ARTICOLO n. 98 / 2023

PIAZZA FONTANA

In occasione del cinquantaquattresimo anniversario di Piazza Fontana, pubblichiamo un estratto da Sconfitti (Il Saggiatore). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Sono difficili da dimenticare quei giorni della strage di piazza Fontana, venerdì 12 dicembre 1969. Per un caso ero entrato nella Banca non molto tempo dopo l’esplosione. Di ritorno da Roma, alla Stazione Centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, era appena successo qualcosa di grave, lo scoppio di una caldaia alla Banca dell’Agricoltura e si parlava di molti morti. Gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa. 

In piazza Fontana c’erano solo qualche ambulanza e qualche macchina dei carabinieri e della polizia. Non si vedeva ancora nessuno venuto a curiosare nell’aria nerastra. 

«Macché caldaia, è una bomba, ci saranno trenta morti» mi disse qualcuno. Non c’erano ancora blocchi, servizi d’ordine. Dal portone cominciavano a uscire barcollando i sopravvissuti, informi ossessi che si scontravano con i barellieri di corsa in senso contrario. Entrai senza difficoltà nella grande sala a pianterreno. Una macelleria dell’orrore. Il sangue colorava la polvere dei vetri frantumati e il legno dei mobili ridotti in briciole e continuava a colare. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e una testa rotolare sul pavimento. Brandelli di cadavere spuntavano da ogni parte. Qualche corpo meno straziato era finito oltre il bancone delle casse a forma di ferro di cavallo dove gli impiegati, una parte di loro almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in trincea. 

Qualcuno gettava in un mucchio gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande, mi sentivo confusamente prigioniero di un’atonia paralizzante. Non mi veniva in mente niente, riflessioni, pensieri, giudizi. Come se fossi azzerato nell’anima. La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza. Ero invece smisuratamente attento ai particolari più minuti che possono anche essere rivelatori, guardavo con fissità, come un automa, una mano recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. Mi trovavo, ma lo compresi dopo, in un ambulacro di morte difficile da immaginare anche per chi avesse la macabra fantasia di inventare la fine del mondo andato in fiamme. 

Tra le macerie e i resti umani captavo qualche notizia. Sembravano voci recitanti le parole che sentivo, dialetti mescolati, di tonalità diverse. A esprimersi, a mozziconi di frasi, erano gli ultimi sopravvissuti rimasti dentro la banca, impiegati, commessi, agricoltori. 

La bomba era scoppiata con un gran tuono e un bagliore arancione. La borsa con l’esplosivo – si saprà dopo che si trattava di dinamite a base di binitrotoluolo, dall’odore di mandorle amare – era stata messa sotto il tavolo di legno in mezzo al salone. Dove ora c’era un buco profondo, epicentro della strage. I frammenti della bomba erano schizzati sui banchi degli impiegati seminando cadaveri, smembrandoli – diciassette morti e un centinaio di feriti –, ma questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni, mesi e anni successivi, dopo un macabro alternarsi di voci. 

A un certo momento – non riuscivo a muovermi dall’orlo del buco – vidi dietro i banconi degli impiegati l’orologio della banca di cui non mi ero accorto. Si era fermato alle 16:37. Quasi un notaio della strage. Farà il giro del mondo, alle TV e in fotografia. 

Fino a quell’ora il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura era stato popolato dai clienti del mercato del venerdì. Si riunivano lì fuori, tra l’Arcivescovado, il Consorzio agrario e dentro la banca. Venivano dai paesi del Milanese e anche dalla Bassa padana, proprietari di terra, fittabili, coltivatori diretti, commercianti, sensali. La tradizione del mercato – estate e inverno – era antica. Il venerdì pomeriggio, per offrire ai clienti maggiori opportunità, gli sportelli restavano aperti più a lungo del solito. 

Per i loro affari, compratori e venditori di terra, di bestiame, di fieno e di sementi usavano da sempre la Banca dell’Agricoltura e il tavolo di legno massiccio, ottagonale, era il luogo della scrittura definitiva, dopo le interminabili strette di mano dei mediatori. Si sedevano lì gli agricoltori, per firmare l’assegno, per compilare il bonifico, per la cambiale. Il tavolo, sotto il ripiano di scrittura, era diviso a spicchi e capitava che chi sedeva appoggiasse per terra o accanto ai divisori di legno la propria borsa. Anche l’assassino doveva aver lasciato lì sotto la borsa fabbricata da un’industria tedesca, la Mosbach‐Gruber, con dentro la bomba, venduta con altre tre borse simili dalla valigeria Al Duomo di Padova. 

Rimasi ancora un po’ tra i resti della banca, in una gran polvere di detriti. Un poligono di morte. Poi arrivarono le autorità, il cardinale, il prefetto, il questore, il sindaco e si misero in moto i meccanismi dell’ufficialità. Gli ordini gutturali delle guardie, le loro voci stizzite rompevano ora l’aria, tra i cordoni e le barriere che si formarono. Le autorità erano più importanti dei cadaveri. Fui cacciato. 

Cominciavo lentamente a capire l’enormità di quanto era accaduto, nel centro della città, a pochi passi dal Duomo. Ma non avevo ancora coscienza di essermi trovato, inconsapevole, quasi per caso, dentro una storia di cui si sarebbe discusso anni, priva di colpevoli, come sempre accade quando si tratta di affari politici in cui lo Stato non è assente. Pensai dopo, immaginai, meglio, di aver rivissuto là dentro l’avventura di Pierre Bezuchov, il personaggio tolstoiano di Guerra e pace che vaga sperduto tra i cosacchi, gli ussari, i cadaveri e i cannoni, non cosciente di esser stato, nel 1812, testimone partecipe della battaglia di Borodinò, ricordata per la vittoria o mezza vittoria della Grande armata di Napoleone che arrivò nel cuore di Mosca, al Cremlino, e trovò la città abbandonata, incendiata, saccheggiata, e fu costretto, dopo due settimane, alla ritirata, con un esercito semi‐distrutto che divenne via via un’orda caotica come accadde all’armata di Hitler più di un secolo dopo.

Quella notte non si andò a dormire. Si temeva il colpo di stato. I ragazzi del Movimento studentesco cercavano un tetto per nascondersi. Fino a tardi ci fu quasi una processione in piazza Fontana, uomini e donne di ogni condizione sociale sostavano in piccoli gruppi nelle strade lì intorno, via Santa Tecla, via Larga, via Festa del Perdono, l’Università Statale, piazza Santo Stefano, il Verziere. A discutere, a far congetture, mentre le notizie degli attentati di Roma e del fallito attentato di Milano alla Banca Commerciale aprivano nuovi scenari e suscitavano nuovi incubi. 

Il sabato e la domenica passano in un clima di paura e di sospetto per quel che può accadere. Il lunedì i funerali in piazza del Duomo, nera come la pece, i lampioni accesi in un mattino che sembra notte fonda, le candele accanto alle bare, le corone di fiori a far da cornice, migliaia e migliaia di uomini e donne dai volti gelidi come se fossero stati modellati dalla stessa mano con la creta usata da un primitivo scultore ducentesco. Trattengono nel cuore commozione e pianto. 

Le autorità siedono immobili nei primi banchi della cattedrale, il cardinale invoca misericordia. Di carabinieri e poliziotti intorno alla piazza, sotto i portici della Galleria e altrove, neppure l’ombra. 

Da Sesto San Giovanni, a piedi, sono arrivati invece migliaia di operai, le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Falck, della Magneti Marelli. Sono loro il servizio d’ordine, i veri tutori, il fermo no della città e dell’intero Paese all’avventurismo eversivo. Nel nome della democrazia. Il messaggio fu compreso dagli sciacalli del disordine. 

La strage di piazza Fontana è un romanzone angosciante, fitto di morti, di personaggi sul filo dell’invenzione settaria, di povere vittime incolpevoli e anche di uomini e di donne che, come succede nei grandi casi della vita, in quell’occasione scoprirono se stessi e lottarono in nome della verità e della giustizia. Quello fu anche il romanzo non scritto di una società divisa in due, gonfia di fervori, di furori, vitale e faziosa – gli innocentisti, i colpevolisti – una piccola Parigi che rammenta il caso Dreyfus, così come lo raccontò Zola e, tra gli altri, Marcel Proust. Fu per molti una rivelazione, quella dello Stato e di certi suoi apparati che avrebbero dovuto tutelare istituzionalmente la Repubblica e invece complottavano contro la Repubblica, depistavano le indagini, proteggevano esecutori e mandanti di una strage chiaramente fascista. 

Si rompevano vecchi cliché. Le autorità erano scandalizzate nel rendersi conto che molti giornalisti – scrivevano sui giornali della borghesia tradizionale, appartenevano ai ceti privilegiati – mettessero in dubbio le verità questurine e facessero quel che dovevano, cercare le notizie. Si sentì allora, acutamente, che non esisteva soltanto il conflitto di classe, ma anche il conflitto tra le due facce della borghesia, mai sanato: la borghesia fedele alla Costituzione e la borghesia infedele anche ai propri principi, disponibile all’illegalità in nome dell’interesse privato. 

ARTICOLO n. 93 / 2024