ARTICOLO n. 37 / 2021

TRAGICOMMEDIA

ESTATE A FIRENZE

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate 2021, a Firenze è andata in scena una bislacca tragicommedia attorno alla basilica brunelleschiana di Santo Spirito, e specificamente attorno al suo sagrato. Da anni sagrato e scalinata, tradizionali punti di ritrovo della socialità popolare cittadina, sono al centro di polemiche alzate ora dal priore della basilica, ora da certi «comitati di cittadini» molto ristretti rispetto alle migliaia di cittadini che quotidianamente vivono la piazza, per via degli schiamazzi e di occasionali pisciate, che si potrebbero eliminare d’un colpo installando dei bagni pubblici ma che evidentemente torna più utile strumentalizzare, andate avanti finché il comune non ha deciso di limitare l’accesso al sagrato.

 Lo ha fatto con dei grossi blocchi parallelepipedoidali di cemento, sui quali sono stati installati dei pilastrini – è stata anche l’occasione per la cittadinanza di scoprire che si chiamano «chiodi fiorentini» –, dall’uno all’altro dei quali sono state tese delle gomene; infine il quadro è stato completato con delle fioriere – refugium peccatorum dell’urbanista, per dirla con lo scrittore Filippo Tuena, intervenuto per commentare lo scempio. Il fatto che ciascuno di questi elementi sia stato aggiunto a distanza di un giorno ha conferito alla vicenda, di per sé soltanto triste, visto che si andava a togliere ai fiorentini uno spazio da loro vissuto da cinquecento anni riuscendo al contempo a deturparlo, tratti d’involontaria comicità. Non sono mancate le contestazioni, sia organizzate sia spontanee, ma il Comune ha fatto capire che non intende cambiar direzione e quarantatré ragazzini, colpevoli di aver ribaltato simbolicamente i pilastri, sono stati denunciati con accuse piuttosto pesanti, come se il loro fosse stato un atto di vandalismo e non una legittima protesta.

La prima occasione per alzare la tensione rispetto alla piazza erano stati gli assembramenti della notte del 25 aprile 2021, in seguito alle celebrazioni per la Liberazione che tradizionalmente si svolgono proprio in Santo Spirito. Occasione ghiotta, come tutte quelle in cui si può usare la pandemia come un martello selettivo, ma anche paradossale, visto che il giorno dopo, riaperti i dehor di bar e trattorie, in ognuno di essi vi erano assembramenti di gente priva di mascherina. A prima vista sembrerebbe quindi solo un’altra ordinaria storia di decoro, anche perché Firenze non è nuova a simili operazioni: si pensi agli scalini del Duomo, «cordonati» già dal 2003, o al surreale caso dell’acqua gettata su quelli di Santa Croce nel 2017 –, solo che in genere avvenivano col pretesto dei «bivacchi» dei turisti, presenza mai particolarmente gradita ai fiorentini. Nel caso di Santo Spirito, e del 2021, la questione è tuttavia differente. Lo è perché Santo Spirito è una delle poche piazze ancora frequentate dai residenti, e alla luce di quanto si è visto in un anno di lockdown ci si aspetterebbe che la prima preoccupazione dell’amministrazione fosse quella di riportare i fiorentini in centro, piuttosto che di continuare ad allontanarli.

Con la pandemia, Firenze si è infatti scoperta vuota. Muta, desolata, battuta dal vento: disabitata. L’attesa riapertura dopo il lockdown ha rivelato un centro città deserto. Che i turisti fossero una parte consistente della popolazione, lo sapevamo: solo, non immaginavamo così consistente. Oppure, come in un sogno confortante, a noi sparuti, residui abitanti del centro piaceva immaginare che almeno una parte di quella massa umana che ogni giorno dava alla Firenze che attraversavamo l’apparenza di una vera città, le appartenesse veramente. Non era così, e il risveglio è stato brusco: non solo per le strade e le piazze vuote, ma perché la città si è scoperta pure in bancarotta. Solo qualche mese senza tassa di soggiorno e introiti turistici, e il sindaco ha paventato il default. Musei civici e biblioteche chiuse, eventi annullati (a farne le spese sono stati per primi quelli sorti dal basso, come il festival letterario Firenze RiVista, che costava al Comune circa un quarantesimo del prezzo dei pilastri – pardon, «chiodi fiorentini» – di Santo Spirito) e appelli a ipotetici benefattori che per non si sa per quale motivo, se non un tornaconto a livello d’immagine, avrebbero dovuto prendersi a cuore il destino di una città la cui rete di legami internazionali non si era mai scoperta così superficiale.

Al di là dell’indignazione social per certi tentativi di pezza peggiori del buco, come l’appello a popolare i locali del centro, che suonava un po’ come «studenti, cittadini, venite a sostenere chi vi ha cacciato», ciò che si è rivelato già alla prima uscita dalla quarantena è stato il fallimento di un modello di città orientato solo al turismo (o al massimo, più recentemente, a cercare di favorire il turista ricco rispetto a quello povero). Che il centro perdesse un migliaio di abitanti l’anno, era noto. Che i proprietari di immobili preferissero, per ragioni di comodità e profitto, le locazioni turistiche temporanee agli affitti di lungo termine, pure. Che pezzi di città, come recentemente in Costa San Giorgio, venissero svenduti a chi intendeva farne ulteriori resort turistici, anche. Era però necessario questo svuotamento per capire l’esizialità della situazione. Perché normalmente, a Firenze, in quel centro la cui prima apparenza è un brulicare di vita, c’è solo una teoria infinita di schiacciaterie, bancarelle di souvenir, mercatini di souvenir, trattorie finto-tipiche, a perdita d’occhio e in ogni direzione. Se il turismo di massa è – secondo la definizione di «Lisboa does not love», associazione nata per contrastare l’overtourism nella capitale portoghese – inquinamento umano, la città turistica ineludibilmente diventa junkspace, spazio-spazzatura, secondo la definizione di Koolhaas. Quando il junkspace si svuota dalla sua fauna naturale – i turisti mordi-e-fuggi – ecco svelarsi un deadspace: una necropoli.

L’impatto della rivelazione tanatologica è stato così forte che anche il subconscio dell’amministrazione lo ha registrato. Sui tanti spazi per le affissioni istituzionali, normalmente destinati a mostre ed eventi, e vuoti in assenza di mostre ed eventi, sono apparsi, durante il primo lockdown, dei manifesti arancioni con piccole vedute a matita di una Firenze dall’aria speranzosa (e per lo più immaginaria, vista l’assenza, nei quadretti, di turisti e siti a loro destinati) e la scritta RINASCE FIRENZE. Il sottotitolo era «ripensiamo la città», e poco più in basso c’era un link che rimandava a un pdf che, dopo un inizio un filo sgrammaticato – «Firenze sembra risvegliata dal sonno della pandemia come un bellissimo animale che ha visto il mondo cambiare intorno alla città e ai suoi abitanti» – e un avvilente rimando alla resilienza, proponeva una serie di interventi su vari punti piuttosto generici, come policentrismo, rinnovamento del centro storico, mobilità green, sviluppo economico, cultura diffusa, che nella loro incontestabile condivisibilità parevano soprattutto tradire il percolaggio, anche nel centrosinistra, di una retorica messa a punto in questi anni dalle destre: atteggiarsi come se al governo, in questo caso della città, ci fosse qualcun altro. Le proposte appaiono per lo più plausibili: le si attuino… Detto ciò, un’analisi semantica suggerisce qualcos’altro. Rinasce solo ciò che è morto; si reinventa solo ciò che è si è scoperto sbagliato. In un modo o nell’altro anche a Palazzo Vecchio ci si è accorti che la situazione è questa. Dato che a margine della pagina web non mancava il form in cui il cittadino poteva inviare le sue proposte, così da vivere il brivido illusorio della partecipazione, proviamoci, anche alla luce di quanto accaduto nel frattempo.

Il primo punto è rendersi pienamente conto che una simile situazione non è casuale, ma frutto di scelte che da almeno vent’anni vanno in una sola direzione. Il caso emblematico è quello dello spostamento di tante facoltà in periferia o fuori città, in «poli didattici» il cui nomignolo in alcuni casi dice tutto: quello di Novoli, che ospita oggi le facoltà di Scienze Politiche, Giurisprudenza ed Economia, è noto agli studenti come «Mordor», tutto questo mentre le università americane si affrettavano a prender possesso dei migliori palazzi – poiché sanno bene che vivere il patrimonio artistico di Firenze è parte integrante dell’esperienza di studiarci. Fu forse hybris: lapresunzione di pensare che il centro di Firenze potesse dirsi vivo e vitale anche senza i suoi studenti (e i servizi da essi tenuti in vita). Non era così.

Il secondo è capire che una situazione d’emergenza – letteralmente la morte di una città – richiede misure, ma soprattutto attenzioni, d’emergenza. Quello che a Firenze è mancato in questi anni, e che il piccolo form pare sottolineare in un gesto d’involontaria autoironia, è stata proprio la capacità di ascolto: non tanto di progettare, quanto di capire, almeno, dov’è che la città mostra ancora segni di vita che andrebbero intercettati e valorizzati. Oltre alla già citata kermesse Firenze RiVista, c’è un piccolo caso che ha assunto valenza paradigmatica: quello della Polveriera e del complesso di Sant’Apollonia. Negli stabili di proprietà della Regione Toscana, in cui ha storicamente sede la mensa universitaria, un gruppo di studenti e cittadini ha riqualificato alcune stanze abbandonate, trasformandole in uno spazio che in otto anni ha organizzato un paio di centinaia di eventi culturali, tra cui il partecipato Festival della Letteratura Sociale, ed è diventato sede di una trentina di progetti artistici permanenti. Quando il Consiglio d’Amministrazione dell’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio ha approvato, con il voto contrario delle rappresentanze studentesche, lo sgombero, è seguita una mobilitazione che ha rapidamente superato i confini cittadini, facendosi nazionale, e la Regione ha lanciato un progetto di «percorso partecipato» che ha dato indicazioni di tutt’altro segno, e i cui risultati restano per ora disattesi (più di una volta il chiostro, usato dai cittadini per molte attività, è stato nuovamente chiuso senza motivo). Ciò che più colpisce nella vicenda di Sant’Apollonia è il silenzio dell’amministrazione cittadina. Nonostante ci fosse in ballo il più attivo laboratorio culturale del centro di Firenze, oltre che una decisiva area verde, i suoi rappresentanti non si sono visti agli incontri del «percorso partecipato» né hanno rilasciato dichiarazioni in merito. Facile immaginare che dietro a un atteggiamento del genere ci sia una questione di sovranità: «è della Regione, se la veda la Regione». In una situazione normale sarebbe politicamente comprensibile. La situazione, però, non è normale. Proprio come in un ambiente al collasso vanno preservati gli ecosistemi residui, in una città che vive un’emergenza di queste proporzioni, la tutela, e magari la valorizzazione, degli ambiti in cui i cittadini spontaneamente si ritrovano, vivono, producono cultura, arte e partecipazione, deve diventare prioritaria.

Il terzo punto è la necessità di un cambio di mentalità: un altro fatto – se vogliamo speculare alla vicenda di Sant’Apollonia –, la recente assegnazione di uno stabile in comodato d’uso gratuito a un’organizzazione pro-decoro, una delle cui più recenti imprese è stata la cancellazione di opere d’arte da una facciata privata (e se invece dessimo spazi a chi l’arte la fa?), dimostra che la città è ancora legata a logiche «anti-degrado» funzionali alla gentrificazione – e quindi alla turistificazione e allo svuotamento dei quartieri.

All’apparenza casi individuali, quelli elencati sono in realtà segnali di uno scollegamento: quello tra chi il centro città lo vive, e chi lo amministra. Nonostante quanto è accaduto nell’ultimo anno, non c’è ancora piena coscienza dell’urgenza di un cambio di paradigma. Tant’è che un tal cambio non pare imminente: se nel 2016 l’Unesco inviava un richiamo alla città per il rischio di vendita di parti rilevanti del patrimonio artistico cittadino, oggi la soluzione che rischia di profilarsi all’orizzonte è la svendita di molti immobili di proprietà del Comune. E se invece si riconoscesse il peccato di hybris, e in quegli immobili si provassero a riportare associazioni, aziende e università (e chi le popola, giacché l’unica fauna reale che la città ha saputo attirare negli ultimi decenni, piaccia o meno, resta quella studentesca), ovvero le sole ricchezze di una Firenze che, senza di loro, ha scoperto di essere, più che un «animale bellissimo», solo il guscio vuoto di quell’animale? Alcune operazioni, come il progetto di rilancio del complesso di Santa Maria Novella, con una biblioteca e delle residenze artistiche, vanno in questa direzione, ma gli habitat hanno anche bisogno di una fauna, e tale fauna verrà attirata solo con una totale inversione di rotta, che cominci a valutare come positiva, auspicabile e da sostenere qualunque manifestazione di vita e aggregazione in questo centro svuotato e deserto.

ARTICOLO n. 93 / 2024