ARTICOLO n. 82 / 2024

QUELLI CHE CAMMINANO PER STRADA

intorno a "paradiso" di Stefano dal bianco

C’è intorno a Paradiso di Stefano Dal Bianco una sorta di distanza e di silenzio. Se ne comincia la lettura per presto dar conferma di un ingresso avvenuto. Entriamo in un luogo che l’autore non teme, titolando il volume, di identificare con paradiso, senza articolo (non l’incontestabilità del determinativo, non la languida vaghezza dell’indeterminativo), quasi si potesse fermarlo nella permanenza di un bene.

Siamo dunque in un luogo, e si tratta di un luogo che si lascia individuare toponomasticamente: c’è Orgia, c’è l’alta valle di Merse. Siamo sulle colline senesi, siamo dove il poeta ha riconosciuto dei confini entro cui dimorare e deambulare, entro cui esercitare i sensi – il suo la vista, quello del cane che lo accompagna l’olfatto. Nessuno è chiamato a manifestarsi se non questa coppia compresa fra l’altezza del cielo e la prossimità della terra. Benché si muovano entrambi, esploranti e complici, è come se fossero entrambi accarezzati dal fantasma dell’immobilità. Avverti i passi che rallentano, lo sguardo confitto, la tensione perlustrativa che vibra «…in questa mattinata quasi astratta / dove nessun pensiero giunge a compimento / si fa strada l’idea di un nostro posto, qui, / un dolore calato dal cielo di piombo / che ci atterra e ci libera nel tutto».

È come se fosse il vibrare «di vita immobile» a disegnare la mappa dettagliatissima di bipede e quadrupede. L’avvicendarsi del giorno e della notte, il cangiare della qualità della luce e delle stagioni, del vegetabile e del tempo atmosferico riempiono i righi musicali insieme alla erogazione degli odori: tutto è compreso dentro una scena che si sottrae alla tentazione allegorica e che tuttavia desta un affanno gioioso, sempre sul punto di dire, sempre sul punto di essere detto.

Nei quindici versi che portano in esergo «Acero di Arquà / che quest’anno compie quarant’anni» si dice per l’appunto di questo acero che si muove, che par sorrida, e che il suo provare «qualcosa di nostro» è un tentativo «di essere nel vento / un accordo di foglie / un fremito di luci nella luce». A una contemplazione così ravvicinata, il poeta accerta l’evidenza di una serenità senza secondi fini (per usare un’espressione destinata a ritornare) che dunque non è né impettita dichiarazione di autorevolezza, né ipotesi di salvezza: èsemplicemente, non esibisce significati, fa «quello che deve fare», è «nel suo chiuso riso, / paradiso». 

Dal Bianco fa un moderato uso della punteggiatura, di virgole soprattutto, ma qui la cesura è forte, è un respiro, una pausa, prima di lasciar scivolare sull’acero quarantenne l’attributo cruciale. Paradiso è una condizione, dunque, una serenità che si consuma e si disperde in riso, nel puro «riso dell’universo» di dantesca memoria. 

Che questo “riso” stia nella prima sezione del libro, Appuntamento al buio, ci consente di continuare a leggere senza mai confondere il paesaggio naturale con un fondale. 

Dovessimo registrare l’azione del racconto che formicola in Paradiso – racconto filtrato da una cautela narrativa più discreta che minimale – la sentiremmo come avventura, l’avventura di un poeta che si cala, persino con un cenno di sfida sperimentale (i versi dettati a un cellulare), nella residualità della natura richiamandone, senza attrito drammatico, l’assiduità, il suo irresistibile, antichissimo dispiegarsi.

All’evidenza quasi invisibile dei sentieri fa riscontro la deambulazione assetata del vedere: il vagare di Paradiso non è quello preromantico presago di mete, ma neppure quello della Wanderung romantica così perduta nel mero transito, nella vanificazione di ogni forma di ritorno.

Qui si sta. Qui si coltivano serenamente una deliberata assenza, un affrancamento dall’umano, «perché non c’è niente di umano nell’umanità». Al paesaggio che diventa memoria nell’ultimo Andrea Zanzotto, presentissimo nella formazione di Dal Bianco, si oppone, ma forse non fa che succederne un altro non perente, non plastificato, non preda di vitalbe, lasciato tuttavia distendersi in concava e vitale «sovraimpressione».   

L’esercizio della solitudine non si consuma nel vuoto: al contrario, chi parla in questi versi non fa che avvertire la pienezza incompiuta dell’accadere, un accadere dal quale discendono ascolto e voce, che, se vengon meno, «tanto vale allora mutamente / uscir di bosco e andare fra la gente». 

Che cosa sia l’avventura del poeta lo dice il passo che avanza fra le ragioni di un giovane frassino, la «perplessa maestà dei castagni», la storia di una foglia che cade, i «fiordalisi sul sentiero», il verde leggero dell’erba nuova, il tappeto delle foglie secche, una coppia di daini, una volpe grigia arresa alla morte. 

Non si tratta di una restituzione della o alla natura: quelli citati sono dettagli che il luogo distribuisce acciocché l’avventura si compia, e per compiersi è bene che appaia un compagno, Tito il cane. I vaganti sono due, e ciascuno ha obiettivi suoi – condivisibili ma non reciprocamente assimilabili.

Per entrambi la geografia è decisiva: la geografia degli odori e degli eccessi di memoria, la geografia «di luci e ombre» e la soverchiante «fragranza del mondo». Uomo e animale dividono il pericolo e la grazia, il lancio del sasso nella corrente e la scoperta del mondo rasoterra; vanno esplorando l’aria ferma e i miraggi della paura.

Ci si chiede dove sia questo luogo, chi lo ha voluto così. Non è dagli uomini abbandonato: tanto che gli ulivi son potati, i prati falciati, il fango inciso dalle ruote. Si suppone che oltre l’uomo e il cane ci sia gente dei borghi che si chiude «silenziosamente in casa», contadini, lavoratori, e se non ci sono son passati, hanno lasciato tracce; e di tracce è fatto il permanere, tanto che il poeta lo dice esplicitamente: ci si può stancare del paesaggio, e allora «basta posare gli occhi sull’asfalto / che tanta parte ha nella geografia del luogo / e nella storia che restituisce». Ci son le crepe della gelata del duemiladieci, le toppe lasciate dagli operai dell’acquedotto, i lavori del gas: non si tratta di «paesaggio alternativo» ma di tracce, per l’appunto, che possono portare «a casa di qualcuno», all’eco «di un pensiero che era stato / e di uno che verrà». E tracce sono anche quelle lasciate dai grandi ungulati sulla terra argillosa della Merse («bassorilievi / che il sole ha avuto il tempo di fissare»), e che all’acqua conducono come esortazione a proseguire. 

Se è paradiso, è questo: il luogo in cui per segni minimi, per voci, per voli, per nuvole e notturni arpeggi di luce si suppone timida ma audace una certezza dell’essere e dell’essere lì, proprio lì.

Se non ci fosse Tito che ha bisogno di te «per essere felice / ma se ne infischia della tua felicità», questa avventura cederebbe la scena tutta intera a una natura insensibile all’accadere, all’imprevisto, insomma al sospetto che una storia esista. E invece ecco il «paradiso di riflessi» che in primavera attrae Tito, ecco lo sguardo che chiede un altro sasso lanciato, il ruolo «tanto difficile da sopportare» al quale inchioda il suo compagno. Sì, perché Tito «non è costretto a dominare niente / mentre il suo amico si fa serio / dall’alto della sua incostante umanità». Mitologicamente uomo e cane si sentono dèi, l’uno con il naso rasoterra «perché tutto / profuma di qualcosa», l’altro con il naso per aria «perché il profumo è altrove, / perché niente mi basta sulla terra».

Questo «niente mi basta sulla terra» mi sembra perno cruciale della poesia di Dal Bianco, il rovello, grave e sorridente insieme, che inventa, dal luogo traendo le coordinate, un paradiso come lui l’ha pensato, come, totus in illis, il viandante l’ha trovato. Senza stabilire alcuna forma di discendenza diretta, si pensa al Zanzotto dialettale, quando, in Idioma, evoca una Maria Carpela degna – sia pur dopo aver cacciato all’inferno «tuta, tuta quanta ‘la realtà’» – di un paradiso suo, «gnentaltro che ’l paradiso / come che ti tu l’à pensà». 

Può ben darsi che niente gli basti sulla terra, ma il poeta sa di cosa sono fatti i colori fra i quali almeno «è quello che fa per noi», presume l’«ultrasuono d’angelo» che accende la mente di Tito, la paura di una vipera che ha sbarrato il passo, la luce del tramonto «senza secondi fini», la «luce azzurra delle nubi» e via citando dal catalogo del vedere, e del sapere, del dirsi uomo con un cane.

Umanità torna più volte a segnalare un limite, una condizione, certamente un’assenza: chi sia stato messo al bando (se mai ci furono peccato e condanna) o chi sia stato chiamato a dimorare (se mai ci fu premio o fuga) non è dato sapere. Il paradiso di cui parla Dal Bianco è compreso nel raggio di uno schivo ma forse anche esitante auspicio che i confini del mondo coincidano con il profilo del Monte Amiata, e che siano i crepuscoli, o meglio che sia il valore della luce (anzi delle luci: non sono esclusi azzurrità di nubi, lucciole, lampioni), a consegnare l’azione e l’inazione alla «voce del mondo». Siamo di fronte a un’esclusione consapevole, come se l’umanità (e così pure la terra) rischiasse di creare confusione. In questo luogo non ci sono né arcadie né appartenenze, c’è il semplice emergere di un teatro naturale.

Il compagno di Tito è un uomo orazianamente contemplativo, Tito è cane che perlustra e scopre diversivi», talora si sottrae, sparisce ma riappare, ma soprattutto è misura del tempo («non mi va di aspettare Tito / più di una vita») e di quanto nel tempo, ferinamente, si muove. Tito, che pur porta sul muso un sorriso, ha avuto in dotazione la certezza animale del nemico: «che cosa vede nella notte un cane che non sia / sacrosanta illusione che vi sia / un nemico nascosto e invisibile nel bosco».

Si dà conto di spazi talora percorsi almeno in parte in auto: si avverte la presa di fiato di un avvio, «Come ormai tante altre volte stamattina». Il disegno ritmico distende una visione che si vuole innestata nel tempo: questa mattina ripete altre mattine, uomo e cane attraversano in auto «uno sterrato pianeggiante»; lo fanno perché poi si va a piedi «in un grande prato verde seminato a foraggio». Sul prato ci sono apparizioni di volatili (un airone, una garzetta, un fagiano, due ghiandaie) che alzandosi in volo da un fosso attizzano la vergine curiosità di Tito su «gli abitanti dell’acqua», creature nuove, non incontrate ancora. Nella sequenza di versi distesi, descrittivi, si situa, netto, al centro della poesia, l’endecasillabo piano «ha scoperto finalmente Tito» ovvero il verso eroico, lo schiocco dell’avventura. Raganelle e pesci entrano nel suo privato catalogo di viventi. Ma il fosso divide il prato da un altro prato, e di là ecco il calare delle nubi, il vento che fischia, nulla si vede più, né più si sente «l’animale di dentro»: la scena si spoglia, si spoglia di presenze insieme all’animale «che scappava in lontananza / in fondo a ogni prato / portandosi con sé una parte di noi». Nell’intervallo fra dentro e fuori sembra venir meno la certezza che il trasferimento del mattino aveva promesso. Come ormai tante altre volte stamattina ci si dispone a vivere e, consumata l’esperienza della scoperta e dunque di un’acquisizione, ci si dispone a perdere. Non ci sono strappi, neppure traumi, semmai l’aderenza a sconfessare, dentro l’abituale, l’abitudine.

C’è nella poesia di Stefano Dal Bianco un’attitudine geometrica che dà misure e le confonde, un’ondulazione prosodica non meno collinare del paesaggio con il quale progressivamente si prende confidenza.

Mi piace che i suoi versi calchino la terra, che non smettano di tornare alla terra sia attraverso la pertinenza della contemplazione sia attraverso l’esperienza del cane Tito, un’esperienza che talora diventa pensiero, un pensiero «contagioso», «grande abbastanza da comprenderti / come farebbe un prato / di una tana di talpe». Sono, quelli di Paradiso, versi che si lasciano contenere da uno spazio in cui leggiamo continuità, insistenza, ammaliata vigilanza, nonché latebra (quella «tana di talpe»), ma anche quella sorta di rumore che fanno «quelli che camminano per strada», «nell’aderire al suolo / dove ogni storia che trova un inizio / a ogni passo rinnova la sua fine in sé / in sé soltanto».

Il tempo si consuma e si rinfranca, e pure si annulla, eppure i confini dai quali l’umanità sembra esclusa lasciano palpitare un sentore del mondo che non si smemora, che, anzi, è l’avventura vegetale e animale di cui Tito e il suo compagno conoscono le quotidiane stazioni.

Credo che Paradiso sia opera della cui importanza dovremo prendere atto come di uno scarto, di un segnale, di una soglia. Da qui in avanti, e non solo ora mentre tentiamo di rincorrere il generoso sgomento che ci ha lasciato.

ARTICOLO n. 93 / 2024