ARTICOLO n. 47 / 2022

PREGARE A ROMA

Mi piace entrare nei portoni aperti. Delle case, dei palazzi importanti e di quelli qualunque. 
Delle chiese, tantissimo.

Quello che sto per fare è costruire una mappa che però somiglia più alle carte dell’agopuntura, insomma una guida per trovare portoni aperti. Qualcuno che dall’altra parte, misteriosamente, potrà ascoltarti.

Pontificio Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Urbe

È il primo posto in cui sono finita a pregare con l’idea di pregare, da adulta. Dove ho sondato la mia insondabile ignoranza religiosa e storica, e dove ho imparato gli assi fondamentali della fede. Sempre qui, in questo edificio anni ’60 non particolarmente bello ma con una bellissima terrazza su Santa Maria Maggiore, ho fatto amicizia con uno tra i miei più cari amici che è Elia, un giovane prete, che vive lì.

In effetti il seminario è anche collegio, con tanto di reception e receptionist. Una porta a vetri si apre ogni volta che passa qualcuno troppo vicino. Il sensore è troppo sensibile. Il receptionist ormai mi conosce, e ogni volta: Don Elia, vero? Annuisco, sorrido. Quindi telefona, o forse in realtà usa una specie di grosso interfono, e lo avvisa che sono arrivata. C’è Elisa qui sotto. Scende subito.

La cosa più bella che ho fatto qui dentro è partecipare a una messa delle ceneri, tra l’altro è successo proprio quest’anno. Era il due marzo. Non è un luogo pubblico, nel senso che se non ti invitano non ci capiti, ma partecipare a una messa dove ci sono solo preti è una cosa grandiosa e credo che tutti, credenti e non, una volta nella vita dovrebbero sperimentarla. L’aula è semplice, cemento e fiori, panche chiare e vetrate essenziali. Una sala piccola, niente di esagerato. I presenti, preti appunto, sono vestiti in bianco, in lungo, concentrati, tra un canto e una preghiera. 

Al momento della comunione non hanno bisogno di nessuno, prendono l’ostia da soli, sono preti d’altronde. Io di solito mi siedo in fondo, per scelta. Anche quest’ultima volta ho preferito stare verso l’uscita. Ora che ci penso c’erano altre tre donne, suore, vestite in blu elettrico, indiane, che ho incontrato di fronte all’altare brutalista in attesa dell’ostia. Loro, come me, hanno bisogno di un uomo per prenderla.

Santa Maria Maggiore

È una grande basilica, misteriosa e insieme una specie di supermarket della fede. Tanto turismo, tanti confessionali con la luce accesa o spenta a seconda se il prete è occupato o libero, i militari alla porta, i controlli e i metal detector. 

Qui mi sono confessata per la prima volta e qui ho litigato con un prete troppo dogmatico e ideologico. Era vecchio e sudamericano e mi ha chiesto se mi pareva una cosa bella andare a messa il giovedì invece della domenica. Per me è stato un incontro brutale. Ero abituata a parlare con uomini di chiesa liberi e grandiosi, che ad ascoltarli mi facevano sentire prigioniera di pregiudizi e moralista.

Quel prete è stata la prima eccezione. D’altronde come dicono gli stessi religiosi: sono pur sempre solo uomini, la chiesa non è composta da un esercito di santi.

Ho interrotto la confessione bruscamente e sono andata fuori, alla luce.

Santa Maria in Campitelli

Nel 2020 in pieno lockdown è stata la chiesa dove andavo a cercare di pregare, e concentrarmi sul futuro, in un momento in cui mi pareva non ci fosse più.

La chiesa in realtà era chiusa, come quasi tutto, però tenevano aperto il portone che a sua volta si apre su un ingresso in vetro e legno – da sempre però, non per il periodo del Covid – da cui puoi guardare dentro. La prima volta ho provato ad aprire la porta ma era bloccata, poi quando è stato possibile tornare dentro non ne avevo più voglia. Mi piaceva la distanza. Mi piaceva stare fuori e guardare come fossi a una finestra inversa.

Le luci erano accese, le candele brillavano e l’immagine lontana della Madonna dietro l’altare che protegge la città durante le calamità. È una tavoletta, non so come definirla in modo più preciso, piccola, una trentina di centimetri di altezza, con la Vergine che tiene il bambino in braccio e segna la via (Oditrigia). D’oro su fondo blu, una quercia con rami sinuosi, insomma bellissima. Ti viene voglia di trovare riparo in lei.

Il Circo Massimo

Da un paio di mesi mi capita di portare il cane a correre – correre si fa per dire, è alto venti centimetri e va subito in affanno –. Tra coppie di altri proprietari di cani, donne alle prese con la camminata con le racchette, ragazzini eccetera eccetera, insomma, oltre agli abitanti normali e prevedibili di una domenica mattina romana ho incontrato un gruppo religioso.

Il gruppo è eterogeneo, cantano suonano e parlano. C’è un prete, vestito da cerimonia, con stola e tunica. Uno stendardo indecifrabile (per me). E una croce. 

Qualche settimana fa mi sono fermata nei paraggi del gruppo per provare ad ascoltare, abusivamente, quella strana liturgia. C’era una signora sui settanta che raccontava di quando lei era vittima del diavolo e metteva la minigonna. Per fortuna lo diceva ridendo.

San Carlo ai Catinari

San Carlo ai Catinari che poi si chiama Santi Biagio e Carlo ai Catinari. Non so più da quanti anni è chiusa al pubblico. L’ultima volta che ci sono entrata è stata con il mio ex-fidanzato, una vita fa, dopo che fuori la porta della chiesa avevo visto una ragazza morta stesa a terra. Molto giovane, sovrappeso, un infarto mentre correva. Una morta tra i vivi, tremendo, immorale, atroce. 

Quando la chiesa è stata chiusa perché è crollato o forse rischiava di crollare il tetto, certe celebrazioni essenziali sono finite nell’edificio accanto. Doveva essere una soluzione provvisoria ma vabbè si sa come vanno le cose. La mattina c’è un signore molto magro che butta l’acqua sugli scalini di questo palazzo severo attaccato alla chiesa che finalmente è da qualche mese in ristrutturazione.

A volte ho visto un signore con baffi e barba e occhiali affacciarsi, chissà forse è un prete o forse un custode. Sono entrata più volte, soprattutto la sera. Un corridoio imponente e alto, una scala sulla sinistra e un altro corridoio sulla destra. Lì si apre una stanza che è diventata la chiesa provvisoria.

Non ho mai ascoltato una messa, ma ho visto dei ragazzi riunirsi la sera, all’ora dell’aperitivo, belli, giovani e beati come la giovinezza e la sua grazia a cantare con chitarre pezzi a me sconosciuti. Avevano l’aria felice, ho faticato a non invidiarli. 

San Pietro, certo, ma solo per i rave

Non c’è cuore più cuore del mondo cattolico, giusto? Ma qui vado solo per le grandi occasioni, ovvero i rave del cristianesimo come li chiamava un mio ex. Oppure per tradizione, alle 12, per l’Angelus della domenica. Mi piace vedere il papa minuscolo che si affaccia. Mi piacciono le persone accalcate come a un concerto, la tensione dell’attesa, e quando è la Domenica delle Palme e il papa si aggira in macchinetta nella piazza, è bellissimo osservare i presenti, il pubblico, assatanati di immagini, di video, che cercano di riprendere Bergoglio.

I cellulari diventano una specie di campo di girasoli che si orienta secondo il percorso del papa. È vitale. 

Poi ci sono i rami di ulivo e le palme intrecciate ed è bello tornare verso casa con queste piante benedette che ci ricordano quanto i destini del mondo e dell’uomo sono sempre pronti a essere capovolti. 

Pellegrinaggio del Divino Amore

Per caso, una notte, stavo all’altezza delle Terme di Caracalla tornando a casa e vedo una processione di persone con stendardo, croce luminosa rossa e megafono che si muoveva barcollante verso l’Appia Antica. 

Poco dopo, sempre per caso, una mia amica mi dice che la sua baby-sitter va tutti i sabato sera a fare il cammino del Divino Amore, e che dovrei andare con lei, mezzo sfottendo. Perché è più forte della volontà e dell’intelligenza dei miei amici prendere sul serio il fatto che io possa essere diversa da loro e pur non essendo andata in comunità abbia deciso di battezzarmi un paio di anni fa e quindi credere in Dio.

È un percorso assurdo e bellissimo, parte al Circo Massimo e arriva al Divino Amore. Il centro della città, poi l’Appia Antica, la bellezza delle ville del selciato romano delle mura e la porta San Sebastiano e giù per la strada verso le Fosse Ardeatine, stazione dopo stazione, preghiera dopo preghiera, finché la città arretra e scompare si riprende e diventa un’altra, tra camion e pini e nuvole basse e gonfie. Una periferia strana, compatta e sfilata, lavori in corso che eternamente si spostano, reti e griglie e buche sull’asfalto.

Canti in moldavo, italiano, e altre lingue. Chi oscilla, chi approfitta del prete che si perde nel corteo più o meno consistente, che è lì per confessare, per dare aiuto e ascolto; ma a volte anche lui cede e controlla il telefono. Una seconda torcia, oltre la croce al led.

Poi però quando arrivi al santuario del Divino Amore sembra di arrivare in un sogno d’infanzia: un’enorme lanterna gialla e blu, accesa, che ti aspetta. Quindici chilometri, mi pare, di cammino, di notte, fino all’alba.

C’è chi giunge stremato – i più devoti fanno il cammino scalzi – chi felice, soddisfatto, chi fa finalmente colazione prima ancora della comunione.

Cimitero del Verano

La casa di quello che c’è dopo la vita, ovvero la morte. A San Lorenzo, dove c’è di tutto: università e universitari, ospedali, catacombe e basilica, artisti fotografi e romani da sempre, dalla fondazione della città. È stato costruito, ampliato, bombardato, ricostruito, ri-ampliato e ora che è al completo, monumentale, ospita migliaia di ex-vivi.Trovare tutte queste porte aperte è difficile, come pure credere è difficile. E molto. Potrebbe apparire una soluzione conveniente ma la fede rende le cose ancora più complicate. È un’azione piena di dubbi e insidie, che cerca conforto e conferma e altri dubbi; a volte niente sembra bastare, a volte invece basta incontrare una madonnina incastrata nell’angolo di una strada, insomma basta incontrare una testimonianza di tracciati invisibili, privati, che diventano riferimenti collettivi, per ricordarmi gli assi cartesiani del segno della croce proiettati sul mio petto ogni volta che mi sento, di nuovo, parte di quel popolo. Di quel mondo. Di una storia e di una città.

ARTICOLO n. 93 / 2024