ARTICOLO n. 8 / 2025

TOMÀS SARACENO

il nostro modo di essere animali

Già dalla soglia, la sala bianca della galleria d’arte Pinksummer introduce un ordine altro rispetto a quello del centro di Genova: fuori ci sono il vento, i rumori scomposti, le strade strette; dentro, una quiete rarefatta, dove ogni elemento sembra in attesa. 

Dei poliedri sospesi (Cloud Cities: Species of Spaces and other pieces, 2023), dai toni ocra e bruno, richiamano alveari, frammenti di una natura familiare. La loro geometria austera lascia comunque aperti margini di fantasia; potrebbero essere nidi, spazi abitabili per piccole creature.

Sotto di loro, ombre solidificate (In the Shadows, 2023): profili di metallo nero che si fanno animali — cani e gatti — silenziosi, all’erta, mentre uccelli appena accennati tracciano traiettorie incompiute, proiezioni di un volo che non avverrà. C’è una tensione tra il dentro e il fuori, tra l’ordine e la possibilità, che percorre tutta la mostra.

Anima∞le, questo il titolo, porta la firma di Tomás Saraceno, artista argentino nato nel 1973 e berlinese d’adozione. La sua ricerca dissolve confini: umano e non-umano si intrecciano in una rete che è al contempo fragile e necessaria, dove ogni elemento naturale esiste come relazione, mai come assoluto. Nell’arte di Saraceno, l’equilibrio, se c’è, è dinamico, invisibile.

Tra le sue opere più celebri, alcune esposte anche da Pinksummer, spiccano le “ragnatele ibride”. Teche dal fondale nero, dove ragni diversi hanno tessuto architetture di seta che sono incontri, mai progetti. È un processo lento, inesorabile: un ragno tesse il suo disegno, un altro lo modifica, e così le geometrie si frantumano e si ricompongono. Ogni filo si somma a quelli precedenti, in una crescita inaspettata che non prevede un unico autore; l’opera non è del ragno né dell’artista, ma di ciò che accade tra loro. Le ragnatele, quindi, diventano ponti, connessioni tra specie, e forse è proprio questa l’intuizione più profonda che suscita la mostra: non possiamo mai davvero comprendere ciò che accade; possiamo solo osservare, accettare il mistero. Le teche, con il loro rigore formale impeccabile, racchiudono un processo che è puro abbandono, una resa totale all’imprevisto.

E mentre osservo le ragnatele ibride di Saraceno, la mente si sposta altrove, verso la storia di un amico e della sua casa di campagna. È un luogo che ha ereditato dai nonni, una casa che lo ha visto crescere, accoglierlo nei fine settimana, nei vuoti delle vacanze estive. La immagino, la casa, circondata da campi e alberi: è lì che lui si ritira, quando il mondo lo sopraffà, quando sente che la routine cittadina si gonfia fino a esplodere. Dice che immerso in quella natura può respirare davvero, pensare, vivere meglio. Vivere, sì, nel senso più semplice, più nudo del termine; vivere senza orpelli, senza eccessi.

E mentre penso al mio amico e alla sua casa di campagna, il mio sguardo torna alle opere di Saraceno, a due “alveari” della serie Cloud Cities, installati nel cortile di Palazzo Ducale, due alveari che aspettano l’arrivo di ragni, uccelli e insetti. Collocarli all’aperto non è un gesto simbolico, ma una proposta reale, concreta: la proprietà si trasforma in una condizione condivisa, in una coesistenza.

Se un uccello vi costruisce un nido, se un ragno vi tesse la sua tela, la scultura non appartiene più solo a chi l’ha acquistata, ma gli animali ne diventano co-proprietari. E allora il collezionista, di fronte a questo nuovo patto, deve accettare una responsabilità: rispettare i tempi e gli spazi di chi ha scelto di abitare e, di conseguenza, lasciare l’opera dove si trova.

In questa prospettiva, possedere non significa più controllare. Significa accogliere. Prendersi cura. La scultura smette così di essere un oggetto prezioso, uno status symbol, per diventare una piccola casa; e, in senso più ampio, la mostra smette di essere un oggetto di contemplazione per diventare esperienza, dove non c’è un centro e né un perimetro, bensì un sistema complesso, organico, che si evolve. 

E mentre osservo questo sistema, capace di accogliere creature del bosco e della città, mi trovo a riflettere su una parola, “animale”. Jacques Derrida ci avverte: questa parola non è semplice, non è neutra. È una trappola linguistica, un termine che non si limita a descrivere, ma ordina. L’animale, spiega Derrida in L’animale che dunque sono, non è mai singolo, ma collettivo: un “animot”, un amalgama di suoni che fonde le diversità non umane sotto un’unica ombra. E in quell’ombra, per contrasto, emerge la figura dell’uomo, colui che stabilisce il proprio dominio.

Però questa trappola non è soltanto linguistica; è politica. Giorgio Agamben, in L’aperto. L’uomo e l’animale, ci guida a comprendere come questa divisione abbia permesso di creare un’umanità normativa, una categoria che esclude ciò che non si conforma. L’animale, così come l’umano che sfugge ai canoni, viene relegato in una zona indistinta, un limbo dove non esistono diritto né riconoscimento.

E allora, si domanda Felice Cimatti, cosa rimane dell’uomo se togliamo l’animale? Nella sua Filosofia dell’animalità, l’autore rovescia la prospettiva: non è l’uomo a trascendere l’animalità, ma è l’animalità a fondare l’uomo. Questa animalità, lungi dall’essere una mancanza, è una ricchezza, una pulsazione costante che ci accompagna, ci modella, ci definisce. È la nostra essenza: corpo, desiderio, relazione. Negare l’animale significa, in fondo, negare noi stessi.

E così, mentre rifletto su ciò che il termine “animale” contiene dentro di sé, la mente mi riporta al mio amico e alla sua casa di campagna. Lo vedo entrare in cucina in una mattina qualsiasi, con quel gesto familiare, e aprire la dispensa. Lì si ferma. Resta immobile, la mano ancora sulla maniglia, lo sguardo fisso sul sacchetto della farina, strappato. I grani sparsi disegnano linee sottili sul ripiano. Nota il sacchetto di zucchero, anche quello aperto, violato. E qualcosa dentro di lui si contrae. Non è solo fastidio, è un peso indefinibile, un disagio che cresce, che sembra avere vita propria.

Dev’essere stato un animale, pensa. Un topo, forse. O peggio, un ratto: uno grosso, con i denti lunghi, affilati, pronti a mordere, a divorare ogni cosa. Nella sua mente si forma un’immagine vivida: occhi piccoli, lucidi, che lo osservano dal buio; un corpo grigio che si infila negli angoli, scivolando silenzioso, invisibile. Così, d’istinto, si pulisce le mani, le dita, come se quei pensieri lasciassero una traccia tangibile sulla pelle. E mentre lo fa, il pensiero si insinua più a fondo. Cosa succederebbe, si chiede, se per sbaglio dovesse mangiare qualcosa che quell’animale ha toccato, ha rosicchiato?

Lo sa benissimo: si vede già a letto, febbricitante, il corpo che trema, i dolori che percorrono le ossa. O magari afflitto da qualcosa di più grave, qualcosa che si diffonde, un’infezione rarissima, mortale. Il disordine dei sacchetti strappati lo inchioda. Non riesce a fare nulla, perché sa, sente, che quell’animale non è solo nella dispensa. È ovunque. È nella casa, nei muri, nei corridoi. È dentro di lui, dentro i suoi pensieri, e lo insegue, lo perseguita. E, d’ora in avanti, non lo lascerà mai in pace.

E mentre penso alle paranoie del mio amico, lo sguardo si posa su tele color avorio, sospese a un’altezza insolita, quasi a sfiorare il pavimento della galleria d’arte (Wayra, 2023). Non occupano lo spazio con autorità, ma si offrono a un’interazione inattesa. Dentro quelle tele ci sono odori, materiali, un linguaggio che non parla a noi, ma ai cani, e che li invita ad avvicinarsi, ad annusare, a esplorare senza esitazione. Osservo da vicino: alcuni hanno raschiato la superficie con le zampe, lasciando piccoli segni, graffi appena visibili; altri, incuriositi, si sono spinti oltre, lasciando tracce di saliva, sbavature lucide che hanno infranto la sacralità della tela.

L’interazione è diretta, priva di esitazione o reverenza. I cani non osservano l’opera con distanza; la vivono. Rispondono a qualcosa che li chiama, che li coinvolge. E in questo semplice gesto, Saraceno svela una posizione di tipo politico: l’arte contemporanea non è solo da guardare, ma da toccare, alterare, persino sporcare. È un campo di forze che può sfuggire all’intenzionalità dell’artista e diventare qualcos’altro.

E mentre guardo i segni lasciati dai cani sulla tela, la mente torna al mio amico. Lo vedo mentre si mette in azione. Recupera tutto ciò che può aiutarlo: polveri, granuli, esche avvelenate; fa ricerche online, chiede in paese. Riempie ogni bordo della dispensa, ogni ripiano, ogni fessura, con una precisione pitagorica. E guarda le sue mani che spargono il veleno, che mettono trappole ovunque, trappole che poi controlla ossessivamente, giorno e notte, ma che ogni volta trova vuote, immacolate, eccetto per qualche pallina scura. Gli escrementi, sì, quelli ci sono. Com’è possibile, si chiede. Come può quell’animale sfuggire sempre, essere così astuto, così veloce? La frustrazione si insinua lentamente, fino a trasformarsi in dubbio – dubbio di sé, della sua capacità di controllare la casa, del proprio equilibrio mentale.

Decide allora di spingersi oltre. Compra una telecamera, una di quelle che si usano per catturare immagini di animali notturni. La posiziona con cura, e ogni mattina, con ansia, guarda i video. Ma non trova nulla. Nessun movimento, nessuna apparizione, nessuna traccia. Eppure sa che l’animale è lì. Lo sente, lo percepisce. E allora il dubbio si fa più profondo. È tutto nella sua testa? Quell’animale esiste davvero, o è solo un pensiero che si è radicato, una paura che cresce al buio e non lo lascia più andare? 

E mentre penso al mio amico, che al telefono dice che adesso la casa di campagna gli sembra più vuota, più estranea, lo sguardo si posa sulla silhouette di un gatto in metallo nero, adagiata a terra. La gallerista si avvicina e con un gesto delicato la ribalta. E allora capisco: l’ombra del gatto, capovolta, non è più la sua, è quella di un topo, e a me viene da ridere perché penso a cosa direbbe il mio amico.

ARTICOLO n. 7 / 2025