ARTICOLO n. 62 / 2022

TORNARE AI GIORNI FELICI DI VEDRIANO, DALLE PARTI DI CANOSSA

Dove sarò questa estate?

Qualche anno fa, proprio ad agosto, ebbi l’occasione di partecipare a una sagra: l’avevano chiamata Sagra della Street Art, forse per fare il verso a quei nomi con dentro la parola “Art”, che in quel periodo spopolavano sui social e che cercavano di unire questo termine a parole dal sapore melenso e stucchevole, di quel tipo di cose che si dicono da adolescenti per far colpo su un nuovo amore. Insomma, delle vere e proprie schifezze.

Allora tornavo da un lungo viaggio, avevo passato diverse settimane a dipingere in lungo e in largo, dove mi capitava e dove trovavo ospitalità: mi fermavo per qualche giorno per poi ripartire alla volta di nuovi incontri. Non avevo programmato un periodo di rientro, godendomi così quel modo di vivere un po’ ramingo che mi dava pace.

Viaggiavo in macchina. Avevo a disposizione una vecchia station wagon che da qualche periodo accompagnava le mie scorribande. Gli anni si contavano sugli interni lisi e sui numeri delle marce del cambio che piano piano la mano nel tempo si era portata via.

La fessura per le audio cassette segnava l’epoca a cui l’automobile era appartenuta, una sorta di linea di demarcazione, un segno geologico, di quelli che dividono un’era da un’altra, insomma, un mezzo d’altri tempi. Il contachilometri segnava quasi 500.000 km. 

Ricordo che allora mi divertiva pensare che se mi fossi diretto verso la luna appena uscito dalla concessionaria, in quel momento mi sarei già ritrovato sulla via del ritorno. 

La station wagon era comoda, forse per via dei sedili sfondati da anni di guida che la facevano assomigliare più a un vecchio divano che a un’automobile. Ero comunque riuscito a farmela bastare per ogni evenienza. L’avevo trasformata in una sorta di monolocale, una micro-stanza di un paio di metri quadrati che era in grado di assolvere a ogni mio bisogno essenziale e all’occorrenza era anche un divano letto per amici e compagni di viaggio dell’ultima ora. Il baule capiente non bastava mai per la quantità di vernici che mi portavo appresso. Inutile dire che quasi tutto lo spazio era occupato da latte di colori e vernici di ogni tipo, alcuni secchi ero costretto a stivarli sui sedili posteriori che, a ogni curva un po’ brusca, sputavano pittura ovunque e dopo qualche giorno trovavo alcuni barattoli totalmente riversi. Là dove il contenuto seccato si saldava al tessuto della fodera dei sedili in un unico grumo, duro come il marmo. C’era vernice ovunque, croste di pittura secca rendevano la macchina un guazzabuglio di colori e pennelli, un caos nel quale però stavo bene e mi sentivo a casa. Inutile dire che quel carrozzone fungeva da letto, riparo per la pioggia, pensatoio, scala, sala da pranzo. Insomma, era il mio personale avamposto verso il mondo.

Una mattina trovai così un messaggio nella casella mail dove venivo invitato a partecipare a una sagra dalle parti di Canossa, tra le colline reggiane. Conoscevo chi la stava organizzando, era un caro amico che avevo conosciuto qualche tempo prima e con il quale avevo già pittato vari muri. Senza nemmeno pensarci su due volte, accettai.

Era fine agosto, la sagra era alla sua seconda edizione, la prima si era tenuta in un paese vicino qualche settimana prima. Questa volta si sarebbe dipinto a Vedriano. Il paese era formato principalmente da due strade, che disegnavano una V sulla mappa del luogo. Una scendeva e l’altra saliva. Quelle strade e quella V mi ricordavano alcuni disegni di Escher, dove le strade si univano in un anello paradossale di continue salite e discese. 

In mezzo, qualche casa, alcune cascine e un’osteria. Affacciandosi sul fianco della collina, in lontananza spiccava la Pietra di Bismantova, una conformazione rocciosa presente da diverse ere geologiche. Sembrava tagliata con un coltello: le pareti verticali le davano un aspetto imponente e solenne, aspro e impervio. Lo so, forse quel posto non era migliore di tanti altri e di paesi come quello ce ne sono molti, sparsi per tutta l’Italia, ma li c’era ancora qualcosa da scoprire.

La sagra era stata concepita da due ragazzi del posto, due pittori o artisti che dir si voglia. In quel periodo, in tutto il mondo, si erano diffusi i cosiddetti festival di Street Art.

Eventi dal sapore pop e cool dove chiunque poteva immergersi nella “trasgressione” dell’underground, portando a casa selfie e cartoline in compagnia degli amati street artists al grido di “viva la bellezza, evviva l’arte libera”…

Inutile dire che la quasi totalità di questi eventi era un pretesto per esibire virtuosismi di scarso contenuto in città rese vetrine più per il benestare di politiche locali ora favorevoli che per una reale visione di senso politico e conflittuale.

Ma nulla più di soldi e fama possono cambiare radicalmente anche i modi più radicali di vedere la realtà e così sulla scia di quell’apparente nuovo mondo artistico prima disprezzato e ora osannato e reso fruttuoso dall’opportunismo politico, si moltiplicavano manifestazioni pubbliche con street artist protagonisti della mondanità culturale.

Parigi, Miami, Los Angeles, New York, Sydney erano diventate le nuove principali mete dell’arte pubblica, estimatori d’arte dell’ultimo momento si accalcavano insieme a ricchi annoiati pronti a investire in nuovi talenti dal sicuro ritorno economico.

Ma qui non eravamo certo a Miami o a Parigi, eravamo a Vedriano, frazione di Canossa, provincia di Reggio Emilia, pianura padana. Un piccolo paese che tentava, quasi eroicamente, di ribaltare le logiche della coolness offerte dagli art curator più quotati.

Nei giorni successivi al mio arrivo arrivarono molte altre persone per dipingere. I muri disponibili erano sparsi per tutto il paese, alcuni privati, alcuni del comune, altri ancora abbandonati. L’idea era quella di creare un meccanismo virtuoso in cui chi dipingeva offriva la propria fantasia e il proprio modo di esprimersi alla gente del posto creando così uno scambio, un movimento che portasse le persone del luogo e anche ovviamente qualche forestiero a partecipare attivamente, mescolandosi agli artisti con l’aiuto della vernice e anche del Lambrusco.

Le giornate si riempirono di nuovi piccoli eventi paralleli nati spontaneamente. Letture, musicisti di strada e semplici curiosi costituirono così la linfa vitale di quel fantastico “esperimento sociale”.

Definire tutto questo sagra fu quanto mai azzeccato. Perché quei giorni erano realmente e semplicemente niente di più e niente di meno di una vera e propria sagra. Una festa di paese – fatta di incontri casuali, bevute e balli – aperta a chiunque avesse voglia di partecipare, ognuno portando il proprio contributo di idee come di allegria, un movimento continuo di gente che andava e veniva. Nulla di più bello si può immaginare per dare vita a un luogo.

Tutti arrivavano a Vedriano, dal Regno Unito come dai paesi attorno, da Roma, Milano, Torino come dalle altre città europee. Tutti alla Sagra della Street Art!

Il muro che dipinsi era parte di una struttura abbandonata che un tempo doveva essere stata adibita a stalla. Un posto come tanti da quelle parti in cui probabilmente erano state allevate le famose vacche rosse, mucche da latte note per la produzione del Parmigiano Reggiano.

Il muro grezzo e ruvido era stato invaso dalla natura, coperto in parte da rovi e sterpaglia. Iniziai a potare e a farmi spazio in mezzo a quel ginepraio, aprendomi un varco sul muro, dove dipinsi due grandi mucche rosa carne.

Del resto volevo parlare delle tematiche legate all’allevamento intensivo e allo sfruttamento delle bestie per fini alimentari. Quindi quale posto migliore avrei potuto mai chiedere di una vecchia stalla abbandonata?

Avevo esteso le zampe delle due mucche trasformandole in braccia e gambe umane.

Il risultato era così quello di una di mucca antropomorfa incatenata alla mangiatoia. Una trasposizione della condizione animale sull’uomo, un Minotauro contemporaneo vittima delle scelte scellerate dell’essere umano.

Ci misi tre giorni per completare il muro, compreso quel momento per me fondamentale di riflessione che arriva a lavoro completato quando tento di capire se quello che ho fatto è una semplice schifezza oppure offre qualche possibilità di miglioramento.

Porto con me da allora molti ricordi felici di quei giorni. Momenti precisi che tengo con cura e ben separati nel mio cervello solitamente caotico e attraversato da continui pensieri e conflitti. Sono giorni che ho riposto dentro la mia testa, giorni spensierati che appaiono insoliti per me che non tendo certamente all’ottimismo, ma al contrario vivo e traggo energia proprio dal mio atavico pessimismo.

Ho sempre avuto molta cautela nel definire o nel circoscrivere ciò che provo e che sento. Non lo faccio certamente per avarizia o pudore, ma per timore, quello di non appartenere o di non essere all’altezza di sentimenti come la serenità o la spensieratezza, che spesso ho potuto osservare o incontrare solo da molto lontano, come echi di qualcosa di già perduto. Evidentemente devo avere quello che si dice un approccio proustiano al passato, non lo so. Di certo ho bisogno di tempo e pazienza perché sentimenti felici e leggeri come la spensieratezza possano sedimentarsi e quindi chiarirsi nella mia memoria fino al punto di essere compresi e come in questo caso ricordati.

Quella fu l’unica sagra della street art che si organizzò, sì, ci furono altri piccoli episodi a distanza di qualche mese, qualche tentativo di raccogliere ancora le energie e le forze che si erano liberate, ma senza alcun esito. E io non tornai più a Vedriano, almeno fino a oggi, mentre racconto quei giorni come fossero presenti e trasformo la mia memoria in un desiderio futuro, in un agosto del 2022 in cui tutto, desidero, possa ancora succedere con felicità e spensieratezza nonostante qualche foto sui social mi mostri quei disegni sbiaditi dal tempo.

ARTICOLO n. 93 / 2024