ARTICOLO n. 77 / 2022
STUDIO AZZURRO: SENZA REGOLE STABILITE
INTERVISTA A LEONARDO SANGIORGI
Nel 1982 irrompe nel mondo dell’arte “una bottega d’arte contemporanea” senza “regole stabilite”: Studio Azzurro. Oggi, quarant’anni dopo, incontriamo uno dei fondatori, Leonardo Sangiorgi, che, insieme a Fabio Cirifino e Paolo Rosa concepì questa grande opera in divenire che diverte, perturba, sconvolge gli esseri umani che la incontrano sulla propria via.
Andrea Gentile: Leonardo, la ricerca di Studio Azzurro è sempre stata indirizzata verso il continuo cambiamento. Negli anni, Studio Azzurro è stato promotore di opere universali e molto partecipate dal pubblico. Se dovesse trovare delle differenze tra le attività del primo Studio Azzurro e quelle del più recente, quali sarebbero?
Leonardo Sangiorgi: Nei primi quindici anni di attività penso che l’occasione di creare opere complete, a sé stanti, sia stata più facile, abbia avuto maggiori possibilità. Gli ultimi quindici anni invece hanno avuto un interesse soprattutto nell’ambito museale, e, grazie alla loro natura fortemente didattica e divulgativa, ci hanno permesso di sperimentare le opere d’arte a contatto con il pubblico. Ripenso alla nostra retrospettiva fatta a Palazzo Reale, che aveva come sottotitolo Immagini Sensibili (2016), e si proponeva l’obiettivo di creare un luogo di narrazione e partecipazione. Volevamo evitare che fosse soltanto un consuntivo del nostro lavoro, non doveva essere una sorta di «mausoleo». Doveva permetterci di mostrare il segno che il nostro lavoro ha impresso nell’indagare l’universo dell’immagine elettronica nel quale ci siamo avventurati.
A.G. E di certo non lo è stato, un mausoleo. Era una mostra perturbante. Potevi contemplarla per ore: sembrava infinita. Ma come nasce un’opera di Studio Azzurro?
L.S. Se ripenso a quei giorni, durante l’esposizione, ci siamo domandati quali sarebbero state le nuove direzioni, a partire da quella mostra, da intraprendere. Sono nate proprio delle proposte di indagine, tradotte poi in nuovi progetti. Penso che nel progetto di un’opera ci sia una dimensione metafisica del parlato che può permettere una visione oltre la dimensione fisica. Ogni progetto realizzato cristallizza la dimensione ideale del progetto che è molto più liquida dell’opera stessa.
A.G. Immagino che a volte lo scarto tra il progetto e la messa in atto possa anche essere abissale nelle sue sfumature: quando un’opera non è ancora presente ma esiste in una dimensione progettuale multiforme e incerta.
L.S. Capita, è vero. Devo dire che, con nostra grande sorpresa, ogni volta che rivediamo i disegni dei progetti, non c’è un lavoro di Studio Azzurro che non sia nato attraverso un testo, un disegno o uno schizzo. Non ci sono stati molti progetti che sono poi cambiati rispetto al disegno progettuale.
A.G. La mia percezione è che il motore propulsivo del vostro lavoro, ciò da cui tutto nasce, ci sia il poetico. Il poetico come spazio aperto, che accoglie gli universali: il corpo, l’animale, il politico, anche.
L.S. Sì, certo, non può non essere così. Il poetico è anche politico, verissimo. Lavorare con i musei è inevitabile, ed è un politico non partitico, ma si immerge in una dimensione che permette di osservarci e di osservare. Il tema dell’elemento poetico nella nostra capacità espressiva è stato uno dei primi che abbiamo evoluto: Studio Azzurro nasce principalmente da un legame di amicizia, c’era un’energia strana, eravamo affascinati dalle immagini, dalle immagini in movimento. Quando facevo l’accademia, andavamo spesso alla cineteca in San Marco vicino a Brera. A quel tempo l’unica fonte di immagini in continuo movimento a cui noi attingevamo. Mi ricordo un giorno con Paolo Rosa e Fabio Cirifino, stavamo spiegando a qualcuno cosa intendevamo come «elemento poetico». E tirando fuori una penna dal taschino: «Ecco vedi: questa è una penna. Ma è anche un dirigibile, uno Zeppelin». Quello è stato il gioco con cui abbiamo letto e interpretato l’idea di trovare, di attivare, aprire l’interruttore dell’elemento poetico. La sfida è stata poi fortissima a partire dal mondo analogico in cui vivevamo: avevamo un forte bisogno di immagini elettroniche.
A.G. Come siete riusciti ad intersecare questo vostro bisogno con quegli anni: era un tempo analogico e voi cercavate l’elettronico, se non il digitale.
L.S. Gli anni Novanta. C’è stato il salto, il big bang dell’universo digitale e noi abbiamo cominciato a lavorare con strumenti e con macchine che erano state originate per tutt’altri scopi. La sfida è stata grande, avevamo una domanda in mente: dove era l’elemento poetico in macchine create per fare operazioni ripetitive e somme di operazioni banali? Il nostro lavoro è nato di pancia, non di testa, mettendo insieme delle cose e vedendo che effetto facevano.
A.G. Una parola che mi è spesso tornata in mente osservando i vostri lavori è contemplazione. Contemplazione del tempo e dello spazio: al centro c’è sempre il presente, che è come un’anguilla. Appena lo afferri scivola via.
L.S. Una prospettiva interessante. La contemplazione è il contrario dell’indifferenza. Tante volte ci siamo sentiti chiedere «ma come reagiva il pubblico?». E la risposta è che è sempre stato polarizzato: o grande attrazione o grande repulsione; abbiamo incontrato pochissime volte l’indifferenza. I progetti teatrali con Giorgio Barberio Corsetti, nel quale l’elemento dell’immagine elettronica era preponderante, non sono stati certamente apprezzati dalla critica, che era del tutto impreparata. Invece, per esempio, l’intuizione di usare i monitor per poter vedere una figura intera, la scala uno a uno, quella non è stata progettata, avevamo solo voglia di vederla! Senza barriere dentro il nostro quotidiano.
A.G. Da fruitore mi chiedo quanti abissi ci sono nell’immagine che spezzetta Il Nuotatore (1984), che viene frammentata dal tubo catodico, dai tanti tubi catodici, perché ci sono significati altri che si insediano in quegli spazi vuoti. Che cosa c’è tra uno schermo e l’altro?
L.S. Ti restituisco una visione tecnica: il Nuotatore è composto da monitor Grunding, perché era l’unica ditta che aveva messo il sintonizzatore nella parte sottostante per cui potevamo impilare lateralmente i televisori. Con gli altri monitor non si sarebbe potuto fare in quanto erano tutti un po’ asimmetrici e il sintonizzatore era laterale, mentre i Grunding potevano essere accostati con la minor distanza possibile. Anche nello spettacolo con Giorgio Barberio Corsetti, Prologo a Dario segreto contraffatto (1985), gli attori sembrano uscire dal terreno e arrampicarsi sulle colonne di televisori e sembrano risalire da un monitor all’altro; in realtà, salivano su una struttura di tubi Dalmine che era esattamente allineata fra gli spessori dei bordi dei televisori e in scena si aveva l’impressione che si appoggiassero, piano per piano, sui monitor.
A.G. Questa è una modalità che c’è spesso nei vostri lavori, la sensazione di vivere nello spazio artistico: ti senti pubblico e ovviamente non sei soltanto pubblico, interagisci. C’è uno spazio che viene colmato dalla tua immaginazione.
L.S. Sì, molto spesso. Il rapporto con lo spazio per noi è un elemento importante che, ad esempio, ci ha portati ai video ambienti. Fino a quel momento quando guardavi qualcosa a casa alla televisione o al cinema eri seduto davanti e avevi un unico punto di vista. Tutto era immobile, eri uno spettatore amputato perché la tua interfaccia totale del mondo erano gli occhi e le orecchie. Tutti gli altri sensi venivano letteralmente spenti e chiusi. Quando abbiamo lavorato a Luci di inganni (1982) abbiamo messo l’osservatore, l’utente, in una posizione attiva perché doveva accendere dei monitor per vedere i mobili, che erano nello spazio, come immagini: è nato automaticamente questo dialogo tra spazio e immagini elettroniche. Quello ha spostato immediatamente tutto il racconto, perché il fatto di potersi spostare in uno spazio usando le gambe, il tuo peso e la tua dimensione corporea ha completamente slittato il rapporto dell’utente con le immagini e il rapporto dell’autore con il fruitore stesso. Tu osservatore che ti muovi in uno spazio compi la tua regia: tagli, monti, ti sposti, cambi inquadratura e così via, fai una tua regia e quindi la dimensione autoriale cambia molto. In questo senso la dimensione poetica si è agganciata e ha fatto come una sorta di dinamo tra l’opera e il fruitore-osservatore.
A.G. Genera una proliferazione di significati: sono infiniti, potenzialmente.
L.S. Infiniti, sì. L’illimitatezza data dall’opera stava proprio nell’esperienza personale: vivere un’esperienza. Quando, qualche giorno dopo aver inaugurato Coro (1995), abbiamo incontrato delle persone che avevano visto l’opera e ci siamo sentiti dire «ho avuto l’impressione di camminare su dei corpi», quello per noi è stato il raggiungimento. Vivere finalmente l’esperienza.
A.G. Coro (1995) per quel che mi riguarda ci dice anche un’altra cosa: l’arte prolifera di significati, come la mente. È potenzialmente infinita. Le persone che vediamo forse dormono. Ma forse soffrono. Forse sono a un passo dal morire. Forse stanno per rinascere. Forse sono al risveglio o forse all’addormentamento. Nell’unicità dell’istante: un testo infinito. Una cosa che non finisce mai di essere scritta.
L.S. D’altronde, pensiamo al linguaggio: l’alfabeto è fatto di ventiquattro lettere e guarda cosa sono riuscite fare!
A.G. In questo metamorfismo digitale come respirano le idee di Studio Azzurro?
L.S. Nell’ultimo periodo ci siamo domandati se queste tecnologie, che noi usiamo e che sono diventate così pervasive e presenti, capaci di restituirci grandi poteri – sempre più veloci; collegati al punto da diventare ubiqui -, potessero essere usate per esplorare un mondo interiore. Vorremmo verificare se il mondo digitale fortemente proiettato fuori da noi, possa essere rivolto invece dentro di noi. Mettere a fuoco un mondo interiore e rappresentarlo.
A.G. In un meccanismo come quello contemporaneo il rischio è anche essere in ogni luogo e non esserci mai. Non viviamo mai l’esperienza veramente, non stiamo mai dentro l’esperienza perché stiamo pensando ad altro. E allora tutto diventa l’opposto della parola che usavamo prima, contemplazione.
L.S. Sì, quella parola deve essere una delle componenti per una percezione dell’elemento poetico.
A.G. Insisto sulla contemplazione. Produciamo migliaia di pensieri al giorno. La mente prolifera e ci trascina da tutt’altra parte. Magari sto guardando Coro, la sto vivendo, e però penso alle melanzane di mia madre, al fatto che domani ho un colloquio di lavoro o al fatto che ho un piccolo dolore allo stomaco che mi preoccupa moltissimo. Sono presente solo in parte. Sono lì col corpo, ma in realtà sono complice di quel cavallo imbizzarrito che è la mente. Sono il suo fantino. Non sto vivendo l’opera. Il mio multitasking inferiore mi porta fuori dalla contemplazione. Il vostro capolavoro, per me, è che siete riusciti a fare opere contemplative e multitasking al tempo stesso.
L.S. Sul nostro cammino, nel domandarci dell’introspezione attraverso le tecnologie, abbiamo trovato come delle tracce molto precise. Siamo umani, sempre umani. Fin quando possederemo questa capacità di guardarci a vicenda, di esplorarci, non potremo mai fare a meno di stare insieme attorno a un tavolo a parlare di cose immateriali. Farci credere che possiamo escludere questo, è un grande errore, non potremmo mai farlo. Ed è per questo scambio, per questo riconoscersi nelle emozioni, nelle esperienze di altri e condividerle, che deve esserci immancabilmente la nostra presenza. Sia corporea che emozionale. Attraverso un incontro nel quale ci possiamo sbagliare, arrabbiare, litigare, ritrovarci. Si pensa che le macchine artificiali non abbiano capacità di errore. Studio Azzurro invece si interessa proprio agli errori: a ciò che chiamiamo «frattaglie digitali», scarti dell’universo software digitale, i cosiddetti bug. Tutto ciò che viene scartato nella ricerca dell’intelligenza artificiale, quindi la demenza artificiale, a noi interessa e ci diverte, così che possiamo parlare non di realtà aumentata, ma di ragione diminuita. E pensando sempre all’ubiquità e alle emozioni ogni tanto mi diverto a immaginare se si spegnesse la rete per più giorni, in che stato d’animo una persona potrebbe trovarsi. In mancanza di queste protesi che ci danno la possibilità di avere una estensione planetaria del nostro carattere.
A.G. Certo, è l’altra faccia delle protesi.
L.S. Tutto sta un po’ nell’interfaccia che abbiamo verso tali protesi. Per esempio, con l’avvento del mondo digitale Studio Azzurro ha provato a praticare attività di tipo collettivo con Tavoli (1995). In cui l’interfaccia invece di essere joystick, keyboard o mouse erano superfici sensibili che si contrapponevano al fatto di essere soli davanti al computer, andando a indagare il rapporto uno a uno tra utente macchina.
A.G. Un autentico spazio sensoriale. E quando si percepisce, vince il presente.
L.S. Il tema della sensorialità qui era preponderante, rispetto alla convenienza e alla comodità delle industrie digitali che hanno ridotto tutto ad una superficie liscia, monosensoriale. Tavoli (1995) ti invitava a sentire le venature di un legno, la ruvidità di una pietra o la pelle di un tamburo. Noi continueremo a spingere perché gli ambienti sensibili siano habitat, come diceva anche Paolo Rosa, nel quale tu ti muovi e hai esperienze plurisensoriali non solo multimediali ma multimodali, proprio. E quando tu cominci a usare l’interattività «in modo poetico» è come sbattere contro una parete, ci fa riflettere, vuole dire che c’è ancora un gran margine di lavoro poetico.
A.G. C’è una cosa che mi viene subito in mente, parlando di ambienti sensibili: il percorso al buio, il “Dialogo nel Buio”, dell’Istituto dei Ciechi. Nel quale entri e vivi un’esperienza di cecità per un’ora. Togliere un senso per far esplodere gli altri sensi.
L.S. In quel caso si arriva a togliere la capacità di utilizzare gli altri sensi e devi sviluppare una nuova consapevolezza, in modo da aderire all’esperienza che fai. Devi imparare, prestare attenzione, metterti in gioco: esserci. Così come appunto era, forzando un po’ la cosa, Il Nuotatore: non c’era solo una persona che nuotava avanti e indietro per un’ora. Nelle dodici cassette abbiamo montato cento piccoli insert per cui, ogni tanto, nel passaggio del nuotatore, su un singolo schermo, c’è un piccolo accadimento della durata utile per non farlo intercettare dal nuotatore che passa, spezzando così la continuità che avrebbe potuto portare a una sorta di consuetudine.
A.G. La violenza dell’istante.
L.S. Invece questi elementi sparsi casualmente, questi cento elementi, non solo attirano l’attenzione, ma ti permettono, ancora una volta come dicevamo prima, di sviluppare un tuo personale racconto, spostandoti di volta in volta e avendo differenti punti di vista in differenti momenti.
A.G. Per chiudere, Leonardo. Come affrontate il “quarantesimo anno”? E il futuro?
L.S. La realtà complessa e complicata nella quale viviamo sollecita e richiede una strategia di pensiero e azione articolata e diversificata. Anche se apparentemente in contrapposizione con quello appena esposto, una parte delle nostre intenzioni o direzioni di interesse e di ricerca per il futuro, riguardano quello che abbiamo sempre fatto, lo Studio Azzurro continua a interessarsi al rapporto tra le persone e le tecnologie, utilizzando in senso più aperto il linguaggio della poesia per sviluppare e/o attivare gli “anticorpi” necessari alla complessa convivenza con questi strumenti, a volte estremamente potenti, che ormai non possono essere disgiunti e ignorati dalla nostra vita quotidiana. Un altro tema che riguarda le nostre attività future è strettamente legato a quello appena detto, non esistono tecnologie buone o cattive, discrete o invasive, efficaci o inutili, dipende tutto dal modo in cui vengono usate e chi le usa sono le persone stesse., siamo noi. Quindi se vogliamo migliorare il nostro rapporto con questi strumenti, rendere il loro uso più utile per noi, dobbiamo adoperarci per cambiare anche noi stessi. Guardiamoci attorno, siamo circondati da grandi innovazioni tecnologiche ma a distanza di millenni, l’uomo uccide e opprime ancora i suoi simili per ragioni a volte difficili da capire. Per questo e per il fatto che un creativo, un artista è chiamato ad essere un testimone del suo tempo e ha un ruolo sociale e politico molto forte, nella società in cui vive, deve attraverso le sue capacità visionarie, immaginare e suggerire nuove direzioni da tentare e perseguire. L’azione di ricerca dello Studio Azzurro si sta orientando, quindi, non più verso la realtà esterna che ci circonda o quella virtuale, che più sottilmente ci rispecchia ma si domanda se non è giunto il momento di orientare questi strumenti tecnologici così potenti e la propria azione di ricerca verso quell’universo che non sta fuori di noi ma che, invece, è profondamente immerso e radicato dentro di noi.