ARTICOLO n. 18 / 2025
THESE BOOTS ARE MADE FOR WALKING?
Qualche settimana fa, per motivi di lavoro, ho rivisto Barbie, il film di Greta Gerwig uscito in Italia nell’estate dello scorso anno. Guardandolo in uno spazio intimo, secondo i miei tempi (da neurodivergente, faccio fatica a stare al cinema, circondata da persone che bisbigliano e mi distraggono) ho potuto cogliere molti elementi a cui, complice una prima superficiale visione, avevo dato poca importanza. Uno di questi ha a che fare con le scarpe. I pensieri di morte che improvvisamente rompono l’idillio nel regno di Barbieland si manifestano una mattina quando, appena sveglia, Barbie Stereotipo appoggia i piedi a terra e si rende conto con orrore che hanno perso la loro, celeberrima, forma arcuata, perfetta per gli stiletti che è solita indossare. Barbie Stramba le rivela che per rimettere le cose a posto deve compiere un viaggio nel mondo delle persone umane. Insomma, la scelta è tra due opzioni: tornare a indossare gli amati tacchi e far finta di nulla oppure optare per le famosissime e sgraziate ciabatte estive, e partire all’avventura. Per almeno tre volte, Barbie Stereotipo cerca di afferrare le splendide décolleté rosa, salvo poi capire che non vi era alcuna possibilità di scelta.
Esattamente come per la nostra protagonista, per molte donne le scarpe sono molto più di semplici accessori. Nel nostro viaggio intorno ai miti del femminile, quindi, non potevamo che occuparci del mito per eccellenza, quello che si manifesta attraverso le scarpe e i loro significati simbolici. L’intricato rapporto tra femminilità e tacchi alti è raccontato benissimo nella serie tv Sex and the City, in cui la protagonista Carrie Bradshaw e le sue amiche si ritrovano in molte scene prima a sognare, poi a comprare e infine a indossare tanti modelli differenti, tutti haute couture, sempre caratterizzati da materiali preziosi e altezze vertiginose. La serie racconta delle vicende di quattro amiche intente a far decollare la propria vita sentimentale e professionale nella Manhattan di fine millennio. Entrambe le parti della loro vita – quella più intima e quella più pubblica – sembrano sorreggersi su quei power heels che portano ai piedi. Come ricorda la scrittrice Summer Brennan in Tacco alto, si tratta di un tipo di scarpa che «incarna l’idea della metamorfosi». Le donne che le indossano, infatti, si trasformano: la loro andatura cambia inevitabilmente, appaiono più alte, il corpo assume una posizione protesa in avanti, il loro radicamento a terra avviene attraverso una parte acuminata – lo stiletto – che deve il suo nome a un’arma da taglio, precisamente a un pugnale particolarmente piccolo e maneggevole. Insomma, le scarpe femminili non sono mai solo un accessorio ordinario.
Probabilmente non lo diremmo, osservando l’andatura incerta di una donna che ondeggia sui tacchi, ma le scarpe nascono, migliaia di secoli fa, per facilitare gli spostamenti. I primi umani le fabbricarono in modo rudimentale, attraverso pelle di animale o fibre vegetali, allo scopo di rendere meno doloroso il movimento. Quelle rialzate, più simili a come le conosciamo oggi, furono invece realizzate per proteggere i piedi di chi frequentava i bagni pubblici, con i loro pavimenti caldi, pieni di acqua stagnante. Con il tempo si diffusero in tutto il Mediterraneo con il nome di qabâqib, ed è nella penisola iberica che i saraceni le videro e iniziarono a produrle usando strati di sughero per la suola. Le chapínes spagnole giunsero poi in Inghilterra e in Francia, dove, in tempi recenti, furono trasformate in modelli più simili a quelli presenti nei nostri armadi.
C’è un aspetto che accomuna il sessantaquattrenne ingegnere britannico Mark Bryan e lo scrittore italiano Stefano Ferri: entrambi hanno, da tempo, sdoganato l’uso di capi d’abbigliamento tradizionalmente associati al femminile, come gonne e tacchi alti, utilizzandoli abitualmente sia al lavoro che nel tempo libero. Come denunciano sui loro canali social, spesso le persone li deridono definendoli in maniera dispregiativa “femminucce”, oppure mettendone in discussione l’eterosessualità (dimostrando pertanto di non aver chiaro il concetto di orientamento sessuale). Rimarrebbero stupiti, forse, se si raccontasse loro che le moderne scarpe con il tacco nascono proprio come accessorio maschile. I talon hauts, che troviamo a Parigi nel XVII secolo, di ispirazione mediorientale, furono l’accessorio preferito del sovrano Luigi XIV, che grazie a questo espediente poteva accentuare la muscolatura dei polpacci e segnalare così la propria appartenenza a un rango sociale superiore. Come il suo successore Luigi XV, erano gli unici, insieme alla loro corte, a poter indossare scarpe foderate di seta rossa, che rappresentava simbolicamente il sangue dei vinti. «I tacchi» – sottolinea pertanto Brennan – «fecero il loro debutto in Occidente come simbolo di un potere militare virile, persino violento, e della sua espansione economica a livello intercontinentale».
Rimane da chiedersi, allora, cosa permanga di questo retaggio nei moderni tacchi che affollano i guardaroba delle donne di tutto il mondo.
Concordo con Summer Brennan quando, nel volume già citato, sottolinea come la storia dei tacchi sia una storia di contraddizioni. Il moderno stiletto è una rivisitazione nata dalla mente dello stilista Roger Vivier negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando, con un artificio, riuscì a produrre tacchi di oltre sette centimetri, ben diversi quindi dai kitten heels che andavano di moda all’epoca.
Il trucco era semplice ma ingegnoso: introdurre nel rialzo posteriore una sottilissima anima di acciaio che impediva al tacco di collassare su stesso a causa del peso di chi li indossava. Tuttavia, come fa notare Brennan, è curioso osservare che «mentre le donne iniziavano via via a occupare più spazio nel mondo del lavoro e nella sfera pubblica (…) le scarpe giudicate adatte a quel tipo di vita divennero più traballanti».
Nel 1977 viene pubblicato The Woman’s Dress for Success, una sorta di manuale in cui John T. Molloy forniva suggerimenti di stile alle donne in carriera. Per essere prese sul serio dai colleghi e dai clienti in ufficio, ricordava alle lettrici, è necessario non indossare mai i pantaloni, optare per un power dress – una sorta di tailleur strutturato ed elegante che richiama la stessa sobrietà tipica del completo maschile – e scegliere sempre delle sofisticate décolleté.Anziché adeguare il nuovo ambiente di lavoro alle donne, quindi, gli uomini sembrano di gran lunga preferire la risemantizzazione dei confini entro cui tollerarne la presenza.
Per molto tempo si è discusso intorno ai tacchi: sono buoni o cattivi? Andrebbero aboliti o, al contrario, promossi? Sessualizzano o conferiscono potere a chi li indossa? Il dibattito non è una novità: qualcosa di analogo è accaduto nei confronti di ciò che Naomi Wolf definiva il mito della bellezza, un ideale a cui le donne apparentemente aderiscono liberamente ma che agisce da dispositivo di controllo.
Il pericolo implicito resta lo sguardo (e il potere) maschile, che si riflette nella vita delle donne. Nel romanzo La donna che rubava i mariti, Margaret Atwood scriveva che «anche far finta di non essere asservita alle fantasie maschili, è una fantasia maschile (…) sei una donna con dentro un uomo che guarda una donna. Sei il voyeur di te stessa». Il male gaze, teorizzato in ambito cinematografico da Laura Mulvey, si manifesta fuori dai confini della letteratura e dell’audiovisivo proprio nell’immagine contraddittoria che conferisce a quegli oggetti che sono caricati simbolicamente di significati altri, come appunto le scarpe.
Il potere che l’altezza sembra garantire, quindi, fa da contraltare al dolore che necessariamente deriva dalla postura assunta con i tacchi. È difficile pensare che un accessorio tanto scomodo, che conferisce un’andatura traballante e incerta, possa costituire un simbolo di riscatto. Ancora una volta siamo davanti alla sua natura duplice e contraddittoria:se nell’Estremo Oriente la fasciatura dei piedi era appannaggio delle bambine più ricche, cioè di coloro che non avevano bisogno di camminare e faticare per vivere, in Occidente per tanto tempo i tacchi sono stati associati alle sex worker, che rappresentavano per alcuni la massima libertà sessuale e per altri l’estremo assoggettamento alla volontà maschile. Nelle fiabe, una scarpetta libera Cenerentola dalla schiavitù della matrigna mentre un paio di calzature rosse, raccontate da Andersen, puniscono Karen per la sua vanità, obbligandola a danzare senza sosta.
Tutti questi esempi dovrebbero portarci a prestare un’attenzione diversa, o come dice Brennan «a non sovrapporre la metafora della cosa alla cosa in sé». Le scarpe, al pari degli altri miti che hanno contribuito a definire un certo ideale di femminilità, si stratificano e assumono significati diversi nel tempo e nello spazio. Quello che resta una costante è la misoginia e il sessismo che, più o meno apertamente, si respira ancora, pressoché ovunque. Ne La mistica della femminilità, Betty Friedan osservava come il binarismo di genere e il continuo richiamo a una presunta naturalità per giustificare il comportamento di uomini e donne abbia permesso agli uni di sottomettere le altre. Il problema resta, in definitiva, la cultura patriarcale che usiamo, a volte inconsciamente, per definire e fossilizzare i miti. Seguendo il richiamo del poeta e scrittore Giorgio Maria Cornelio ne I fossili di rivolta, mai come oggi abbiamo bisogno di trasgredire il mito, riabilitandolo in una danza liberatoria. Sui tacchi o a piedi scalzi, poco importa.