ARTICOLO n. 14 / 2022
Sympathy for the devil
Un bel po’ di tempo fa ho avuto una relazione brevissima, di quelle che chiamarle relazioni mi fa quasi sorridere, che hai giusto il tempo di dire, «Ehi, sembra molto interessante!», ma poi si rivelano essere solo una costruzione inesistente poggiata su fondamenta di pancarré inzuppato d’acqua.
Ci conoscevamo da anni: io vivevo ancora a Milano, avevo i capelli rosso fuoco e non soffrivo gli hangover. Stiamo parlando, dunque, di una vita fa.
Mi era amico, appariva e spariva a intervalli regolari ma era una persona su cui potevo sicuramente contare quando mi succedeva qualcosa che mi faceva stare male.
Bella testa, penna così così: aveva quella cosa tipica delle persone intelligenti, che non si applicano perché alla fine «massima resa e minima spesa» è più allettante: un potenziale così pigro non l’ho mai visto in tutta la mia vita e me ne sono sempre dispiaciuta.
Una persona davvero interessante, ma che non ero mai riuscita a incrociare per una relazione o anche solo una scopata occasionale. Solo una volta ci eravamo quasi andati vicino ma poi, sul più bello, lui scelse una modella svedese al posto mio e io finii fidanzata con un ragazzo delle mie parti. Tutto tacque per anni, ma non la nostra amicizia: lui si subì stoicamente le mie lacrime per altri uomini e io le sue ansie per altre donne.
Ci siamo rincorsi a più riprese senza mai concretizzare, complice anche la mia attenzione che non resta troppo a lungo sulle cose: mi distraggo, dimentico, non rispetto le scadenze (e qui la redazione di The Italian Review lo sa bene), sparisco per giorni, ho un pessimo rapporto con Whatsapp, inizio a trovare più attraente stare in casa che uscire, odio le sorprese e tante altre meraviglie che mi fanno passare da sociopatica. Quando in realtà sono solo piuttosto svampita.
Poi, però, in questo gioco di apparizioni e sparizioni, io e lui abbiamo incrociato i nostri flussi. Per caso. Una sera in un locale.
Con un limone da sedicenni e un postumo da sbornia degno di ogni bella serata. E la relazione ha dunque preso forma.
Iniziata con il botto, con uno slancio di romanticismo che solitamente è presagio di poca sostanza (come quelle feste piene di decorazioni glitterate che riescono a mascherare il pessimo alcol e la musica di merda in filodiffusione) ma a cui non ho voluto dare il peso che in realtà meritava: una relazione ibrida, tra un film di Muccino (urlano tutti, si corre un sacco, ci sono tremila comparse e fidanzate nascoste) e una canzone di Lucio Dalla (ancora lacrime, un sacco di lacrime, «un sacco di capelli che non si riescono a contare»). Il suo declino è iniziato presto.
Certo, all’inizio era bello.
Poesie, libri, note scritte sul telefono e inviate mentre l’altra persona dorme, treni, stazioni, litri di vino – postilla per il futuro: se beve più di me può esserci la non così remota possibilità che abbia un problema con l’alcol – viaggi, libri, auto, case, fogli di giornale: tutto da manuale e una tenerezza bambina che non lasciava spazio ai discorsi da adulti.
Ci sono volute poche settimane infatti per capire che la mia, più che la figura dell’amante, era la figura della madre.
Con tutti i mali che questa cosa può comportare.
Divento presto la nemica, colpevole di andare veloce e avere una vita caotica (si chiama lavoro, ma tant’è).
I miei consigli diventano presto armi, la mia richiesta di maturità diventa impertinenza, il mio essere concreta diventa segnale di stronzaggine.
Il bisogno di confronto costruttivo sui temi a noi cari diventa anch’esso un fardello dal quale liberarsi e la mia immagine, da divinità greca scesa in terra avvolta in una veste di lino bianco, si trasforma nella figura della matrigna di Cenerentola.
La capacità di reciproco arricchimento e crescita che qualsiasi relazione dovrebbe dare assume di colpo l’aspetto di una minaccia che mina la tranquillità dell’altro. E l’altro comincia a essere screditato in modi più o meno bizzarri, più o meno maturi («stai a fa’ la punta ar cazzo» assurge a frase emblematica di questa mia seconda opzione).
Di colpo la voglia di risolvere i problemi era diventata una cosa di cui non parlare, le mie necessità erano di troppo, esistevano solo le sue. Ogni mio bisogno – dal semplice dormire insieme al mio desiderio di confrontarmi su aspetti che i nostri lavori ci portano quotidianamente ad affrontare – era visto come pesante, come motivo di ansia, come qualcosa che si poteva evitare perché non serviva, a detta sua, per assicurare la riuscita della relazione. La mia paura di essere invisibilizzata nella storia era diventata una bambinata. Fino a quando questa paura non si è realizzata e io, di punto in bianco, sono stata divorata dalla sua necessità di non affrontare le cose. E da un giorno all’altro mi ha fatta sparire. Come se fossi un pezzo di un programma elettorale che era appena stato spuntato e su cui non tornare più. Non avevo più voce in capitolo su di noi, su di me in quel primordiale agglomerato sociale che è la coppia, su quelle che erano le mie richieste. Non c’ero più.
Ho smesso presto di piangere per il fallimento di questa relazione che tanto desideravo e ho ritrovato la lucidità.
E ho capito che non era lui, proprio lui, solo lui a essere così: era tutto il sistema.
Tutto il fottuto sistema in cui viviamo.
Il percorso che ha preso questa vicenda sentimentale al sapore di un film con Laura Morante (si fuma un sacco e si urla, si urla sempre anche lì) mi era infatti davvero familiare.
Ho avuto come l’impressione di aver già visto questo meccanismo più volte ma non in altre relazioni, bensì in una pratica quotidiana a cui assisto con rassegnazione ormai da tempo: quella con cui la bolla conservatrice liquida le istanze progressiste e le tematiche sociali che ultimamente prendono spazio nell’editoria, sui giornali e sui social media.
Per capirci: se fate divulgazione, scrivete o anche semplicemente ricondividete un contenuto altrui su un diritto civile o sociale che vi tocca o vi sta particolarmente a cuore, sono più che convinta che tra i commenti o gli inbox da voi ricevuti troverete almeno tre, «eh, ma che pesante», oppure, «ci sono cose più importanti», ma anche dei «ecco che arriva la maestrina».
Non è un vizio di forma dei social media, ma una prassi culturale sistemica di mantenimento del controllo.
Chi detiene il potere, infatti, per poter continuare a fare un po’ quello che vuole, usa da sempre dei metodi di retorica piuttosto standardizzati e talmente diffusi da essere entrati di prepotenza nel nostro uso quotidiano.
Prendiamo il dibattito sul ddl Zan per fare un esempio.
Lega e Fratelli d’Italia per mesi hanno cercato di liquidare le istanze previste dal decreto originale affermando che fosse superfluo, inutile, che ci fossero ben altri problemi, che esistessero già leggi ad hoc per le situazioni specificate nella bozza, che fosse divisivo, problematico, contro natura, una potenziale rovina della calma e della tranquillità del Belpaese.
Invalidare le istanze civili non è sicuramente cosa nuova e recente come l’affossamento del ddl Zan.
Pensiamo allo ius soli. O alla richiesta di riconoscimento da parte del SSN di vulvodinia e neuropatia del pudendo come malattie croniche e invalidanti. O ancora alla legalizzazione della cannabis: tutte cose che sono reputate pericolose, o inutili, o fuori dal tempo.
Ogni volta in cui si propone un’istanza, questa viene liquidata dall’intero sistema come superflua, come viziata, come potenzialmente rovinosa.
L’ultimo caso, in questo senso, è tutta la polemica su schwa e linguaggio inclusivo, che ha animato i conservatori di tutto lo Stivale che hanno perfino creato una petizione su change.org (diretta a chi?) per vietare (come?) l’uso della schwa (perché?) che avrebbe, secondo loro, distrutto la lingua italiana (quando?).
E questo smisurato terrore davanti all’inevitabile cambiamento linguistico, civile e sociale, si porta dietro un’infinita tenerezza che coincide con la smania di detenere il potere e il controllo in ogni modo possibile, anche schiacciando gli altri, i loro bisogni, il loro linguaggio, i loro desideri.
In più, piccolo off topic, fare leva sulle paure ataviche della gente è l’unico modo in cui la destra del giornalismo – che si finge di sinistra perché altrimenti non tirerebbe manco tre copie in croce – ha per vendere: la paura come forma di controllo è la cosa più vecchia che ci sia, talmente vecchia da far quasi pena.
«Pesantoni», «pericolosi», «maestrine», «rompicoglioni», «viziati», «rancorosi» sono tutti termini che vengono affibbiati a chi è esigente di cambiamento.
Un cambiamento che per sua stessa natura deve mettere in crisi. Perché – spoiler! – senza crisi non esiste crescita.
Il problema è che questo modo di invalidare le istanze altrui, a forza di vederlo replicato all’infinito in ogni nostro sistema di riferimento, lo abbiamo portato anche tra le mura di casa.
Nelle nostre relazioni. Nelle interazioni con chi troviamo su internet.
Nell’amore e in tutti gli altri demoni che ci permettono di vivere nel mondo.
Abbiamo disimparato il confronto preferendo la fuga, ma prima di fuggire preferiamo screditare il nemico. Quando spesso questo nemico neppure lo è.
Riprendendo il mio incipit: se anche una persona cosi sveglia e a noi vicina adotta il metodo del sistema per silenziarci o sviare dalle giuste richieste che apportiamo per le nostre necessità, allora vuol dire che non siamo più in grado di sostenere una conversazione su larga scala.
Se anche il più piccolo agglomerato sociale, ovvero la coppia, crolla davanti alla necessaria spinta verso l’accrescimento reciproco, come pensiamo che possa funzionare un dibattito così esteso?
Abbiamo disimparato a fare le cose insieme. Crescere, innanzitutto.
Abbiamo dimenticato la cooperazione, sia questa tra due, tre, quattro o quattro milioni di persone.
Individuiamo da sempre le proposte di crescita, scontro e confronto come pesanti, non necessarie, invadenti, superficiali. Perfino diaboliche, alle volte.
Eppure io ho sempre avuto una certa simpatia per quel diavolo lì.
Quello che ti smembra le fondamenta e ricostruisce la casa dal primo mattone, con il fervore di chi crede davvero in chi ha davanti: sia una istanza sociale che una singola persona, un compito, un lavoro, un amore.
Ho sempre avuto a cuore quel gioco di tacita sfida e fiducia che porta alla crescita, senza il bisogno di liquidare l’interlocutore come inadatto o di serie b.
È proprio questa la natura della crescita stessa: farsi del male per creare nuovi spazi, finalmente abitabili, preferibilmente in compagnia (che brutto demolire da soli).
Trovare interlocutori – in qualsiasi campo della vita – che non abbiano timore della sfida costruttiva e distruttiva è stimolante e lo stiamo dimenticando, facendo strada a gossip da rotocalco e benaltrismo.
Ricominciare a giocare, mettendosi in gioco a nostra volta, è la parte centrale del percorso di crescita. E spesso è proprio la più divertente.
Dopotutto, qualcuno diceva:
What’s puzzling you is the nature of my game.
Pleased to meet you, hope you guess my name.