ARTICOLO n. 25 / 2025
PENSARE A NIENTE
C’è un documentario su Netflix che s’intitola Don’t Die e racconta un anno della vita di Bryan Johnson, un miliardario americano che dedica l’intera giornata alla cura del corpo, con l’obiettivo minimo di ringiovanire, e quello massimo di vivere per sempre. Per centrare almeno uno dei due obiettivi fa una vita di merda (ça va sans dire). Bryan ingurgita un diluvio di pillole, segue una dieta implacabile, si allena come un atleta professionista. Non solo. Il suo corpo ogni giorno è sottoposto a una routine delirante: infrarossi, trasfusioni di plasma, terapie geniche. Il tutto gestito da un algoritmo. Questo programma ha un nome, Blueprint Project, e un costo di due milioni di dollari l’anno.
Durante il racconto che fa di sé, Bryan parla del suo passato di imprenditore rampante sopraffatto da una tipica sindrome da burnout: la sua vita privata andava in pezzi e l’unica cosa che gli veniva facile era non alzarsi più dal letto. Era giunto alla conclusione che il suo problema fosse il cervello. Adesso invece, da quando cioè ha affidato la cura del corpo a un algoritmo, non deve più pensare a niente e sta enormemente meglio.
«Il cervello è la parte debole dell’essere umano», dice. Una cosa non priva di verità. Un’ovvietà forse. Ma nel pronunciarla, centra uno dei nodi su cui si sta giocando il futuro della specie umana: un futuro (ma diciamo pure un presente) che mira in ogni campo a sottrarre potere alla logica, al pensiero, alla conoscenza, al senno, cose che possono essere delegate alle macchine, a chi detiene il potere computazionale, alla ristretta minoranza che gestisce i big data, un futuro che ci sta progressivamente liberando dalla seccatura di dover pensare. E non è un caso che nel mondo tutto ciò che è legato alla cura del pensiero sia sotto attacco, che la scienza e il lavoro intellettuale siano deprezzati e umiliati, che la rappresentanza politica sia affidata a individui sempre più rozzi e ignoranti. Un processo che non inizia oggi, ma che è già in atto da secoli. Qualche anno fa Gerald Crabtree, un genetista dell’università di Stanford, dimostrò che la specie umana ha raggiunto l’apice della sua evoluzione cerebrale circa duemila anni fa, per poi scivolare verso un inarrestabile declino cognitivo.
Se lo scopo dell’Illuminismo era liberare l’uomo dall’incapacità di valersi del proprio intelletto – «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» era il motto invocato da Kant – due secoli e mezzo dopo l’umanità sembra proporsi esattamente lo scopo contrario: abbi il coraggio di servirti di un’intelligenza altra. Non mi riferisco soltanto all’avvento dell’AI, cui nei prossimi tempi demanderemo in modo sempre più massiccio compiti e funzioni (benché al momento, malgrado i cupi allarmi, mi paia più utile che nociva), ma di una riscoperta del corpo, inteso come corpo pensante e gaudente, che inibisce la mente dal generare frustrazioni, sofferenze e dolore. Quello che si prospetta è uno scenario non di poco conto, che pone al centro una potente ridefinizione del concetto stesso di felicità.
Se infatti l’uomo del futuro non agirà obbedendo al cervello, ma ai polmoni, al fegato, al cuore (come sostiene Bryan Johnson), potrei provare fin da subito a immaginarne le conseguenze. La psicologia diventerà una disciplina inutile. Il sapere sarà un fardello che non ci riguarderà più, perché a farsene carico saranno i cloud. Non conosceremo tristezza, angoscia, depressione. Saremo idioti e felici, ma di una nuova forma di felicità. Se è vero che per Schopenhauer chi cerca attivamente la felicità va per forza di cose incontro a delusioni e frustrazioni, noi saremo felici, perché non sapendo più neppure cosa sia la felicità, avremo finalmente smesso di cercarla.
Nelle innumerevoli meditazioni che faccio su me stesso, un quesito cui torno spesso è: cos’è che mi rende davvero umano? Il rischio che corro è di cadere sempre nella vecchia trappola cartesiana del dualismo tra res extensa e res cogitans, finendo per far prevalere la seconda sulla prima. Sono umano perché penso. Ma il corpo non è estraneo al mio pensare. Se vogliamo dirla tutta, il corpo, per la parte organica che riguarda il cervello, contiene quel mondo astratto agitato da impulsi elettrici che è il pensare. E le stesse funzioni del corpo influenzano l’oggetto e la qualità delle mie speculazioni.
Se potessi rivolgere una domanda a Bryan Johnson, probabilmente sarebbe: sei proprio sicuro che le esperienze del corpo sono più concrete degli astratti pensieri?
Il corpo dialoga con la realtà oggettiva del mondo attraverso i sensi. Se uno dei sensi viene meno, si interrompe una via di comunicazione tra noi e la realtà. Il corpo è lì, al confine. È la membrana esterna che tocca ciò che ci è estraneo per natura. E perciò è il nostro mezzo principale di conoscenza, è la sonda che raccoglie il materiale per il cervello, il quale poi lo rielabora e gli dà forma.
Immaginiamo di vivere la condizione auspicata da Bryan Johnson, in cui la seconda fase del processo di conoscenza è abolita, in cui ci limitiamo soltanto a fare esperienza del mondo attraverso i sensi, potendo fare a meno della “parte debole dell’essere umano”, ossia della mente. Ho passato la scorsa estate a leggere quel libro sconvolgente sotto molteplici punti di vista che è il De rerum natura. Nel Libro IV, Lucrezio elenca una serie di inganni dei sensi (facciamo attenzione alla parola “inganni”): le stelle nel cielo che ci sembrano ferme anche se vagano nello spazio profondo, il soffitto che vortica quando i bambini finiscono il loro girotondo, il marinaio cui pare che il sole nasca dal mare e nel mare si inabissi, la rifrazione di un remo immerso nell’acqua che lo fa sembrare dritto, i raggiri del sonno e dei sogni. Aggiunge che la nozione di ciò che chiamiamo “verità” è plasmata sui sensi, perché riteniamo che i sensi siano la cosa più affidabile. I sensi invece sono plagiati dall’illusione, sappiamo che perfino i colori sono un’illusione, le tre dimensioni, la percezione dello spazio, il caldo e il freddo… Tutto è illusione. Non c’è niente di vero. A buon diritto si può dire che non esiste neppure la nozione di vero.
Lucrezio però non se la sente di tirare dritto su questa deduzione fino a negare l’universo intero, e finisce per dire che, nonostante tutto, dobbiamo nutrire la massima fiducia nei sensi, perché ciò che è vero per i sensi, è vero in assoluto. Se Lucrezio lancia il sasso e nasconde la mano lo si deve al fatto – dice lui – che se mettiamo in discussione i sensi, crolla l’intera struttura della nostra esistenza. Quindi tocca andarci piano nello scrutare in certi abissi.
È più o meno la cosa che mi disse una volta uno dei tanti psichiatri che ho conosciuto negli anni: “È innegabile che affacciarsi su quel gorgo sia una cosa affascinante. Ma è pericoloso. Molto. Perciò glielo sconsiglio”.
Tanto la mente quanto il corpo quindi sono inaffidabili. Nei giorni in cui sperimentavo dure terapie farmacologiche per combattere i sintomi di una feroce depressione, avevo l’impressione di essere a stretto contatto con la realtà, più di quanto non lo fossi mai stato in vita mia. Ma quella che vedevo era una realtà totalmente priva di significato, era il cadavere della realtà, che i non depressi tendono generalmente a rianimare attraverso la loro briosa fantasia.
Nei momenti di peggiore sconforto, in effetti, si smette di credere a tutto, in primo luogo ai propri sensi. Ciò che chiamo sconforto però è una gigantesca epifania, una visione stereometrica delle falsità con cui ci consoliamo in ogni istante della nostra vita. Quello che mi chiedevo è se il mio sconforto fosse davvero la conseguenza, e non piuttosto la causa che mi portava a osservare quanto fossero falsi i verdetti dei miei sensi. La psicologia dice che lo sconforto derivato dalla troppa consapevolezza è una deviazione. Ma non lo dice solo la psicologia: lo dice la sociologia, lo dicono le scienze politiche, lo dice il senso comune. Tutto dice che se avverto l’assoluta falsità della condizione umana, sono fuori dal consesso civile, ho deviato per la via inammissibile.
Per cancellare tutto ciò dalla mente di un solo individuo non bastano i miliardi e il tempo di cui dispone Bryan Johnson. La sua idea di felicità del resto è dolce fino al candore. La sperimento in parte ogni volta che mi alleno per correre una maratona. È una felicità data dalla distrazione dei pensieri, dalla concentrazione, dall’attenzione che pongo sui meccanismi corporei, respirazione, gesto, appoggio del piede, strategie di decontrazione muscolare, gli stessi principi applicati nella pratica della meditazione. Insomma, una fatica bestiale. Che per giunta ha effetti brevissimi. Perché quello che forse Bryan non ha capito, e con lui quella parte di umanità che ha deciso di delegare sempre più decisioni e azioni, è che pensare a niente è cento volte più sfiancante che pensare a tutto.