ARTICOLO n. 73 / 2021
SARÀ IL PAESAGGIO A SALVARE IL MONDO?
Le culture continuano ad essere due e ben distinte: da una parte le umanistiche e dall’altra le scientifiche, il dibattito torna animato. In ultimo dal ministro Cingolani che lamenta che nel corso di dodici anni di scuola, «continuiamo a fare tre, quattro volte le guerre puniche», mentre «ci serviranno i digital manager per la salute, per l’energia, lavori che nemmeno esistono oggi». Gli storici sollevano gli scudi e si indignano i matematici che ritengono che continuare a studiare greco e latino sia all’origine del successo dell’anti-scienza. Non manca però chi ricorda che Marchionne era laureato in filosofia. Alcuni fanno riferimento a Le due culture, libro del 1959 di Charles P. Snow che, non solo per appartenenza culturale (era un fisico), stava dalla parte degli scienziati ai quali opponeva i non scienziati, qualificati come letterati. «Di professione scienziato, di vocazione, scrittore» era però equanime nei biasimi. Ai suoi colleghi rimproverava «libri ben pochi…e dei libri, che per la maggior parte dei letterati sono come il pane, romanzi, storia, poesia, teatro, quasi nulla». Ai letterati, invece, la pretesa che «la cultura tradizionale costituisca la totalità della “cultura”, come se l’ordine naturale non esistesse» e l’ignoranza a proposito de «l’edificio scientifico del mondo fisico…la più splendida e magnifica opera collettiva della mente umana». Un tentativo di conciliazione tra i due saperi, si evidenzia in righe famose: «Chiedevo di spiegare che cos’è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda: ed altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è presso a poco l’equivalente scientifico di avete letto un’opera di Shakespeare?».
Sessant’anni dopo, parole e repliche a Cingolani, non sembrano mostrare che molti passi avanti siano stati fatti. Il ministro, pur capace di equilibrismi in ambito ambientale tanto da tenere insieme energia nucleare e fonti rinnovabili, di annuire al contempo a Greta Tunberg e alla finanza capitalistica, fallisce l’occasione, come i suoi critici, di cogliere l’opportunità – che pure il nome (Transizione Ecologica) del suo ministero pone – di fondere colture differenti. Non solo, quindi, multidisciplinarietà ma anche transdisciplinarietà. Mitterand della élite dei funzionari statali formati all’Ecole Nationale d’Administration diceva: «sanno tutto, peccato che sappiano solo quello». Pur apprezzandoli li riduceva ad esempio del sapere riduzionista quello, tornando a Snow, degli specialisti ignoranti incapaci di frequentare saperi diversi, incuriosirsi dei margini tra essi dove si ibridano nature e culture e progredisce la conoscenza. Quelli che ignorano la prima lezione che deriva dalle scienze ecologiche: la transizione non può considerare separatamente i singoli problemi ambientali perché essi sono sistemici. Ai tempi dell’Antropocene, per di più, è palese che i problemi ambientali fuoriescono dai limiti fisico biologici e coinvolgono aspetti politici, sociali, economici, culturali. Guardano ai bisogni e ai desideri, a condizioni di vita che non potranno essere valutate solo in base all’uso, seppure sostenibile, delle risorse per bisogni quali l’alimentazione, la sanità, l’accesso all’energia, ma dovranno pure misurarsi con aspetti non meno essenziali: l’educazione, la qualità della democrazia, il rispetto delle radici culturali, la libertà di conoscere e viaggiare, il confronto a diverse scale (locale, globale) con le diverse culture umane, con le necessità sociali, con una dinamicità che consenta elasticità rispetto a un futuro che può prevedersi ma non conoscere. È la sfida di una complessità che tenga insieme il materiale e l’immateriale, che non guardi solo agli interessi della specie umana ma a quelli complessivi della biosfera. Una sfida che si vince se, prima od oltre a saperi super specialistici e alle consequenziali iper tecnologie, ci si affida a nuovi saperi, scenari. Bisogna parlare lingue diverse, ibride. In un film di Michelangelo Antonioni del 1970, Mark, studente di Berkeley, era inseguito dalla polizia nel deserto di Zabriskie Point per il delitto di «avere portato gli ingegneri ai corsi d’arte» e perciò cacciato dall’università. Primo Levi, chimico e scrittore, concordava con Snow: «Chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura.».
In tempo di cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, pandemia è giunto il momento che il paesaggio si faccia avanti con la sua rivoluzionaria radicalità sistemica che nulla esclude: sintesi di storia, natura e percezione culturale, legame tra ciò che è materiale e ciò che è immateriale. Specchio, come sempre è stato, della civiltà. Oggi, con riferimento al Green Deal europeo (e alle declinazioni locali come il PNRR) è il solo strumento possibile per comprendere e affrontare la complessità, uscire dalle secche del riduzionismo e approdare ad una visione sistemica espressione di nuovi comportamenti, stili di vita, modelli di sviluppo per cui è necessario andare nella profondità dell’animo dell’uomo, della cultura e delle sue manifestazioni.
Il paesaggio è espressione di servizi ecosistemici produttivi, ambientali e culturali che cambiano in relazione ai tempi della natura e dell’uomo. Nella sua dinamicità connaturata è in grado di confrontarsi con il futuro e di adeguarsi a esso, alla sua inevitabile imprevedibilità, alle domande che si porranno, ai bisogni che nasceranno dalla storia passata e presente di una comunità attraverso la partecipazione, la condivisione, l’incontro di saperi diversi. Il paesaggio è il risultato visibile della cultura di un popolo, esprime attraverso sé stesso o le forme che lo rappresentano valori ecologici, estetici, economici ed etici e confrontando i bisogni personali e della collettività con risorse e vincoli della natura con cui interagisce, riguarda l’intero (umano e non umano) mondo vivente. La visione propria del paesaggio ha urgenza dell’incontro tra le due culture e dei linguaggi conseguenti, del passaggio dalla frammentazione nozionistica a una conoscenza multi e transdisciplinare utile al confronto con le diverse culture umane, con le necessità sociali. Inevitabilmente antropocentrico per il principale attore che lo determina – “coscientemente e sistematicamente” diceva Emilio Sereni, ma si riferiva, alla fine degli anni ‘50, ai mirabili paesaggi agrari della tradizione italiana – comprende ed esprime tutto ciò di cui l’umanità ha urgente bisogno. Quelli del futuro – che dovranno ospitare le energie rinnovabili, che occuperanno spazi urbani, che sfameranno l’umanità, che presidieranno le montagne e contrasteranno gli incendi, che si confronteranno con l’innalzamento delle temperature e del livello delle acque marine, che si presteranno al piacere e alla contemplazione – non dovranno nascere solo nelle stanze dei decisori politici, negli studi e dei laboratori degli scienziati o dalle riflessioni e creazioni di umanisti o letterati. Devono nascere (immaginati, pensati, progettati, realizzati, gestiti) con la partecipazione di chi li costruisce, li abita, li vive. Non in contrasto, ma nel rispetto della biosfera: alleati, non dominatori in essa.
Una volta si ripeteva, fino allo sfinimento, che la bellezza avrebbe salvato il mondo, adesso è il momento che in campo scenda il paesaggio.