ARTICOLO n. 56 / 2023
QUASI ZERO
in memoria di g. detto p.
All’inizio di questa primavera è morto un uomo di novant’anni. È stato uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento e dei primi ventitré anni del nuovo millennio, sebbene non abbia mai pensato di essere un rivoluzionario. Il suo stile di vita, se fosse stato diffuso in tutto il mondo e soprattutto in Occidente, forse avrebbe cambiato le sorti del pianeta, ma il suo stile di vita era eversivo, inaccettabile proprio per l’Occidente.
L’uomo era nato e cresciuto nell’hinterland sudovest di Milano, quando hinterland esisteva come parola ma non ancora come zona periferica estesa intorno alla città.
Negli anni Sessanta, la cittadina nella quale l’uomo viveva offriva tutto ciò di cui un essere umano, nel Novecento, necessitava: case, scuole, un ospedale, fabbriche, uffici, autobus, treni, campi coltivati, cascine, orti, un mercato trisettimanale, supermercati, sedi di partito, circoli dopolavoristici, bocciofile, campi da calcio, una piscina, una biblioteca.
L’uomo aveva conosciuto una coetanea, si era fidanzato e sposato. La moglie faceva la casalinga, non si sa se per scelta, poiché in quel periodo era abbastanza semplice trovare un lavoro. L’uomo lavorava come operaio in un’azienda che produceva lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, scaldabagni e altri elettrodomestici.
Il loro primo e unico figlio era nato nel 1962. La coppia viveva in affitto, all’ultimo piano di una palazzina di quattro. Era una di quelle palazzine senza ascensore, costruite negli anni Cinquanta, l’intonaco beige, le tapparelle nocciola, le finestre al piano terra con affaccio sulle auto parcheggiate rasente il muro condominiale, e i piccoli balconi punteggiati dalle tende blu, rosse, verdi, indispensabili durante i mesi estivi.
Una vita condominiale tranquilla, vivacizzata soltanto dalla musica che il vicino di casa ascoltava a un volume ritenuto, dall’uomo, troppo alto. Allora l’uomo percorreva due metri sul pianerottolo e bussava alla porta del vicino. Preferiva bussare al posto di suonare il campanello: forse in quella scelta, che prevedeva l’uso di una parte del proprio corpo, sentiva una intenzionalità, una responsabilità, un rigore morale.
E tuttavia, al tempo stesso, si infastidiva poiché doveva bussare forte, picchiare le nocche su quel legno modesto, rivaleggiando, nella scala del rumore, con le canzoni di Mina, Celentano, gli acuti di tutta la musica leggera italiana.
Il vicino apriva la porta e dopo i rimproveri abbassava il volume, per il quieto vivere. A volte, invece, non si alzava dalla poltrona: riconosceva il suono delle nocche sulla porta e abbassava il volume, lasciando all’uomo la sensazione che tutto fosse una specie di allucinazione prodotta dalla sua mente, dal suo battito accelerato davanti alla porta di un estraneo.
L’uomo considerava il vicino amante della musica leggera come qualcosa di vago, un giovane, un giovanotto, o meglio, un giovinotto, sebbene il vicino avesse soltanto quattro anni meno di lui.
Dopo un decennio in affitto, la coppia aveva deciso di acquistare un appartamento al quinto piano di un palazzo di nove. Il figlio avrebbe avuto una stanza tutta per sé.
L’uomo lavorava in un’azienda solida, le pubblicità delle lavatrici e delle lavastoviglie apparivano su alcuni quotidiani, a volte perfino sul giornale del Partito Comunista Italiano. L’uomo non comprava mai il giornale del Partito Comunista Italiano: non era comunista, ma anche qualora fosse stato comunista, non avrebbe comprato il quotidiano del Partito Comunista Italiano; se fosse stato socialista, non avrebbe comprato il giornale del Partito Socialista Italiano, e se fosse stato democristiano non avrebbe comprato il quotidiano della Democrazia Cristiana. L’uomo aveva uno stipendio dignitoso, ma comprava pochissime cose, evitava di lasciarsi sedurre dagli slogan e dalle esigenze indotte dalla pubblicità. La pubblicità degli elettrodomestici prodotti dall’uomo esaltava la qualità di lavatrici e lavastoviglie, arrivando a sostenere: Danno rilievo alla vostra personalità.
La coppia aveva acquistato l’appartamento, l’aveva arredato in modo frugale, comprando pochi mobili e gli elettrodomestici indispensabili – il frigorifero e la lavatrice – ma non la lavastoviglie, sebbene la producesse proprio l’uomo lavorando alla catena di montaggio. E invece, dopo cena, l’uomo lavava i piatti, anzi, pretendeva di lavare i piatti: dopo otto ore di lavoro in catena di montaggio, amava riempire il lavandino di detersivo e immergere le proprie mani nell’acqua calda mimetizzata nella schiuma bianca, per allontanare e dimenticare – nel calore che diventava molto in fretta tepore e freddo in pochi minuti – il motivo per cui aveva passato tutte quelle ore dentro la fabbrica. Una lavastoviglie, invece, glielo avrebbe ricordato sempre.
Del resto, come anticipato all’inizio di questo omaggio a uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento, l’uomo si era distinto per la frugalità quasi assoluta, che rasentava il fanatismo mistico, se soltanto l’uomo fosse stato incline al misticismo religioso.
Non aveva mai voluto prendere la patente di guida e quindi non aveva mai comprato un’automobile. La distanza dalla casa alla fabbrica era di 1300 metri. L’uomo percorreva quel tragitto quasi sempre in bicicletta, a volte a piedi, impiegando, a seconda della scelta, quattro o sedici minuti. Usava la bicicletta in qualsiasi stagione dell’anno, quando pioveva pedalava proteggendosi con un ombrello; qualora nevicasse, davanti a una decina di centimetri sull’asfalto decideva di andare al lavoro a piedi. Indossava la tuta da operaio fornita dall’azienda, un giubbotto blu in autunno-inverno, e calzava scarpe antinfortunistiche.
In primavera-estate, non appena tornava a casa scendeva nel proprio orto. L’uomo coltivava un piccolo pezzo di terra ricavato nel campo adiacente al condominio: lattuga, pomodori, zucchine, melanzane. Indossava un paio di jeans, una canottiera bianca, e calzava sandali di plastica, marrone, quel tipo di sandali che abbiamo visto in luoghi marini fin da quando siamo nati, quasi sempre di colore rosso, e invece l’uomo li aveva acquistati marroni, forse perché marroni, di plastica, non li voleva nessuno.
Cenava presto, verso le 18.30, poiché dopo aver lavato i piatti scendeva in cortile – di lunedì, mercoledì e venerdì – per occuparsi del giardino condominiale. È un mistero immaginare cosa pensasse mentre fissava l’acqua uscire dalla canna. A volte ripeteva frasi che sembravano originati da un discorso rimasto incastrato nella propria mente e centellinato da un gocciolare in dialetto milanese.
Incoue (oggi). E poi taceva.
Vegna chi (vieni qui), come se parlasse a un insetto che gli girava intorno disturbandolo, come se parlasse all’aria, a una parola. E poi taceva.
Giüga no a la bala (non giocare a pallone). E poi taceva.
Il sabato, una volta al mese, tagliava l’erba del giardino condominiale. Non è chiaro se lo facesse per guadagnare qualcosa oltre allo stipendio. In quel periodo storico, un operaio guadagnava abbastanza per mantenere una famiglia di tre persone.
L’amministratore condominiale era contento della sua disponibilità. Quando la fabbrica di elettrodomestici chiudeva per ferie – quattro settimane in agosto, come era consuetudine in quegli anni – l’uomo non andava in vacanza. Si alzava all’alba, pedalava per sette chilometri e raggiungeva la sponda del fiume. Se andava bene pescava alborelle, un paio di trote, tornava subito a casa, la moglie cucinava il pesce. Dopo pranzo l’uomo abbassava a tre quarti la tapparella della camera da letto e si addormentava in penombra.
A differenza della maggioranza degli altri condomini, non aveva montato sul balcone le cosiddette veneziane, quei serramenti di listarelle verdi, di plastica, collegate da nastri e orientabili in modo da variare il flusso luminoso. Non aveva acquistato nemmeno un piccolo ventilatore. Usufruiva della corrente d’aria fresca generata dal lasciare aperte tutte le finestre. Quando si alzava, beveva un caffè con la moglie e andava nell’orto. Innaffiava utilizzando l’acqua di una roggia che scorreva a pochi metri.
Dopo cena, lavava i piatti, scendeva in cortile tre volte alla settimana, per innaffiare il giardino condominiale.
Può sembrare noioso passare così le quattro settimane di ferie, o meglio, la vita; eppure le quattro settimane di ferie passavano davvero in fretta, proprio come novant’anni, proprio come la vita; e a settembre ricominciava il lavoro alla catena di montaggio delle lavastoviglie.
In autunno e in inverno, l’uomo indossava il giubbotto blu sopra la tuta da operaio. La moglie, quando usciva per andare al mercato o al supermercato, indossava un giaccone e calzava scarpe basse stringate. Difficile dire se, almeno all’inizio del matrimonio, avesse desiderato un altro stile di vita; difficile dire se la sobrietà rivoluzionaria dell’uomo fosse condivisa e incentivata dalla moglie casalinga, oppure se la donna subisse le scelte estremiste del marito. A ogni modo, la donna usciva quasi sempre in bicicletta, una Graziella con la quale ritornava a casa traballante, poiché infilava due sacchetti della spesa ai lati del manubrio.
A differenza di molti operai, che si indebitavano per acquistare a rate la pelliccia desiderata dalle mogli, desiderata da loro stessi per avere una moglie impellicciata, l’uomo non aveva mai comprato una pelliccia.
Eppure avrebbe potuto subire le pressioni sociali, le convenzioni conformiste che, nelle giornate festive e prefestive si manifestavano in modo evidente. Capitava che la coppia uscisse di sabato pomeriggio nel centro della cittadina, proprio come altre coppie.
Nel centro affollato incontravano anche i colleghi dell’uomo, operai e impiegati che passeggiavano assieme alle mogli impellicciate: pellicce per lo più di opossum, ma non mancavano, tra gli impiegati, chi aveva scelto la pelliccia di volpe bianca, e non mancavano, tra i capireparto, chi aveva scelto, per distinguersi sia dagli operai sia dagli impiegati, una pelliccia di visione. Ecco allora che le parole ascoltate durante la pausa pranzo – opossum, volpe, visone – avevano un senso, in particolare opossum, che l’uomo identificava con un desiderio più accessibile di altri, un desiderio che, a maggior ragione, riteneva superfluo.
Eppure, nonostante la parata di animaletti uccisi che si muovevano lenti o stazionavano davanti alle vetrine dei negozi, l’uomo non aveva mai ceduto, e la donna neppure: avanzano in quella carneficina stretti nei loro giacconi di panno.
La domenica, nessuno dei due andava a messa, sebbene avessero seguito i normali riti cattolici: si erano sposati in chiesa, avevano battezzato il figlio, lo avevano mandato a catechismo per la comunione e poi per la cresima.
Il figlio nei primi anni di vita si era adeguato allo stile di vita austero imposto dal padre, ma già durante le scuole elementari aveva sperimentato quanto fosse difficile confrontarsi e competere con le vite degli altri: nessuna vacanza al mare, in montagna, nessuna immersione, nessuna camminata, nessuna nuova città, nessun monumento, nessuna avventura vacanziera da raccontare, e crescendo, nessuna nuova ragazzina incontrata al mare, in montagna. E così, dopo la terza media, forse per allontanarsi dallo stile di vita imposto dal padre, il figlio aveva deciso di abbandonare gli studi. Era andato a lavorare come operaio in una piccola fabbrica, molto più piccola di quella in cui lavorava il genitore. Aveva comprato un motorino, un Garelli. È plausibile credere che il padre si fosse opposto all’acquisto, ma così come aveva accettato la decisione del figlio di interrompere gli studi, allo stesso modo aveva accettato l’acquisto del Garelli. E tuttavia aveva imposto alcune restrizioni: il figlio poteva guidare il Garelli soltanto di sabato e domenica, non poteva usarlo durante la settimana. Il figlio andava al lavoro in bicicletta, proprio come il padre.
Quando era diventato maggiorenne, il figlio aveva pensato di comprare un’auto, e il padre non si era opposto. Il figlio aveva scelto una Fiat Ritmo, ma il padre, ancora una volta, aveva imposto di non utilizzare l’auto durante la settimana, e il figlio, benché fosse maggiorenne, aveva obbedito.
Padre e figlio continuavano ad andare al lavoro in bicicletta.
L’azienda di elettrodomestici non andava bene come dieci, vent’anni prima. L’azienda era stata acquisita da un’azienda più grande che aveva pianificato molte acquisizioni in Italia e all’estero, e come un impero troppo smanioso di ingrandire la propria influenza, alla fine era crollata, trascinando con sé le aziende controllate.
L’uomo aveva fatto appena in tempo ad andare in pensione. Il figlio si era sposato e il padre, grazie alla liquidazione, aveva aiutato il figlio a comprare una villetta.
L’uomo aveva continuato a vivere come nei decenni precedenti, se si eccettua la libertà conquistata andando in pensione dopo trentacinque anni di fabbrica.
Nessuna vacanza. La pesca. L’orto. Poi aveva smesso di coltivare l’orto e di pescare. Usciva in bicicletta un paio di volte al giorno. Fino a novant’anni.
Come a volte capita in questi casi, marito e moglie sono morti a distanza di pochi giorni.
Qualche settimana fa ho visto un trentenne davanti al condominio, stava appendendo un cartello, l’annuncio di un’agenzia immobiliare con la scritta vendesi.
Poteva essere l’appartamento acquistato dalla coppia mezzo secolo prima, l’appartamento che il figlio ha deciso di vendere; forse il figlio ha perlustrato la casa arredata come cinquant’anni fa, la cantina quasi vuota, il garage quasi vuoto, se si eccettuano le due biciclette dei genitori.
Sarebbe troppo facile equiparare lo stile morigerato di quest’uomo e di questa donna con quello di molte persone più o meno giovani che si preoccupano delle sorti del pianeta; persone che, in pochi anni di vita, hanno prodotto più CO2 di quanta ne abbia prodotta quest’uomo in novant’anni di esistenza.
Ha usato la stessa bicicletta negli ultimi cinquant’anni. Non ha mai preso un aereo. Mai una nave. Mai un autobus. Mai un treno. Non ha mai guidato un’automobile. Non ha mai usato il Garelli del figlio. Lo hanno trasportato sull’ambulanza che lo ha condotto in ospedale. Lo hanno trasportato sul carro funebre che lo ha condotto al cimitero.
Ha vissuto novant’anni, in Occidente, muovendosi dalla casa alla fabbrica in bicicletta o a piedi, come un cinese del Novecento di Mao, ma resistendo a molte più tentazioni. Se tutti gli abitanti dell’Occidente novecentesco avessero adottato il suo comportamento, forse ci sarebbe stata una disoccupazione di massa. Ignoro quanto sia desiderabile una vita come la sua. Ignoro quanti miliardi di persone sarebbero disposte a vivere come lui.
E chissà se uno stile di vita come il suo avrebbe potuto salvare il pianeta.
Alle scuole elementari, la maestra ci aveva portato a visitare la fabbrica di elettrodomestici. Avevo visto l’uomo concentrato lungo la catena di montaggio, senza che potesse sollevare lo sguardo. Come capita quando una scolaresca visita un luogo con intenti pedagogici, anche la catena di montaggio si era fermata per alcuni istanti. L’uomo aveva sollevato la testa e, riconoscendomi, aveva abbassato lo sguardo, colpito dall’assenza di rumore, dal silenzio artificiale coperto dalle voci di chi ci accompagnava. Credo che non fosse contento di essere esposto a un gruppo di bambini, e in particolare, a me, che lo conoscevo. Una sorta di pudore per la propria condizione, per la mia impudenza infantile che immaginava di poter guardare tutto, di avere davanti ancora tanto tempo, di essere lì, nel 1974, fuori dal tempo, poiché perfino il tempo produttivo si era inchinato per qualche istante all’afflato educativo; poi i macchinari erano ripartiti, avevo fissato l’uomo e non mi era sembrato più lui, come se il rumore in sottofondo e i gesti necessari componessero un’altra persona, e non l’uomo che innaffiava l’orto, il giardino condominiale, l’uomo che non desiderava nulla.
Mi ero allontanato assieme al resto della classe, ero bambino e mi sentivo mortale, avevo guardato i miei compagni, le mie compagne: bastava poco, per non essere più noi, mezzo secolo fa.