ARTICOLO n. 87 / 2023
PER ERNESTO FERRERO
Quando si entra a far parte di una casa editrice di una certa importanza, tradizione e prestigio, si rimane frastornati; l’incontro diretto con autori di cui si sono apprezzate le pagine, o con l’editore e i suoi più stretti collaboratori, mette soggezione; e, più in profondità, suscita un cauto orgoglio. Sembra di aver passato la porta di ingresso nel pantheon dove regna incontrastato il pensiero, e dove i passi sono tutti di persone di elevata statura morale, ovviamente scrigni di saperi sconfinati. Pochi giorni a un tavolo di lavoro e già si hanno i primi sospetti che non sia così.
Entrando all’Einaudi nei primi anni Settanta, si incrociavano gli occhi irridenti e ghiacciati di Giulio Einaudi, quelli grandi e interrogativi di Giulio Bollati, e di molti altri che sembravano dirti: “non penserai che sia una passeggiata, che adesso ti metti comodo a leggere, o a scrivere; vedrai…” Erano occhi sfidanti, quando ti andava bene simili a quelli di chi aveva già fatto molte guerre, e che ti guardavano con l’aria un po’ sprezzante, un po’ pietosa di chi annuncia durissime prove iniziatiche. E questo era vero. Presentazioni e passaggio alle prove. Fra quelle molte paia di occhi un po’ spaventosi, l’incontro con quelli di Ernesto Ferrero era piacevolmente rassicurante: il suo sguardo riceveva lo sconosciuto con cordiale affabilità, senza l’ombra di sfide e competizioni, nulla di quel brillìo vagamente omicida che traspariva fra le palpebre di tanti altri. Allora ancora giovane, senza alcuna traccia nelle parole o nei gesti degli anni roventi recenti e presenti, Ernesto era accogliente, amichevole, e sempre sorridente. Non rideva né parlava ad alta voce; in via Biancamano l’unico che fendeva con i suoi fragori vocali un silenzio connaturato con la scrittura e la lettura era Guido Davico Bonino. No, intendiamoci, Ernesto non aveva affatto l’aria del monaco amanuense, ma era naturalmente gentile, di aurea mediocritas quanto al tono della voce: una voce senza inflessioni, nordica, morbidamente ironica. Di ironia, si sa, se ne parla spesso, ma poi si sente piuttosto il sarcasmo, o il dileggio. Reduci da un ’68 che fra altre predizioni annunciava che “l’ironia vi seppellirà”, in Einaudi – pur così vicina a tanto movimento di persone e idee in quegli anni – di quella materia fine ne circolava poca. Ernesto ne aveva, viceversa, un buon bagaglio. E la usava con discrezione. Dove altri avrebbero lasciato cadere una frase velenosa all’indirizzo di un collega, di una celebre dama della letteratura o di un principe del pensiero politico, Ernesto si limitava a due o tre parole allusive, intinte in un calamaio di ironia. Non l’ho mai sentito inveire contro qualcuno, né usare toni accesi, anche quando ve ne erano tutte le ragioni. Nessuno e neppure Ernesto, nonostante abbia trascorso i migliori anni della sua vita in Einaudi, ha attraversato quelle stanze senza inciampi, scambi anche aspri, situazioni difficili e persino drammatiche. Ma, come la regina Elisabetta, never complain never explain. Almeno in pubblico. Ma anche in privato, dopo aver consolidato una certa intesa con l’interlocutore, era più forte un certo sguardo di molte parole: che, come ci insegnavano i grandi veri, quelli indiscutibili, Primo Levi e Italo Calvino, non andavano sprecate. Ed Ernesto, in questo, sia per inclinazione personale sia per affinamento nella frequentazione di quei severi maestri, era stato un ottimo allievo e a sua volta un maestro. Dopo le quarte di copertina di Calvino, quelle di Ernesto sono state le migliori: scritte con la sapienza di uno scrittore, criticamente ineccepibili e con un invito alla lettura senza strilli, seduttivo e senza fronzoli.
Ernesto ha attraversato alcuni degli anni più vivaci della vita dell’Einaudi. La riunione del mercoledì era effettivamente una scuola di alti studi: insieme con i senatori, i vecchi compagni di strada di Einaudi, presenziavano invitati e studiosi che di volta in volta erano chiamati a esprimere giudizi su libri e autori senza ambiguità, senza perifrasi sibilline, meglio se con una certa ferocia. In quella camera caritatis dove vigeva la regola del silenzio totale appena fuori da quello spazio di libertà e di combattimento, nonostante Einaudi aizzasse tutti contro tutti, Ernesto manteneva una sua maniera di uomo per bene; non vi erano risse a cui ricordi di averlo visto partecipare. E non si creda che stia esagerando: ho personalmente chiamato l’ambulanza per un primario poeta e critico delle patrie lettere dopo una soffocata invettiva contro Giulio Einaudi, che lo aveva dileggiato come un ragazzino. Ernesto, in queste situazioni, esibiva una eleganza che era anche ineffabilità, quasi fatalismo: in un posto così, così incredibile per chiunque non lo potesse vedere con i propri occhi o subire sulla propria pelle, era naturale che ci fossero spargimenti di sangue. Salvo poi, oltre la riunione, rimettersi agli sguardi degli esterni in formazione compatta, come una piccola testuggine romana.
Giulio Bollati e Giulio Einaudi, i due Giuli, erano molto diversi fra loro; erano i capi indiscussi di via Biancamano e tendevano a fare proseliti. Non sempre era facile districarsi da quelle volontà di schieramento. Non lo fu neppure per Ernesto che, anche dopo varie esperienze in altre case editrici, restò legato allo Struzzo nel ricordo dei suoi anni migliori, e anche al bizzoso patron, che in tempi meno generosi di fortuna personale venne accolto da Ernesto e da Carla con affetto filiale e senza ombre di possibili recriminazioni.
Ma intanto, oltre a lavorare sui libri degli altri, Ernesto scriveva i suoi. È inutile ricordarli; se ne conoscono le pagine e i riconoscimenti che le hanno premiate. Ma non è inutile sottolineare che da acuto lettore di Primo Levi e Italo Calvino, Ernesto Ferrero ha fatto propria un’attitudine alla scarnificazione del testo, alla limatura della frase e della parola, alla levigatezza del discorso. Come si diceva in via Biancamano di fronte a testi di grande volume, “non ha avuto tempo di scrivere di meno”. Ecco, quel tempo, come i suoi due fari letterari e per certi versi anche umani, Ernesto se lo è preso sempre. E proprio con la sua ultima fatica, con Italo, ha raggiunto una maturità di scrittura, una limpidezza di stile e una intelligenza critica forse non toccate prima: come una vetta o un approdo definitivo. La sua discrezione, quel suo sorriso sempre presente a ingentilire il suo sguardo, sono stati interiorizzati anche stilisticamente e restituiti alla pagina con una estrema, e purtroppo definitiva, felicità.