’insana ossessione per il passato. Di solito mi sforzo di non conferire a questa passione passatista accenti nostalgici, o ancor peggio, antiquariali. Come lei dice, credo negli atavismi. Ritengo che lo spazio di libertà di cui ciascun individuo può godere, rispetto al peso dei cromosomi, sia piuttosto risicato. Sebbene molti sociologi registrino ogni volta che possono i cambiamenti occorsi alle nuove strutture sociali, in cui la famiglia occupa un posto sempre più marginale, constato che nella realtà le cose funzionano altrimenti. Sia che tu voglia liberartene, sia che tu ne tenga conto, è impossibile sottrarsi al giogo delle famiglie. Se mi leggo dentro, registro che le opere narrative che mi hanno più persuaso negli ultimi anni hanno tutte a che fare con famiglie disfunzionali. I libri di Roth, per l’appunto, ma non solo. Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, gli splendidi romanzi di Eugenides (un autore che ammiro parecchio), l’intera opera di Eshkol Nevo. O pensando all’Italia, i romanzi di tre maestri alle soglie della canonizzazione come Domenico Starnone, Michele Mari e Emanuele Trevi (anche se il caso Trevi è un po’ più complesso e sfumato). Non se ne esce, le famiglie sono una maledizione. Normale che continuino a fomentare la fantasia degli scrittori. L’ereditarietà postulata da Zola è una prigione da cui è impossibile evadere.

M.M. Una mia curiosità da lettore. Lei si sente più vicino all’incipit di Anna Karenina di Tolstoj («Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo») o di Ada di Nabokov («Tutte le famiglie felici sono più o meno diverse tra loro; le famiglie infelici sono tutte più o meno uguali»)?

A.P. Credo che Nabokov abbia parodiato il celebre incipit tolstoiano per decostruirlo. Non perché ritenga che la frase di Tolstoj vada per forza ribaltata ma per mostrarci come ogni assioma apodittico possa essere invertito. È evidente che l’incipit di Tolstoj funzioni non meno bene di quello di Nabokov. Questo ci dice che non bisogna cercare nella letteratura buoni consigli per vivere o precetti eterni per affrontare i casi della vita. Le belle frasi (come quella di Tolstoj) servono a suggestionare il lettore. A emozionarlo. Non a insegnargli qualcosa. Per quanto mi riguarda, e sebbene m’imbarazzi mettermi tra quei due giganti, io direi che tutte le famiglie si somigliano, punto e basta.

M.M. Con la famiglia Pontecorvo nel 2012 ha vinto il Premio Strega. Ecco, mi chiedo, vincere un premio così importante per lei cosa ha significato? La conferma che anche gli altri riconoscevano la sua voce, che la sua produzione aveva il posto che si meritava? Altra domanda che terrei a farle è questa: quanto è annichilente e pericoloso un premio così importante?

A.P. I premi letterari, anche i più prestigiosi, sono una cosa carina, frivola e mondana che poco hanno a che fare con la letteratura. Servono più agli editori che agli scrittori. Fanno bene al conto in banca del romanziere, non certo alla sua vena o alla sua reputazione. Sottoporre un manufatto artistico a una gara è un gesto incauto e maldestro. Non compro un libro perché ha vinto un premio. Mi ferisce quando qualcuno, per presentarmi, non avendo idea di ciò che ho fatto di buono o di cattivo, mi definisce un Premio Strega, come se fossi un cibo DOC.  Ho ricordi vaghi e non tutti piacevoli della cavalcata che mi portò alla vittoria, mi è rimasto poco della notte in cui fui proclamato vincitore per un pugno di voti, se non per il fatto di essermi ubriacato e di essere finito in ospedale per un intervento di colecisti. Ciò detto, l’idea che qualcuno stia lì a indignarsi per l’eventuale corruzione di un premio mi fa un po’ sorridere. Ripeto: non sono una cosa seria. La lista di geni che non hanno avuto il Nobel è troppo cospicua per non gettare una luce di discredito sull’intera istituzione.

M.M. Abbiamo parlato del suo interesse narrativo per la famiglia e per quel sentimento di vergogna contro cui combattono (o sotto cui soccombono) i suoi personaggi. Adesso vorrei chiederle come guarda ciò che c’è al di là della famiglia: la società civile, il pubblico. In che modo si approccia con chi guarda la sua storia e partecipa lateralmente: all’interno del suo romanzo, da spettatore. E fuori dal suo romanzo, da lettore.

A.P. Non so bene cosa sia la società civile. Mi sono spesso imbattuto in questa espressione in contesti giornalistici che miravano a celebrare compositi drappelli di individui dediti al civismo e animati dal mito della «buona politica». Temo che questa roba non faccia per me. Altro discorso vale per il cosiddetto pubblico di lettori. Purtroppo o per fortuna, non ho molte occasioni di scambio con chi legge i miei libri. Al netto dell’infinita gratitudine che provo per loro, ho imparato sulla mia pelle a non tenere conto dei giudizi che esprimono, sia che siano benevoli sia che mi inchiodino alle mie inettitudini. Di norma mi rivolgo al «lettore implicito» teorizzato da Wolfgang Iser: una specie di lettore ideale con cui condivido gusti severi e bizzarre idiosincrasie. Sarei un ipocrita se dicessi che non tengo conto delle sue diuturne sollecitazioni. È lui che vorrei persuadere e sedurre.

M.M. Altro tema che segna – e forse lega – i suoi lavori è sicuramente il tema della memoria, del ricordo. Ci riallacciamo in qualche modo alle sue riflessioni sulla vergogna. Per lei memoria e ricordo non sono territori neutri a cui riapprodare di tanto in tanto, tranquille soste nel proprio passato. La percezione da lettore è che memoria e ricordo siano quasi delle aberrazioni dell’esistente, delle prigioni da scontare. Qual è il suo rapporto con la memoria? È possibile pensare di vincere questa battaglia contro la memoria?

A.P. Credo che la ragione per cui di norma – anche se non mancano illustri eccezioni – i romanzieri raggiungono la massima potenza espressiva a una certa età vada cercata nella relazione indissolubile tra la prosa narrativa e memoria. I romanzi che amo sono quelli che riescono a scolpire il tempo in modo plausibile. Niente è più toccante di un personaggio che invecchia pagina dopo pagina: la ciocca di capelli bianchi di Madame Arnoux, il piombo nelle scarpe del povero Barone di Charlus. Ecco perché la memoria, nel cosiddetto romanzo borghese, ha un ruolo centrale. Parte del piacere che traiamo dalla lettura dei   Buddenbrook risiede nella strana sensazione di disfacimento che grava su ogni pagina. Pare incredibile che Thomas Mann lo abbia scritto poco più che ventenne. Evidentemente ci sono ricordi, per esempio quelli di certe vecchie famiglie borghesi, talmente gravosi da suggestionare anche i giovani rampolli. Più passa il tempo più capisco il verso di Baudelaire: «Ho più ricordi che se avessi mille anni». La memoria ha un peso specifico imbarazzante. Personalmente ho un rapporto complicato con i miei ricordi. So che in buona parte costituiscono il fulcro della mia ispirazione. Vorrei solo che fossero più lieti. Comunque, se è vero ciò che diceva John Cheever – «la narrativa deve illuminare, esplodere e ristorare» – bisogna dire che essa riesce a farlo soprattutto quando è implicata, se non addirittura compromessa, con il tempo.

M.M. Mi piacerebbe discutere del suo recente incarico alla direzione dei Meridiani Mondadori. E domandarle, innanzitutto, qual è la sua idea di editoria. Chi è e che cos’è per lei un editore? Crede, come scrive Roberto Calasso nell’Impronta dell’editore, che l’editore sia una sorta di artista delle forme, che l’editoria sia il genere letterario in cui si esprime? Oppure, che l’editore sia solo il veicolo, il tramite, Giangiacomo Feltrinelli scriveva «una carriola», che permette di colmare la distanza tra il lettore e il libro?

A.P. I nomi che ha menzionato appartengono alla gloriosa storia dell’editoria italiana, implicati con la macchina molto più di quanto io non potrò mai essere, neanche se mollassi tutto e mi mettessi in proprio, aprendo una mia casa editrice. Per questo mi perdonerà se non raccolgo le sue sollecitazioni e non azzardo definizioni definitive che sarebbero velleitarie. Il mio punto di vista sulla questione è quello di uno scrittore. Mi lasci dire, allora, che, a dispetto di parecchi colleghi, ho sempre avuto una certa difficoltà a lamentarmi degli editori. Riconosco loro una folle generosità.  Ci vuole una bella fiducia nell’umanità per investire quattrini nel magro business dei libri. Occorre una forma di altruismo – di cui sono francamente incapace – per imbarcarsi nella lettura di migliaia di pagine scritte da romanzieri alle prime armi o da vecchie glorie in dismissione. Del resto, venendo da una famiglia di commercianti, mi affascina il lato artigianale delle grandi imprese editoriali. Il mio editore ideale è un raffinato connaisseur che coniuga fiuto, scaltrezza e buongusto, ossessionato dalla cura dei testi, degli apparati paratestuali e iconografici.  Ahimè, non sono molti gli editori in circolazione che corrispondano a questo identikit. Temo che il mestiere, la consuetudine, la routine, la permalosità egotista degli scrittori, la volubilità dei lettori e la grettezza della macchina promozionale (giornali, premi, classifiche) alla lunga contribuiscano a rendere il funzionario editoriale medio un individuo cinico, risentito e disperato.  Ciò detto, come non apprezzare il mazzo che si fanno per la causa?

M.M. In che modo ha accolto la proposta di guidare i Meridiani?

A.P. Con stupore, imbarazzo, fierezza ed entusiasmo (in questo preciso ordine di apparizione). Sono grato a Enrico Selva, Francesco Anzelmo e Luigi Belmonte di aver pensato a me, ma mi chiedo quale balzana idea li abbia ispirati. I Meridiani, figuriamoci. Sono una cosa bella, seria e difficile. Per non parlare della gravosa eredità di Renata Colorni che ha svolto questa mansione per tanti anni con abnegazione e rigore assoluti. Grazie al cielo ho trovato una redazione incredibilmente competente, entusiasta e sollecita. Marco Corsi, il vero Deus ex Machina dei Meridiani, è un giovane editor con un’impeccabile formazione filologica che sa dove mettere le mani e come rassicurarmi. Il mio lavoro, almeno per il momento, consiste nel provare a immaginare Meridiani futuri: verificare se ci sono le condizioni per metterli in piedi. Il che significa identificare autori canonizzati o degni di canonizzazione e trovare curatori e traduttori adeguati. Tra queste belle ambizioni e la realizzazione del progetto si frappongono una serie di complicazioni ineludibili: diritti contesi, agenti, editori concorrenti, eredi, eccetera.

M.M. Lei è un accademico, uno scrittore, uno degli intellettuali italiani più apprezzati: il suo arrivo ai Meridiani è un ritorno all’idea dei letterati editori?

A.P. Questo proprio non so dirglielo. Se allude a figure come Calvino, Sereni e Vittorini, temo che stia volando troppo alto. Come le dicevo, non sono un uomo generoso, né abbastanza curioso e aperto alle nuove tendenze. Sono pigro e scostante. I Meridiani fanno al caso mio proprio perché mi mettono a contatto con i classici che amo e su cui mi sono formato. Avrei serie difficoltà ad accollarmi una collana di contemporanei. Non ho il polso della situazione. Sono un lettore occasionale e distratto, con gusti molto capricciosi, se non addirittura settari. Insomma, un pessimo editore.

M.M. Che idee ha per i futuri Meridiani, e per il futuro dei Meridiani?

A.P. Con il passare dei mesi mi vado facendo un’idea sempre più precisa, non così diversa da quella tradizionale perseguita da Renata Colorni, ma per così dire più adeguata ai miei gusti. Vorrei concentrarmi sui classici e tenere un po’ in salamoia i contemporanei. Insomma, d’ora in poi sarà assai più difficile per uno scrittore vivente entrare nel canone dei Meridiani. Ce ne sono di morti, taluni fin troppo trascurati, che meritano una nuova ribalta. Naturalmente ho diversi autori in testa i cui nomi (per i motivi che le accennavo) non posso ancora menzionare.

M.M. Davvero un’ultima domanda. Ritornando al punto di inizio della nostra conversazione, ovvero a Philip Roth. E se fossero vere tutte quelle accuse che lo macchiano delle peggiori nefandezze, la mia domanda è: per continuare a leggere i romanzi di Roth, bisognerebbe ipotizzare la solita dicotomia tra letteratura e vita, tra lo scrittore e l’uomo; oppure basterebbe leggerlo nonostante tutto?

A.P. È difficile dirle quanto me ne infischio. Forse solo se conoscessi l’aramaico potrei riuscire a esprimere quanto poco mi avvincano le passioni veneree di Philip Roth, per non dire delle sue beghe coniugali e adulterine. Lascio volentieri il gossip ai maccartisti che infestano la scena letteraria contemporanea. La sola moralità che richiedo a uno scrittore è racchiusa nelle sue frasi. Non se a questo punto Roth dovrà scontare il purgatorio della damnatio memoriae inflitto da qualche comitato etico del menga. So che finirà. Si figuri che c’è stato un tempo in cui alcune università non studiavano più Mallarmé e Proust perché troppo decadenti e non abbastanza comunisti. Alla lunga hanno stravinto Mallarmé e Proust. Vincerà anche Roth. Dopotutto è morto, cosa vuoi che gliene importi? Ha l’eternità dalla sua.

ARTICOLO n. 96 / 2024