ARTICOLO n. 24 / 2022

SIAMO ANCORA ESSERI UMANI?

C’è un momento, nel tragitto che compio ogni settimana per raggiungere il carcere, in cui alzo lo sguardo e mi accorgo che la città si è persa, ha diradato i palazzi e esaurito i negozi, ha spento le voci, taciuto il trambusto, si è data più che poteva dal centro alla periferia in quella sua ansia perenne di dominio sul mondo e infine ha capitolato: è finita. Non c’è un confine netto, è un vago esserci e poi non esserci più. 

Quando la città finisce la prima cosa che diventa chiara è il silenzio. La seconda è l’appiattirsi dei colori in un grigio che dei colori del mondo è la sintesi tetra. La terza è la scomparsa del tempo per come lo conosco. Quello che separa la mia stanza dalla cella di un detenuto è un’ora e diciotto minuti con i mezzi pubblici. L’ultimo è un autobus, che è già l’intercapedine in cui il carcere si preannuncia. Sembra mosso dall’irrequietezza che irradiano i piedi nervosi e le borse strette a sé e gli occhi impazienti di chi inizia a tirare fuori il documento dalla tasca come fosse una chiave. 

Al contrario della città, che tenta ostinatamente di perpetuarsi, il carcere ha margini chiari, alte mura di cemento a delimitarne il dominio, e di ciò che c’è oltre se ne infischia. Si entra nel suo cuore come si aprono le matrioske: è una questione di strati. Alla prima porta lascio il documento, alla seconda il cellulare e con lui il ticchettio del tempo. Alla terza non ho più lo zaino con i libri. Alla quarta sono solo corpo e voce, corpo che deve camminare dritto, voce che deve suonare ferma.

La matrioska ha lunghi corridoi che si diramano in tutte le direzioni e io li percorro con lo sguardo inerme che ha una donna in un mondo di soli uomini e intanto gli occhi si posano sulle pareti addobbate di volantini e corsi di teatro, laboratori di pittura, lezioni di musica e promesse vane: vane perché il presente qui è finzione. I carcerati vivono indietro o avanti, nel passato o nel futuro, e a orientare la bussola è la lunghezza della pena. In carcere pena significa angoscia e essere arrestati significa passare dal moto allo stallo.  Gli uomini contenuti da queste mura sono solo brevemente il presente dei laboratori di pittura, e raramente indossano l’ottimismo della rieducazione, ma portano addosso sempre il tempo della loro pena – quattordici anni e otto mesi, dieci anni e nove mesi, ergastolo, ergastolo ostativo, fine pena mai. Ce l’hanno sulla punta della lingua, senza pudori: lo dicono come io dico il mio cognome, questione identitaria. 

Mentre io, De Silvestro, tutor universitaria, spingo una porta per un riflesso incondizionato di cittadina, una guardia mi dice che non serve a niente, che devo aspettare, che qui è tutto un’attesa. Qualcuno che non vedo mi vede e aprirà la porta per me, è un meccanismo che funziona come per chi crede in Dio. Mentre mi insegna i codici del posto la guardia mi sorride e io di riflesso sorrido, provando, in quella complicità, uno strano disagio.

Vengo in carcere per incontrare un detenuto. Uno studente. Uno studente detenuto. L’ho visto di sfuggita la settimana prima per consegnargli un libro. Non ricordo il suo viso. Lo ricordo giovane e un poco diffidente. Lo aspetti lì, mi dice un’altra guardia indicandomi uno stanzino, e allora io varco la soglia. L’ambiente è lugubre. Pareti rosa pastello, calorifero azzurro cielo. È il pallore tipico dell’edilizia pubblica quando finge cordialità. Assomiglia alle stanze degli ospedali che tentano di ingannare i bambini malati con un po’ di tinteggio giallo alle pareti dimenticando che anche i bambini malati hanno memoria del mondo e sanno bene che il giallo alle pareti a far le veci del sole non è calore ma presagio di morte.

Ho freddo, sarà il pallore.  Sarà quell’orto trasandato che sbircio oltre le sbarre della finestra. Pare che ci siano delle anatre. Si dice migrino in inverno e tornino in primavera. Le mura del carcere accolgono, indolenti ed eterne. Non importa nemmeno che sia vero, è una bella storia. 

Fisso gli oggetti intorno a me: un vecchio armadio dall’aria sovietica, scotch di carta con la scritta «da spostare», sedie diverse, raffazzonate, forse scarti della scuola. Lui tarda e io in questo stanzino fremo e allora mi alzo in piedi e apro la porta affacciandomi al corridoio perché mi prende una paura che mi dimentichino, che lui non arrivi, che dovrò ripercorrere i corridoi a ritroso, le sbarre, i campi, le case sparse, poi la città che inizia e con lei i rumori e il tempo di nuovo scandito ad ogni angolo e tutto di nuovo fra parentesi, attutito, perché da quando sono entrata nel carcere ho saltato un respiro e passo il tempo a cercare rimedi all’apnea, e vorrei curarla come fosse un attacco di singhiozzo, con uno spavento indolore. Dal corridoio lo sguardo raggiunge un cortile e lì in cerchio vecchi camminano con i loro bastoni e i loro fisici abbruttiti e mentre camminano parlano. Chissà di cosa parlano ormai, chissà se ripescano ancora dai giorni in cui facevano l’amore e andavano al mare e chissà anzi se saprebbero ancora nuotare, se saprebbero ancora camminare dritti, dopo una vita a girare intorno all’ora d’aria. Chissà se viene un momento in cui non si è più nostalgia ma solo disfatta.

Il fatto è, penso ipnotizzata dai bastoni che girano in tondo, che c’è qualcosa di profondamente innaturale nel sapere come andrà la propria vita ogni giorno e per sempre. La rimozione dell’imprevedibile è uno degli aspetti più micidiali della vita carceraria. Perso il dubbio del come andrà, resta fra le mani un oggi vuoto e inafferrabile nel suo replicarsi all’infinito, senza stupori. E se pare poca cosa, vorrei dire che per quanto mi riguarda, in certi giorni stanchi, l’unico mio appiglio è qualche stupore incrociato per caso nelle vie. Un uomo con il suo bambino aggrovigliati l’uno all’altro i corpi, al centro un libro di Topolino, il padre legge facendo le voci, il figlio ascolta guardando le figure. 

Più tardi scoprirò che i veterani del carcere senza futuro hanno grande dimestichezza con l’introspezione. Uno di loro – bastone, mani inquiete, voce tremula, occhi quasi orbi – leggerà un suo testo sul palco del teatro. Io gli farò i complimenti per le parole e lui dirà che ha parlato male, si è emozionato. In lui vedrò tutte le mie insicurezze invecchiate in una scatola di cemento, gli dirò che è stato bello, ringraziando. Lui dirà buongiorno e tante buone cose, e tornerà in cella. 

Mentre penso e aspetto nel lugubre stanzino, sembra alzarsi dalle pareti, come un inno sommesso, la voce di Lucio Dalla in quella sua lunga canzone pigramente ritmata, con un sax inquieto a svirgolare, un piano sinistro che gioca a nascondino: «Quante sono le ore per arrivare a domani/Madonna disperazione/Mentre esce dal portone/Si frega le mani». E qui, con questo sottofondo che mi inonda la testa, in quest’aria greve, entra nello stanzino insieme a Madonna disperazione il detenuto che sto aspettando. Mi saluta stringendomi la mano e io lo guardo. Ha braccia definite, guance rasate, indumenti sportivi che aderiscono al corpo e un nitore assoluto lo avvolge. Lo guardo e mentre si scusa per il ritardo, io vedo uno spartiata forgiato dall’agoghé. Separato dagli affetti, obbligato alla vita collettiva in nome dell’addestramento del corpo perché dal corpo emani la morale. Sebbene tutto intorno parli di costrizione e abbruttimento, lui irradia un’insolita pulizia ordinata e tiepida e una certa disciplina dell’atteggiamento, e ancor più che disciplina è verecondia, una forma di gentilezza accorta. Avrà, nel tempo, un modo di fidarsi e affidarsi prima cauto e lineare, poi torrenziale e sempre pulito. 

La prima forma di fiducia sarà una lettera. Una lettera vera, e come ogni vera lettera terrà conto dei tempi in cui dovrà esistere: quello in cui viene scritta («mi trovo ora nell’aula informatica e sto studiando»), quello immaginato in cui verrà aperta («ti chiedo, se riceverai queste parole in tempo, di cercare e portarmi un saggio su Giorgio Strehler»), quello poco prima di essere chiusa dove alla memoria affiorano precisazioni essenziali («p.s: si tratta di un saggio scritto in occasione del centenario dalla sua nascita, come introduzione a una conferenza tenuta al Piccolo Teatro di Milano»), e infine il tempo della gratitudine, che tiene insieme tutti gli altri («nel frattempo ti ringrazio»). Il saggio su Strehler si rivelerà introvabile, ma io gli porterò una novella di Pirandello, senza troppe spiegazioni. Si intitola La Carriola e la rileggo spesso. Parla della forma:

«Ci sono i fatti. Come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi più liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita?»

La leggerà, ne parleremo, e mi accorgerò che non siamo più timidi, che ci viene bene pensare ad alta voce, ridere, indignarci. Un giorno mi chiede cosa sia per me il potere. Io rispondo che credo sia la capacità di tradurre i propositi in fatti, a dispetto degli impedimenti. Lui invece mi intesse un bel discorso degno delle aule universitarie in cui appaiono i briganti e il meridione dei Borbone e ancora le guardie e i ladri e un senso ancestrale e terrestre dei mali eterni dell’uomo, una concretezza tutta ancorata alla vita minuta che mi ricorda gli uomini e le donne che si dimenano nel più bel libro di Elsa Morante. E allora, da quando ci fidiamo l’uno dell’altro, io ascolto tutto ciò che mi dice con attenzione, assentendo e contraddicendolo come faccio con gli interlocutori di cui ho massimo rispetto e ne traggo grande ricchezza ma tutto il tempo mi chiedo, con aria vagamente colpevole, se le mie parole e miei racconti abbiano per lui la sostanza dell’aria fresca o assomiglino piuttosto al ricordo dolente di qualcosa che da tempo non ha più, e cioè la libertà di frequentare il mondo e farne parte. E forse per dissimulare questa mia libertà mi attengo a parole e racconti generici, che non dicano troppo di ciò che lui rimpiange, e mi dedico in prevalenza all’ascolto. Più avanti capirò che con la libertà non c’è da avere remore. Fa bene anche di riflesso, respirata per interposta persona.

Un’altra delle mattine in cui io attraverso la città per raggiungere il lugubre stanzino lui è un fiume di parole, un fiume senza dighe che dice di sé e dei motivi che lo hanno portato nella prigione. Io rispondo che non mi interessano i suoi reati, ma a lui preme avere l’ultima parola, sottrarre alle narrazioni degli altri il giudizio definitivo sulla sua persona. Io non emetto sentenze, gli dico. Vorrei aggiungere che più di tutto io non penso, come chi entra in carcere sapendo di poter fare del bene, che il suo passato non sia importante. Educatori, psicologi, maestri, del tutto capaci di trattare i detenuti come persone senza passato. Io no, non ne sono capace. Penso che lui abbia un passato e lo penso come chi entra qui e ha il dubbio, e poi il timore, e infine l’angoscia che fare del bene agli uomini reclusi in un modo che non sia del tutto precario e marginale sia probabilità remota. E non perché il suo passato lo determini irrimediabilmente, come crede lo Stato che infligge l’interdizione perpetua, ma perché sono convinta che le persone nuove, in quel senso fittizio che rinnega la storia in nome di un futuro luminoso e senza ombre, non esistano. E allora promettere a lui che i libri lo salveranno mi sembra presuntuoso e stupido. Fingere di vederlo come nient’altro che uno studente sarebbe mancare di rispetto alla sofferenza che provocano le sbarre della cella con tutta la loro ruggine asfittica. E sarebbe oltretutto falso, perché nessuno studente universitario è solo uno studente universitario. E allora io, in quello stanzino, se per un momento sento incombere il giudizio, devio il pensiero. Penso al telegiornale che guarderemo tra qualche ora, lui nella cella, io in casa mia, uguali. Penso all’acqua che faremo bollire. Ci butteremo la pasta insieme, nell’ordine dei gesti consueti. E saremo pari. E penso a suo figlio, che è bravo in matematica, e chissà cosa farà. A quello di Antonio Gramsci a cui piaceva aggiustare le cose guaste, e ci si poteva leggere un indizio di costruttività, di carattere positivo. E poi penso a mio padre che legge i miei temi in seconda media, orgoglioso. Li penso pari. 

Non sono stata in grado di dirgli questo. Non sono stata in grado di dire nulla nemmeno il giorno che pioveva a dirotto e io sono arrivata infreddolita e fradicia e lui si è sorpreso di vedermi arrivare comunque. Gliela leggevo negli occhi la domanda. Perché vieni? Non lo so, avrei dovuto dire. Tre crediti formativi, avrei farfugliato. Ma lui avrebbe capito che non è vero e a me sarebbe stato evidente che non so rispondere. Forse un giorno gli dirò che lo so, l’ho capito: vengo per quella sensazione essenziale che sento emergere dalle pareti dei luoghi come questo, un certo indizio su cosa sono gli uomini. Sulla loro presunta disuguaglianza e la loro sostanziale parità. Quel giorno, dopo aver abitato lo stanzino lugubre per l’ennesima volta senza poterne espandere i confini, attraverserò i corridoi mossa da uno strano tremito e mi lascerò alle spalle il rumore delle sbarre e il rosa innaturale alle pareti. Nell’uscire, una bambina mi darà il cambio, varcando le sbarre con un risolino sul viso, e io mi augurerò che sia il modo giocoso con cui i bambini sanno rendere castelli le case di reclusione e primavera le anatre che ritornano dalle migrazioni. Lei forse a breve abbraccerà suo padre, e il suo tempo verrà cristallizzato in quell’abbraccio, mentre il mio riprenderà a scorrere, insieme al riaffiorare della città.

ARTICOLO n. 93 / 2024