ARTICOLO n. 43 / 2024

PUNTUALI COME UN OROLOGIO

il mito delle mestruazioni

Nel 1945 lo scultore Abram Belskie, supportato dal ginecologo Robert L. Dickinson, realizzò due statue destinate a diventare famose. Le sculture, che vennero battezzate Normman e Norma, dovevano rappresentare le caratteristiche tipiche degli uomini e delle donne americane. Detto in altre parole, erano chiamate a raffigurare quei tratti – altezza, peso, conformazione fisica, muscolatura – che costituivano la media statistica della popolazione degli Stati Uniti, una sorta di rappresentazione visiva di ciò che voleva dire, in quel periodo e in quella zona del mondo, essere “di sana e robusta costituzione”. Non è un caso, infatti, che alla loro creazione contribuirono solo le misure prese su una certa popolazione, quella con la pelle bianca, senza disabilità o altre caratteristiche considerate devianti o non desiderabili. 

Quando, nello stesso anno, le due statue furono trasferite al Cleveland Health Museum, sul principale quotidiano dell’Ohio campeggiava un titolo: «are you Norma, typical woman?». Il giornale invitava le donne americane che si sentivano “vicine” alle forme di Norma a partecipare a un concorso: la concorrente con le caratteristiche più somiglianti a quelle della statua si sarebbe aggiudicata il primo premio. Come ricorda Sarah Chaney nel suo Sono Normale?, furono più di quattromila le donne che si iscrissero ma nessuna di loro, neppure la vincitrice Martha Skidmore, possedevano esattamente le forme o le misure di Norma. 

Gli standard di bellezza incombono sulla vita delle donne da secoli e, come la storia di Norma ci ricorda, sono nella maggior parte dei casi irrealistici. Essi non hanno a che fare solo con l’esteriorità ma diventano così pervasivi da inserirsi anche nei discorsi apparentemente più lontani, come quello sulle mestruazioni. Nel nostro viaggio intorno ai miti su cui si è costruito un certo ideale di femminilità non possiamo quindi non soffermarci sul rapporto – stretto, intricato e quasi sempre sbagliato – tra il concetto di normalità e quello di ciclo mestruale.

All’età di quindici anni il ginecologo da cui mia mamma mi aveva portato a causa di un ciclo irregolare e doloroso mi prescrisse la pillola contraccettiva. Quel giorno e in tutte le visite successive, il medico si affrettava a ricordarci che la “terapia” aveva una funzione regolarizzante: sarebbe servita, cioè, non solo a prevenire gravidanze indesiderate ma anche a curare uno dei sintomi più noti della sindrome dell’ovaio policistico, le mestruazioni scombinate. Assumendo regolarmente quei confetti colorati, ventotto giorni dopo si manifestò quello che per me, abituata a cicli quadrimestrali, aveva tutta l’aria di essere un miracolo: un flusso regolare. Dopo anni di disagio e dolore, quelle mestruazioni rappresentavano la svolta. Nessuno mi aveva detto, però, che non erano affatto delle mestruazioni ma un semplice “sanguinamento da sospensione”. Che cosa sia, un sanguinamento da sospensione, lo spiega bene Laura Tripaldi inGender tech: «Esistono varie tipologie di pillole contraccettive ma tutte (…) agiscono attraverso una soppressione del processo di ovulazione. Questo significa che, per una persona che prende la pillola, non esiste alcun “ciclo mestruale” da regolarizzare: l’assunzione sopprime la variazione ciclica degli ormoni che determina tanto l’ovulazione quanto la mestruazione». Il medico che mi spiegava i benefici della pillola nella regolarizzazione del ciclo mi aveva detto una falsità, ma ho potuto scoprirlo solo molti anni dopo anche grazie agli studi compiuti in autonomia. Tante donne, oggi, ricevono ancora la stessa informazione sbagliata, e non da amiche o dottori disinformati: tra le FAQ del sito del Ministero della Salute è riportato chiaramente che la regolarizzazione del ciclo «rappresenta uno degli effetti positivi che svolge la pillola».

Le mestruazioni sono, oggi, forse l’unico tabù rimasto. Se è vero che possiamo parlare praticamente di tutto, dal porno alla morte (non importa, in questa sede, in che termini se ne discute), è altrettanto vero che il tema del sanguinamento mestruale resta fuori da qualsiasi discorso, come se non riguardasse direttamente circa la metà della popolazione mondiale. Nel volume Ciclo, la docente Kate Clancy ripercorre le tante credenze che si sono via via sedimentate intorno alle mestruazioni. Se, per Aristotele, esse costituivano la materia – inerte, fredda e passiva – che gli spermatozoi “attivavano” nel momento del concepimento, durante il Medioevo diventano il pretesto per accusare le donne di essere pericolose: si raccontava, per esempio, che le persone mestruanti fossero in grado, a causa dei vapori esalati, di avvelenare i bambini in culla. Non è un caso che proprio in quegli anni la visione intorno al potere “mostruoso”, contenuto in ciascuna donna, si radicalizzi, costituendo il pretesto per fomentare la paura della stregoneria, ma su questo torneremo poi.

L’idea che le mestruazioni possano essere pericolose è radicata nel concetto di tabù, che ancora connota la discussione intorno a questo argomento, a qualsiasi latitudine. Per la giornalista Élise Thiébaut, autrice di Questo è il sangue, la parola “tabù” sembra essere stata coniata a partire da due termini polinesiani che significano “marchiare” e “intensità”. Il termine rimanda quindi a un segnale, a un tratto distintivo che indica un pericolo. Thiebaut fa notare la natura ambivalente del concetto, «dato che designa sia ciò che è proibito e impuro sia ciò che è sacro, misterioso, investito da un potere divino». Clancy, che nel testo già citato riprende queste considerazioni, osserva come gli antropologi occidentali, nel riportare il significato di questa parola, che deriva dal termine polinesiano indigeno “tabu” o “tapu”, si siano concentrati soltanto sull’idea di pericolo e proibizione, ignorando il suo legame con la sacralità.

La versione parziale del concetto di tabù, unita a un approccio scientifico che ha guardato alla fisiologia della donna con disprezzo o diffidenza, ha contribuito a portare quelle bizzarre teorie sulle mestruazioni fino ai giorni nostri. Negli anni Venti del secolo scorso, il Dottor Schick teorizzò la presenza di una tossina particolarmente tossica, la menotossina. Il luminare arrivò a provare la sua ipotesi mediante un esperimento. Pose due fiori in due vasi diversi, entrambi riempiti con acqua distillata, ma in uno diluì una piccola quantità di sangue venoso, nell’altro la medesima concentrazione di sangue mestruale. Nonostante i fiori fossero stati recisi e immersi nel vaso nello stesso preciso momento, quello a bagno nella soluzione contenente sangue mestruale appassì velocemente. Il medico aveva trovato una motivazione in grado di spiegare perché fosse opportuno, per le mestruanti, non evitare contatti con il resto della comunità.

Ben prima dell’esperimento del dottor Schick, l’atavica paura nei confronti del sangue mestruale aveva portato alla creazione di pratiche misogine e dannose, come quella del Chhaupadi, in Nepal, che consiste nell’isolare le donne in apposite capanne, molte delle quali senza servizi igienici o coperte, perché si crede che il sangue espulso sia nocivo. Si tratta di tradizioni dichiarate fuorilegge, ma che nei fatti continuano a essere osservate, esattamente come, in Occidente, si ritiene ancora che chi ha le mestruazioni faccia impazzire la maionese o non possa lavarsi per evitare di incorrere in emorragie.

Oggi questi stereotipi sono in larga parte superati, quello che resta ancora da fare è fuoriuscire dall’idea che le mestruazioni debbano essere “normali” per essere accettate. Come ricorda Clancy, non sappiamo ancora perché si manifestino indicativamente una volta al mese, considerando il dispendio di energie che il cervello deve impiegare per gestire le complesse pratiche di cui il ciclo si compone, come monitorare i livelli ormonali, formare e sfaldare l’endometrio, ecc. Molti studi dimostrano come il sangue mestruale «possieda importanti proprietà di cura e riparazione quando si trova in utero». Tuttavia, il ciclo, nella sua durata e nelle sue manifestazioni, è fortemente influenzato da fattoriindividuali – sia fisici, come l’età di arrivo del menarca, che psicologici, come la relazione con i caregivers – e sociali. Essere esposte a esperienze sfavorevoli infantili, far parte di categorie marginalizzate e discriminate, subire lo stigma grassofobico o gli stereotipi che ancora si associano alla cosiddetta “sindrome premestruale” influisce negativamente sul modo in cui il ciclo si manifesta.

Presentare il ciclo mestruale (che, come ci ricorda la studiosa Anna Buzzoni in Questo è il ciclo, è solo uno dei tanti cicli che gli esseri umani sperimentano nell’arco della vita) come qualcosa di monolitico, che accade regolarmente a tutte le persone assegnate femmine alla nascita, avulso dal altre esperienze endogene o esogene, significa contribuire a costruire una specifica idea di cosa voglia dire essere una donna… una donna “sana”, cioè “normale”.

Nel suo funzionamento, la pillola contraccettiva sopprime il ciclo mestruale ma mantiene l’esperienza del sanguinamento, in realtà totalmente inutile, per dare la percezione che esso si manifesti secondo i ritmi dettati dalla natura. Rubricare tutte le altre modalità in cui il ciclo accade definendole “irregolari”, anche in assenza di particolari condizioni mediche, rappresenta il tentativo di normare un certo ideale di femminilità, che risponde ai consueti dettami culturali: fertile, controllabile e innocuo. Tutte le soggettività che non rientrano in questi parametri sono mostruose (esattamente come lo erano i corpi delle streghe, tema intorno al quale la studiosa Francesca Matteoni dedica gran parte della sua ricerca) e pertanto da ammaestrare o punire. 

Riflettere sulle mestruazioni, normalizzando la loro presenza nei nostri discorsi, non significa solo liberarsi di preconcetti e tabù: significa anche accogliere l’estrema variabilità di cui la natura sa rendersi portatrice.

ARTICOLO n. 93 / 2024