ARTICOLO n. 85 / 2024
PURA FELICITÀ. IL CANARINO
Pubblichiamo un racconto dalla raccolta di Katherine Mansfield Pura felicità (Feltrinelli, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini). Ringraziamo l’editore per la disponibilità
…Vede quel grosso chiodo a destra della porta d’ingresso? Ancora oggi posso a malapena guardarlo, eppure non sopporto l’idea di toglierlo. Mi piace pensare che resterà lì, anche quando non ci sarò più.
A volte sento chi verrà dopo di me dire: “Lì dev’esserci stata appesa una gabbia”. E questo mi conforta; mi sembra che così non sarà del tutto dimenticato.
…Non immagina come cantava splendidamente. Non era come il canto degli altri canarini. E non è la mia immaginazione. Spesso, dalla finestra, vedevo la gente fermarsi davanti al cancello e ascoltarlo, o appoggiarsi alla staccionata, accanto al filadelfo, e starsene lì a lungo, come rapita.
Suppongo che possa sembrarle assurdo – non lo sarebbe se l’avesse sentito – ma avevo davvero l’impressione che cantasse canzoni intere, con un inizio e una fine.
Per esempio, il pomeriggio, quando finivo le faccende di casa, mi cambiavo la camicetta e portavo il cucito qui in veranda, lui – “op, op, op!” – salterellava da un trespolo all’altro e picchiettava contro le sbarre della gabbia come a voler attirare la mia attenzione, beveva un sorso d’acqua, proprio come farebbe un cantante professionista, e prorompeva in un canto così squisito che dovevo posare l’ago per ascoltarlo. Non riesco a descriverlo; magari potessi. Ma era sempre lo stesso, ogni pomeriggio, e a me sembrava di capire ogni singola nota.
…Lo amavo. Come lo amavo! Forse non è così importante cosa si ama a questo mondo. Ma qualcosa si deve amare. Certo, c’erano sempre la mia casetta e il mio giardino, ma per qualche ragione non erano abbastanza. I fiori sono incredibilmente ricettivi, ma non entrano in empatia con noi. Allora amai Venere, la stella della sera. Le sembra sciocco?
Me ne andavo in cortile, dopo il tramonto, e aspettavo finché non iniziava a brillare in cima allo scuro eucalipto. E sussurravo: “Eccoti qui, tesoro mio”. E per quel primo breve istante sembrava che brillasse solo per me. Era come se lo capisse… come fosse un desiderio, ma non era un desiderio. O come un rimpianto – sì, più come un rimpianto. Ma rimpianto di cosa? Ho molto di cui essere grata.
…Ma quando lui entrò nella mia vita dimenticai la stella della sera; non ne avevo più bisogno. Ma fu strano. Quando quel cinese che vendeva uccelli si presentò alla mia porta e me lo mostrò nella sua gabbietta, e lui invece di agitare le ali come i poveri cardellini, fece un debole, piccolo “cip,” mi ritrovai a dire, proprio come facevo con la stella in cima al l’eucalipto: “Eccoti qui, tesoro mio”. Da quel momento in poi fu mio.
…Ancora oggi mi stupisco se ripenso al modo in cui condividevamo le nostre vite. Quando scendevo giù, al mattino, e toglievo il panno dalla gabbia, mi salutava con una piccola nota sonnolenta. Sapevo che voleva dire: “Padrona! Padrona!”. Poi lo appendevo al chiodo, fuori, mentre preparavo la colazione ai miei tre giovanotti, e non lo riportavo dentro finché non avevamo di nuovo la casa tutta per noi. Poi, una volta finito il bucato, c’era un vero e proprio spettacolino. Stendevo il giornale su un angolo del tavolo, e appena ci appoggiavo sopra la gabbia lui sbatteva le ali disperatamente, come se non sapesse cosa stava per accadere. “Sei il solito piccolo attore,” lo rimproveravo. Raschiavo il fondo della gabbia, lo cospargevo di sabbia pulita, riempivo le vaschette dei semi e dell’acqua e infilavo tra le sbarre una foglia di centocchio e mezzo peperoncino.
E sono assolutamente certa che lui capiva e apprezzava ogni passaggio di questa recita. Perché vede, per natura era incredibilmente pulito. Sui suoi trespoli non c’era l’ombra di una macchia. E avreste dovuto vedere come si godeva il bagno per capire che vera piccola passione aveva per la pulizia. La vaschetta per il bagno era l’ultima cosa che mettevo nella gabbia. E lui ci saltava subito dentro.
Prima sbatteva un’ala, poi l’altra, poi tuffava la testina e si bagnava le piume del petto. Le gocce schizzavano per tutta la cucina, ma non voleva saperne di uscire. Allora io gli dicevo: “Ora basta, ti stai solo mettendo in mostra”. Alla fine saltava fuori e, stando su una zampetta sola, cominciava ad asciugarsi col becco.
Per finire, una scrollatina, un colpetto, un cinguettio, poi sollevava gola – oh, riesco a malapena a sopportare il ricordo. A quel l’ora pulivo sempre i coltelli, e mi sembrava che anche i coltelli cantassero, mentre li strofinavo sul l’asse per lucidarli.
…Perché vede, una era compagnia… ecco cos’era. Una compagnia perfetta. Se ha mai vissuto da sola saprà quanto è preziosa. Certo, c’erano i miei tre giovanotti, che venivano a cena tutte le sere, e qualche volta si trattenevano in sala da pranzo a leggere il giornale.
Ma non potevo aspettarmi da loro che fossero interessati alle piccole cose di cui era fatta la mia giornata. Perché avrebbero dovuto? Non ero niente per loro. Difatti, una sera li sentii mentre parlavano di me sulle scale e mi chiamavano la “spaventapasseri”. Non importa. Non ha importanza, davvero. Posso capirli. Sono giovani. Perché dovrei prendermela? Ma ricordo di essermi sentita particolarmente grata, quella sera, per il fatto di non essere completamente sola.
Glielo raccontai, dopo che se n’erano andati. Dissi: “Sai come chiamano la tua Padrona?”. E lui piegò la testina di lato e mi guardò coi suoi occhietti vispi finché non mi scappò da ridere. Sembrava divertito.
…Ha mai avuto degli uccelli? Se non ne ha mai avuti probabilmente tutto questo le suonerà esagerato. La gente pensa che gli uccelli siano senza cuore, fredde creaturine, non come i cani e i gatti. La lavandaia tutti i lunedì mi domandava perché non prendevo “un bel fox terrier”. “Un canarino non dà nessun conforto, signorina.” Falso. Terribilmente falso.
Ricordo una notte. Avevo fatto un sogno orribile – i sogni possono essere spaventosamente crudeli – anche dopo essermi svegliata non riuscivo a scrollarmelo di dosso. Così mi misi la vestaglia e scesi giù in cucina per bere un bicchier d’acqua. Era una notte d’inverno e pioveva forte.
Forse ero ancora mezza addormentata, ma attraverso la finestra della cucina, che non aveva gli scuri, mi parve che il buio mi fissasse, che mi spiasse. D’improvviso, sentii che era insopportabile non avere nessuno a cui poter dire: “Ho fatto un sogno orribile”… Oppure: “Proteggimi dal buio”. Per un istante mi coprii perfino il viso con le mani. E in quel momento sentii un piccolo “Cip! Cip!”.
La gabbia era sul tavolo, e il panno era scivolato in modo da far entrare uno spiraglio di luce. “Cip! Cip!” fece di nuovo quel caro piccolo tesoro, dolcemente, come per dire: “Sono qui, padrona! Sono qui!”. Fu così meravigliosamente confortante che per poco non mi misi a piangere.
…E ora non c’è più. Non avrò mai più un altro uccello, nessun animale di nessun tipo. Come potrei? Quando lo trovai, riverso sul dorso, con l’occhio vitreo e gli artigli serrati, quando mi resi conto che non avrei mai più ascoltato cantare il mio tesoro, mi parve che qualcosa dentro di me morisse. Il mio cuore era vuoto, come la sua gabbia. Lo supererò. Certo. Devo. Tutto col tempo si supera. E la gente dice sempre che ho un’indole allegra. Hanno ragione. Ringraziando Dio, ce l’ho.
…Eppure, senza voler essere morbosa e senza indulgere in – in ricordi e così via, devo confessare che mi sembra ci sia un che di triste nella vita. È difficile dire che cosa. Non mi riferisco al dolore che tutti conosciamo, come la malattia, la povertà e la morte. No, è qualcosa di diverso.
È lì, nel profondo, nel profondo, fa parte di noi, come il nostro stesso respiro. Per quanto lavori duramente e mi stanchi, appena mi fermo so che è qui, in attesa. Spesso mi chiedo se anche
gli altri provino la stessa cosa. Non si può mai sapere.
Ma non è incredibile che dietro quel suo piccolo dolce canto gioioso fosse proprio questo che sentivo – la tristezza… Oh, che altro?