ARTICOLO n. 34 / 2025

SOBRI MAI

Sono passati ottant’anni da quel 25 aprile 1945 che cambiò drasticamente la storia del nostro paese.

Ottant’anni, la nascita di una Repubblica democratica, di una Costituzione fieramente antifascista, di uno Stato e un Codice che ripudiano e condannano il fascismo e ogni sua apologia: sembra passato molto tempo ma in verità ottant’anni sono davvero pochi.

È, infatti, meno di un secolo fa che eravamo ancora sotto dittatura, quella fascista. Un regime sanguinario, vendicativo, crudele, che ha demolito il paese e ucciso, imprigionato, torturato, confinato migliaia e migliaia di persone.

Un passato molto recente e sanguinario, fatto di patti e alleanze con i nazisti, ronde punitive, squadrismo, fucilazioni in piazza, sospensione di ogni diritto, ideali barbari e primitivi come, solo per citarne alcuni, la teoria della razza, l’antisemitismo, il determinismo biologico, l’identità nazionalista, il militarismo, la violenza come strumento di risoluzione supremo di ogni conflitto, l’omicidio come naturale e quotidiana pratica politica.

Il fascismo, che ci costrinse a quella che è stata la guerra occidentale più sanguinaria dell’epoca moderna, distrusse l’Italia, riducendola a brandelli: la più assoluta povertà e il divario sociale creati dalle scellerate e fanatiche politiche mussoliniane ci avrebbero messo anni per risanarsi anche solo in minima parte. 

Negli anni in cui il regime prese con la forza le redini del paese, costringendoci al conflitto mondiale, abbiamo sperimentato ciò che chiameremmo “barbarie” se a viverlo fosse un qualsiasi altro stato. Non ci fu niente di positivo nel fascismo, non credete alla retorica dell’«ha fatto anche cose buone»: è una giustificazione ricca di revisionismo storico apportata da chi nei valori fascisti crede ancora o in chi ha troppo senso di colpa per ammettere serenamente di aver contribuito alla scalata di potere di un individuo come Mussolini.

Ma nonostante il terrore, la paura infusa come forma di controllo, le fucilazioni, le ronde, la guerra, i rastrellamenti, le purghe, gli stupri targati camicie nere, i rapimenti e il confino, il tessuto sociale italiano non si arrese alla logica prepotente e dittatoriale del regime fascista, tantomeno alla compresenza delle truppe naziste nel nostro territorio. Nacque quindi il movimento noto come Resistenza, il più trasversale che la nostra storia abbia mai visto nascere.

Comunisti, laici, preti, contadini, avvocati, donne, ragazze, anziani e giovanissimi, disertori, monarchici, repubblicani, liberali, socialisti, si unirono sotto l’ideale universale di antifascismo, organizzandosi in brigate motivate dalla prospettiva della liberazione dal nazifascismo.

Presero prima le campagne, gli Appennini, le comunità montane, la linea Gotica (e contribuirono all’avanzata degli alleati verso la linea Gustav, che venne sfondata definitivamente nel 1944) e dai boschi si mossero verso le città.

Gli anni della Resistenza furono intensi, forsennati e dignitosi, fieri e inarrestabili: la popolazione civile si armava e combatteva il nemico che era interno, vicino, spesso parente, spesso insospettabile. Furono anni fondamentali, perché portarono a una collettiva presa di coscienza, ovvero che davanti all’oppressore e al veleno mussoliniano l’unico antidoto era la reazione antifascista.

L’organizzazione in brigate partigiane fu contagiosa, sintomo di quanto forte fosse l’ideale di libertà nella fragile Italia del tempo. 

Il 25 aprile di ottant’anni fa, dopo anni di scontri sanguinosi, morti, fucilazioni, vendette, bombe, spari, con così tanti morti alle spalle, le brigate partigiane e gli alleati entravano nelle città liberandole dal fascismo.

Ed entravano festeggiando.

Il giorno in cui le brigate partigiane invasero le vie di Milano, di Torino, Genova, Bologna, Prato, Trieste non fu un giorno di cordoglio, ma un giorno di rumorosissima festa.

Carovane capitanate da preti che sparavano in aria, baci tra sconosciuti, caroselli di furgoni e camion, musica, lacrime di gioia, atti scomposti – e per questo così puri – di felicità che simboleggiavano la nuova condizione di libertà e liberazione. 

Non furono sobri, i nostri nonni, quando ci salvarono. 

Non furono sommesse quelle celebrazioni, nonostante arrivassero dopo anni di brutali uccisioni e giorni di inasprimento della vendetta fascista e nazista che, consapevole dell’imminente tracollo, intensificò i rastrellamenti per “fare numero” e martoriare il martoriabile prima di darsi vigliaccamente alla fuga. 

Non ci fu cordoglio, quello arrivò dopo, insieme alla doverosa realizzazione del disastro che il fascismo ci aveva lasciato. Ci furono invece piazze invase da bandiere italiane e abbracci.

In quest’ottica, guardando da vicino cosa fu la Liberazione e quali furono le reazioni della nostra società (di tutta la nostra società: il 25 aprile a non festeggiare furono solo i fascisti), le parole di Giorgia Meloni sulla necessità di festeggiamenti sobri dell’ottantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo in seguito alla morte di Papa Francesco – per la quale sono stati previsti cinque giorni di lutto nazionale: mai successo prima che fossero così tanti per la morte di un pontefice – suonano come le unghie sui famosi specchi.

Non starò qui a ragionare su quanto la fede sia un aspetto soggettivo e che uno stato laico debba necessariamente mantenere una scissione tra celebrazioni religiose e non.

Non starò neanche qui a fare delle ipotesi – seppur molto poco azzardate – su quanto questi cinque giorni di lutto nazionale siano funzionali proprio a coinvolgere anche le celebrazioni del 25 aprile, sollevando il governo neofascista da un bel peso che tocca portare ogni anno. Come ha scritto Xhuliano Dule, stand up comedian e sceneggiatore, «cinque giorni di lutto nazionale: non si è ancora capito se per il Papa o per la sconfitta durante la Seconda Guerra Mondiale»). E non sarò neanche io a ricordare di quanto questo lutto così esteso permetta al presidente Meloni di evitare un ennesimo “premier time” in Senato.

Non sarò neanche io a ricordare come ogni 25 aprile gli esponenti del governo si diano sistematicamente alla macchia (imprevisti, incontri all’estero, inderogabili appuntamenti, sagre a cui non si può assolutamente rinunciare etc etc) forse perché per loro questa ricorrenza è più un lutto che una celebrazione.

Ma mi interessa analizzare la richiesta di sobrietà fatta dal presidente Meloni, perché a mio avviso nasconde dei significati ben più preoccupanti di quelli che possiamo leggere in prima battuta.

Meloni non è sprovveduta, sa benissimo quanto potere abbiano le parole.

La sobrietà a cui il suo governo – nella persona di Musumeci – richiama gli italiani in questo ottantesimo anniversario è strategica.

Meloni sa infatti benissimo quanto la nostra collettività stia perdendo la memoria e quanto, in questo processo apparentemente irreversibile, la pesantezza della ritualità e della solennità abbiano un ruolo centrale.

Decontestualizzare una volta per tutte questo giorno dalla sfera della festa, della celebrazione, della gioia anche caotica che caratterizzò quel primo 25 aprile del 1945, è funzionale a renderlo qualcosa di dogmatico, pesante, lontano nel tempo, triste, cupo, sommesso.

Relegare la Festa della Liberazione a giorno istituzionale è anche utile ad allontanare le nuove generazioni dall’esercizio di empatia che la memoria richiede. 

Come si può empatizzare con qualcosa che empatico non è, come una celebrazione istituzionale che ha i tratti di una marcia funebre più che di un giorno di festa?

E così il richiamo alla sobrietà si inserisce in un più ampio contesto, quello del revisionismo storico a cui questa maggioranza ci vuole abituare ormai da qualche anno.

Se prima hanno provato a svuotare il senso del termine “antifascismo” (ne scrivevo qui poco tempo fa) adesso provano a svuotare le celebrazioni antifasciste dalla propria festosa, gioiosa natura.

Così facendo, tentano di pastrocchiare con la storia, di mischiare le carte in tavola, confondendo chi è anagraficamente più lontano dal quel 1945 e rendendolo distante dal sentimento di orgoglio che andrebbe invece tramandato generazionalmente.

E così, dopo questa ramanzina al sapore di revisionismo, i primi sindaci e le prime organizzazioni hanno abboccato, revocando alcuni concerti, spostando eventi ritenuti troppo frizzanti per una data laica che si sovrappone a un lutto privato e cristiano, cancellando rassegne considerate fuori luogo.

La Liberazione si sta purtroppo trasformando da anni in una parata istituzionale priva del suo primordiale, importantissimo senso. Questa data così importante è stata impomatata in qualcosa di liturgico, svuotata del suo significato rivoluzionario.

Le piazze, gli eventi, le manifestazioni sono state inglobate nel discorso politico e rese un carrozzone respingente, dannoso per il tramandarsi stesso della memoria, contribuendo all’allontanare sempre più persone dalla condivisione dei concetti e ideali antifascisti.

La sobrietà che il governo raccomanda è perfettamente in linea con la volontà di allontanare l’antifascismo dalla dimensione popolare, delle piazze, della collettività, e di relegarlo invece agli aspetti burocratici e pomposi, impolverati, demagogici. 

Di partigiano in quest’ottica non c’è niente.

Per questo, oggi più che mai, negli ottant’anni da quel primo 25 aprile, con un governo che nasce dalle ceneri dell’MSI e che agli ideali fascisti è ancora così legato, dobbiamo celebrare in modo assolutamente non sobrio.

Così facendo non permetteremo al governo di strumentalizzare la morte di Bergoglio per fini così patetici, e permetteremo forse a questa festa di ritrovare il suo vero, originario nucleo: quello che racconta di come una rivoluzione, la rivoluzione partigiana, abbia portato alla nascita di una repubblica democratica cacciando il nazifascismo. 

Ottant’anni fa, in quel giorno di festa, nelle strade invase dai baci, dagli spari in aria, dalla musica, dai balli, dalle urla, dai caroselli e dalle bandiere italiane, venne fatta una promessa, ovvero che lo spettro del fascismo non sarebbe mai dovuto tornare a serpeggiare nella nostra società.

Oggi, davanti allo scenario di un Occidente fascista, è dunque importante riprendere le tradizioni e ricordare alla nostra comunità quanto l’antifascismo abbia lottato affinché noi potessimo festeggiare, liberandoci dalla paura. 

E va ricordato anche alle istituzioni, ai Comuni, ai sindaci che i giovani si conquistano alla memoria non solo con i funerali ma anche e soprattutto con le feste che celebrano chi li ha resi liberi.

La festa del 25 aprile è una festa di vita, quella che la lotta partigiana ci ha regalato.

Siate assolutamente poco sobri oggi: dopotutto non c’è niente che faccia più paura ai fascisti di una società consapevole della gioia che si prova nell’essere liberi.

ARTICOLO n. 33 / 2025