ARTICOLO n. 71 / 2024

PARANOIDI-PARANOICI

l’America, Trump e il destino del mondo

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo saggio di Alessandro Carrera, I vecchi, i giovani e gli strani. Biden, Harris, Trump e il destino del mondo (Sossella editore) in libreria dal 9 ottobre. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

All’inizio di novembre del 1987, all’inizio del mio primo incarico negli Stati Uniti, senza sapere ancora molto di ciò che mi aspettava, venni catapultato in una giornata di studi in onore di Roberto Rossellini alla Rice University di Houston. 

Tra il 1970 e il 1974 Rossellini aveva fatto il pendolare tra Roma, Parigi e Houston per conto di John e Dominique de Menil, grandi mecenati d’arte, che alla Rice University avevano creato un centro studi di cinema e media. Rossellini però, anche se chiamato per conto del Media Center, era più interessato a parlare con gli scienziati dell’università, con i quali sperava di realizzare una serie di documentari televisivi che avessero come tema la scienza, coloro che la fanno e come la fanno. 

Conversò a lungo con biologi, astronomi, fisici, fisiologi, storici e meteorologi, filmò ore di conversazioni, visitò la NASA e l’osservatorio Arecibo di Puerto Rico, ma non ebbe mai la soddisfazione di essere preso sul serio. Non erano i tempi in cui uno scienziato provasse piacere a discutere con un umanista, se mai quei tempi sono arrivati.

Una sessione di quella giornata di studi del 1987 era appunto dedicata agli scienziati e al ricordo dei loro lunghi pranzi con Rossellini, che a quanto pare ordinava sempre due dessert. Raccontavano quell’esperienza, per loro trascurabile, con divertito fastidio. Non avevano mai capito che cosa avesse in mente quello strano signore italiano che chissà perché voleva farli “comunicare” con chi scienziato non era.

Di quella serie di documentari mai realizzati non sapevano cosa dire e non mancavano di far capire che l’intera faccenda, per quanto li riguardava, era stata una distrazione inutile. Li trovai tanto irritanti quanto ammirevoli, con quella loro spocchia scientifica stampata in faccia. Per me c’era qualcosa da imparare, visto che avrei potuto avere a che fare con qualcuno come loro anche nei corridoi della mia università, la University of Houston. 

Tra gli italiani presenti c’erano giornalisti, critici cinematografici, probabilmente funzionari della Rai o di Cinecittà. Quando gli scienziati ebbero finito di prendere in giro quel simpatico scocciatore che aveva fatto perder loro tutto quel tempo, si alzò un italiano piccolino e nervoso. Con una voce che squittiva, cantilenante e fastidiosa come ne ho sentite poche, rinfacciò a quei meschini scientisti la grandezza di Rossellini, il suo genio universale, continuazione dell’immensa tradizione culturale italiana che da Dante portava al Rinascimento e culminava nella Nazione che il neorealismo di Rossellini aveva fatto conoscere al mondo.

Niente da obiettare, se non che quella voce da topo cacciato in un angolo, quel singhiozzo che usciva a stento dalla gola, quel gesticolare ispirato con il quale il poveretto accompagnava le sua retorica da professore di ginnasio, spuntata in partenza dal freddo stupore che gli arrivava in risposta dagli imponenti scienziati americani, mi fecero capire in un momento che cosa avevo lasciato in Italia e che di sicuro non volevo più ritrovare: quell’isteria, quel vittimismo, quel continuo invocare un grande passato che è la sigla di coloro il cui momento è passato.

Sono partito da un paese di isterici, pensai. E mai e poi mai, finché rimango qui, dovrò farmi sfuggire un comportamento simile a quello che ho appena visto. Era il caso, piuttosto, di cominciare a capire che cosa avrei trovato lì dove ero arrivato. E non ci misi molto a capire che avevo lasciato una terra di isterici per entrare in una nazione nella quale il termometro, una volta per le armi, un’altra per il sesso, un’altra ancora per la religione o la politica, segnava sempre qualche linea di febbre paranoide.

Che una certa inclinazione paranoide sia un tratto ricorrente del carattere americano l’hanno argomentato in molti, americani loro stessi, e molto meglio di quanto potrei fare io. Non potevo immaginare, allora, che più di trent’anni dopo mi sarei trovato in un paese che, oltre alle ben note tensioni paranoidi, presentava anche tratti fortemente isterici.

Ciò che colpisce nel rileggere oggi il celebre saggio di Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana (edizione del 1965, tr. di Francesco Pacifico, Adelphi 2021) è che se confrontiamo gli scritti citati dall’autore, tratti dalla pubblicistica del Settecento e dell’Ottocento, come dai discorsi di politici del Novecento, constatiamo che dal 2008 a oggi c’è stato un rovesciamento di prospettive. Chi sosteneva che gli Stati Uniti fossero vittima di una congiura mondiale guidata di volta in volta dagli Illuminati di Baviera, massoni, gesuiti, papisti, mormoni, socialisti, anarchici, ebrei e comunisti, proclamava che il suo fine era la salvezza dello Stato o, per citare Benjamin Franklin, «una repubblica, se la sai difendere» (“a Republic, if you can keep it”), l’ordinamento politico nato dalla Dichiarazione d’Indipendenza.

Ma negli ultimi sedici anni, segnati dalla pessima conduzione della seconda guerra in Iraq, la crisi finanziaria del 2008, l’elezione alla presidenza di Barack Obama accolta con sincero terrore dall’America conservatrice,nonché la nascita del Tea Party (la frangia repubblicano-populista poi confluita nel culto di Donald Trump), lo stile paranoide è stato adottato proprio da chi afferma di voler smantellare lo stato, in modo molto, molto più radicale di come l’aveva promesso Ronald Reagan. 

L’ideologia isterica, la “domanda impossibile” che sottende a questa nuova furia mescola il risentimento del povero con l’adorazione verso il ricco, l’odio verso le classi povere (consustanziale alla piccola borghesia) con il libertarismo assoluto dei grandi tecnocrati, sovrani assoluti delle reti informatiche e delle criptovalute, e per i quali la democrazia è solo un inciampo verso il dominio del Sistema Solare. 

Lo “stile paranoide nella politica” è oggi l’essenza paranoica dell’antipolitica. Non arrivo a dire che chi pronuncia discorsi paranoici sia egli stesso paranoico, non fornisco diagnosi e non uso questi termini nel loro uso clinico. In ogni discorso teso ad aizzare la componente isterico-paranoide del proprio elettorato giace una buona dose di opportunismo, ma qualche volta mi viene davvero il sospetto che il confine tra lo stile paranoide e una qualche condizione paranoica clinicamente accertabile sia stato passato. 

Oggi, i paranoidi-paranoici per i quali il discorso isterico-complottista è la forma normale di comunicazione (“Tu mi nascondi qualcosa, e io non so cos’è, ma non te lo dico!”) non vogliono salvare l’America dai nemici che ha veramente. Anzi, ne sono innamorati persi, il che vale per la destra quanto per certe frange della sinistra. La destra non vede l’ora che la democrazia sparisca per inaugurare finalmente un’inedita dittatura American Style, impossibilmente cristiano-fondamentalista, nativista-razzista, e allo stesso tempo basata sull’assoluta libertà d’impresa – una miscela assurda, che entrerebbe in contraddizione nel momento stesso del suo trionfo. 

Si credono conservatori, ma non intendono conservare nulla. La loro politica rigetta tutto quello che l’America è stata: nel male, forse, ma anche nel bene. Dal canto suo, la sinistra identitaria, pacifista e bellicosa insieme, esalta la minoranza du jour come unica portatrice dell’umano, cade in deliquio per il diverso puro e incorrotto (non il diverso come davvero diverso) e indossa la stola dell’inquisitore supremo della cultura occidentale, giudicata l’unica nella storia del mondo a essersi macchiata di crimini imperdonabili.

Ma l’ideologia identitaria, giustizialista o cosiddetta woke non possiede una briciola del potere che ha la destra. La vera questione è la natura di quella rabbia che continuiamo a chiamare destra per non chiamarla anarco-fascismo. Perché il fascismo tradizionale adorava lo Stato, mentre da questo anarco-fascismo emerge una pura volontà di distruzione, un this is the end da disperazione tardoesistenzialista, il nichilismo terminale di chi ha concluso che il progetto americano è fallito e che si può solo por fine alle sue sofferenze. Il 26 luglio 2024, intervenendo a un evento di Christian conservatives in Florida, Trump ha detto che, se verrà eletto, per quattro anni gli americani non dovranno preoccuparsi di votare.

Significa annullare le elezioni di medio termine, il che magari sottintende che sarebbe meglio se non dovessero votare mai più. Non accadrà, la macchina elettorale è un business enorme per chi vince come per chi perde (a volte il capitalismo è una garanzia), ma nessuna obiezione si è levata, né dal Partito Repubblicano né dal popolo MAGA (“Make America Great Again”, “Fa’ l’America di nuovo grande”, lo slogan di Trump). Nessuno ha gridato al complotto contro l’America, come invece sarebbe accaduto in qualunque altra occasione.

Il complotto sono loro. Non intendono solo impadronirsi dello stato, il loro progetto è di eliminarlo. Nancy Pelosi, “Grande Anziana” del Partito Democratico (è lei, più di ogni altro, ad aver convinto Biden a ritirarsi), in una conversazione con Ezra Klein riportata dal “New York Times” il 18 agosto 2024, ha detto: «È molto difficile trovare un punto d’intesa con persone che non hanno né principi né un progetto. È difficile negoziare con qualcuno che non vuole niente». Molti hanno cercato la causa di questo rovesciamento di valori, ma forse nessuno ci è andato più vicino di Marilynne Robinson, una delle vere coscienze cristiane dell’America.

In un saggio pubblicato sulla “New York Review of Books” del 18 luglio 2024, intitolato Agreeing to Our Harm, che si potrebbe anche tradurre: “Continuiamo così, facciamoci del male”, Marylinne Robinson si chiede da dove emerge questo patriottismo da messa nera. La sua risposta, sorprendente e profonda, è che bisogna guardare allo squilibrio con il quale sono stati distribuiti tra la popolazione i pesi delle guerre che l’America ha sostenuto, dalla Corea fino a oggi.

Più che riassumere le tesi di Marylinne Robinson, le userò come una scala sulla quale salire, aggiungendoci del mio, ma la richiamerò quando ce ne sarà bisogno. Il fenomeno Trump, così si dice, riflette lo stato d’animo della popolazione che si è sentita abbandonata dalla furibonda corsa in avanti della globalizzazione e del capitalismo estremo. Ma dal movimento sorto intorno a Trump non è uscita nessuna proposta che potrebbe attenuare la disuguaglianza economica, né è stata espressa la minima simpatia nei confronti degli investimenti pubblici che l’amministrazione Biden ha messo in opera e che hanno fatto di Biden il presidente più “sociale” (non dirò socialista) che l’America abbia avuto dai tempi di F.D. Roosevelt. 

Se davvero questa popolazione si sente lasciata indietro, si chiede Robinson, perché sembra preoccuparsi soltanto di coloro che offendono il suo amato capo? Il movimento MAGA, che Trump ha creato senza neanche pianificarlo e che di fatto ha sostituito il Partito Repubblicano, non ha una visione politica, e nemmeno l’avrà finché Trump ne terrà le redini. 

Come è accaduto ad altri movimenti populisti, dal poujadismo francese al grillismo italiano, quando il fondatore si fa da parte agli altri resta solo da rimboccarsi le maniche ed entrare nel gioco. Ma una seconda presidenza Trump (che al momento appare meno sicura di quanto non lo fosse mesi fa) potrebbe portare alla fine dei giochi, o perlomeno a un periodo di caos che si rifletterebbe sul mondo intero.

Al movimento MAGA questo non interessa affatto. I suoi membri sono preda di un’identificazione dionisiaca con le sofferenze del loro dio, un satiro anziano e sovrappeso che sale sul palco a recitare la litania dei suoi dolori con il coro MAGA che gli fa eco, dimenticandosi catarticamente dei propri. È così che è nata la tragedia greca, ed è così che potrebbe finire la tragedia americana.

ARTICOLO n. 93 / 2024