ARTICOLO n. 77 / 2023

ORAZIO PIGATO, CIELO BIANCO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Pranzo in trattoria. Alle pareti un gabbiano un po’ storto, il ritratto di una ragazza con la blusa di Minni, un piatto da portata carico di pennellate azzurre. Attendo una prescrizione nella sala d’attesa del medico: la veduta di un laghetto, un putto brunito dal tempo. Per tornare a casa attraverso il mercato delle pulci: una flotta di navi a righe, una pioggia di virgole s’abbatte su un alberello. 

Quanti quadri incontro ogni giorno, tantissimi. Occhieggiano nei luoghi della quotidianità, testimonianze di un sentire che qualcuno, forse non un artista, ha formalizzato in un qualche giorno di un qualche anno. Esposti alla disattenzione; più immediati e dunque indifesi di un documento scritto o di una traccia audio o video. Oggetti bizzarri i quadri, domestici e dispersi.

Guardare in contesti occasionali tanti quadri brutti o banali o decorativi o dilettanteschi è importante. Quando l’occhio è maleducato ma il display è buono e l’ambiente arioso, lo spazio bianco di una galleria è in grado di nobilitare anche una tela dipinta al grest. Al contrario, per intuire la reale forza di un dipinto è utile, come in un rendering mentale, sottrarlo al bianco e riposizionarlo tra le ‘cose’; sul marciapiede di un mercato, per esempio, tra rubinetterie di ricambio e posacenere, oppure localizzarlo in quelle abitazioni da professionisti all’italiana in cui volenti o nolenti ogni tanto si accede. Eccolo, il quadro, cinto da una robusta cornice bianca, tra tappeti in polipropilene, fermacarte Swarovski e fotografie di bambini sdentati.

In contesti di questo tipo ho incontrato i dipinti degli autori veneti di cui scrivo in questa trilogia di articoli: Orazio Pigato, Antonio Fasan (1902-1985), Renzo Biasion (1914-1996). Sono convinta che se non avessi prestato attenzione nel corso della mia vita a moltitudini di dipinti qualunque – banali, ingenui, pacchiani, scartati, rovinati, tradizionali, irrilevanti – non avrei mai colto la diversa timidezza dei quadri di Orazio Pigato, l’avrei persa nella modestia di altri paesaggi disseminati nel formicaio di negozi antiquari e mercati della provincia italiana, che salvano il salvabile, spesso democraticamente. Per questo The Italian Review, rivista priva di immagini, è il luogo giusto in cui scriverne – non tutta la buona pittura salta all’occhio, alla buona pittura ci si può anche ‘addomesticare’, termine che scelgo per sottolineare una difficile dimensione di mitezza e pazienza dello sguardo dello spettatore.

Tra centinaia di vedute della campagna veronese, impressionismi alberghieri inghirlandati di amarene Fabbri o bruni uvettosi da casa canonica, ma anche tra tanti quadri benfatti, perché un orto, un casolare, una veduta di Cavaion sono diversi, sono opere d’arte, se dipinti da Orazio Pigato?

Mi sono imbattuta nella storia di Pigato in un periodo in cui collezionavo scritti di Renzo Biasion. In un volumetto del 1971 pubblicato dalla Galleria Ghelfi di Verona e intitolato Liricità di Orazio Pigato, Biasion – protagonista dell’ultimo articolo di questa trilogia – scrive poche righe in cui condensa il senso di mantenere un’identità regionale all’interno di prospettiva e cultura internazionali: «Si sa, i veneti sono portati al colore. Una linea del colore veneto potrebbe partire dai primitivi e fermarsi a Guglielmo Ciardi? A mio parere non esiste soluzione di continuità tra un Guglielmo Ciardi e un Pigato. La linea del colore veneto prosegue e si rinnova con tutti i moderni paesisti, da Semeghini e Gino Rossi ai trevigiani e ai veronesi. Tutti hanno guardato i francesi ma sono rimasti veneti, in loro è rimasto l’antico sangue».

Orazio Pigato nasce a Reggio Calabria nel 1896, trascorre sin dall’infanzia la vita a Verona dove muore nel 1966. Inizia a esporre nel 1918 al Museo Civico di Verona; nel 1921 è in una rassegna regionale d’arte di Treviso; nel 1922 è ammesso per giuria alla Biennale; del 1923 la prima partecipazione a Ca’ Pesaro, e poi ancora, nel ‘24 e ’25, Biennale e Ca’ Pesaro. Anche Umberto Boccioni era nato a Reggio Calabria e morto a Chievo, Verona, a 33 anni, nel 1916. I primi critici insistono sull’ombra lunga dell’ardito Umberto, mentre altri asseriscono che i dipinti giovanili di Pigato, perduti, fossero debitori a un certo post-impressionismo veicolato da Gino Rossi ma visto anche su tele francesi. Guido Perocco, in Pittori di terra veneta (1969), lega Pigato alla lezione di Corot in maniera più convincente. Biasion e Perocco sono coerenti sul posizionamento di Pigato. Costui presenta – scrive Perocco – una “impronta lirico-patetica, “tipicamente veneta” e “stati d’animo di soffuso lirismo […] entro una visione che denuncia un profondo equilibrio e serenità interiore”. Anche Biasion, in chiusura al suo scritto, insiste su come la moralità di Pigato sia in sé artefice dell’opera: «Per esempio, chi ha mai parlato della “classicità” delle composizioni di Pigato? [..] Le mostre attuali serviranno a farlo a conoscere meglio e a dargli il posto che gli spetta nella pittura italiana dal ‘20 al ‘60? È sperabile. E i giovani saranno disposti a capire il lato pittorico e il lato umano dell’opera sua? Un alto ordine morale l’ha regolata ed è da augurarsi possa servire da esempio». 

I giovani, le generazioni nate successivamente al miracolo economico, non sono stati poi così disposti. La sfida era quella di leggere una morale, un’architettura del sentire, attraverso le impalcature del disegno oppure del colore. Come reperire la moralità di una sfumatura di rosa, garrula o corrucciata che sia? Esiste un’amoralità nella saturazione di un verde? Può un grigio differire dall’altro e divenire immorale? Eccome, suggeriscono questi critici veneti gustosamente ingialliti. Un grigio può essere sgargiante, secco, monumentale, umile, estivo, invernale, danaroso, muffoso, stupido, dottorale, frivolo, sepolcrale. Per questo un d’après può essere la nemesi del quadro originario. Pigato domava la sua tavolozza, allevava rosa, grigio, verde e bianco come galline. Ne conosceva l’età, il mangime, usi, bizze e costumi, il sapore delle loro uova. 

Lo spettatore di pittura contemporanea spesso ambisce a incontrare un’opera che gli proponga un’epifania visiva: costui entra in uno stanzone e aspetta che l’opera lo “colpisca”, quasi che il moto dell’attenzione si direzioni dall’opera al fruitore e non viceversa. L’inanimato, a guisa di sanguinosa sirena, richiama col canto l’animato e lo ghermisce. Invertendo il processo si restituirebbe la carica attiva allo spettatore e quella passiva all’opera, e si tornerebbe a comprendere il valore del termine utilizzato da Biasion, disposizione: i giovani “saranno disposti”? Leggere un quadro, leggerlo nell’intimo fino ad arrivare ai valori del suo autore, è una gran fatica, irta di tranelli, giusta. Dinanzi a un quadro, sia esso esposto al poliambulatorio o in galleria, è chiesto di scegliere: leggere l’opera o (pensare di) essere letti da essa? 

Morale: parola bellissima e laica di cui oggi spesso s’impadroniscono eruditi manigoldi conservatori. Dov’è la morale di un pittore?  Utilizzo un appiglio che niente ci azzecca, ma che torna utile all’interno di una fruizione “comunicata” o “popolarizzata” dell’arte come quella attuale: il primo capitolo dell’ultimo libro di Martin Amis, La storia da dentro, si intitola “Etica e morale”. Personaggio tra i personaggi, Saul Bellow racconta una storiella riguardante una chiesa della Rinascita in West Virginia e un predicatore puritano indagato per truffa che frequenta un sex club attingendo dalle elemosine. Bellow spiega che in America i due peccati sono stati percepiti in maniera diversa: «La morale riguarda il sesso, l’etica il denaro» – andare al sex club è immorale, pagarlo con i soldi delle elemosine è non etico. Applico questa differenziazione pop tra etica e morale alla pittura visibile oggigiorno: parte della figurazione contemporanea, con i suoi apparati narrativi travolgenti onirici o realistici volti allo stupore, all’enfasi e alla malia, è spesso etica immorale; le immagini che essa contiene non ledono alcuno, ma cercano di infastidire o meravigliare gli spettatori irritabili o in cerca di straniamento. Proprio perché si è ormai predisposti a immagini etiche e immorali, entrare nella morale del nostro paesaggista veneto è laborioso. Pigato è morale e la morale di Pigato è la serenità, consustanziale alla breve stanchezza che precede la sera, alla mitezza, ai cieli mai azzurri e sempre lattiginosi, pesanti di umidità e polveri, poggiati sui tetti delle case, privi di raggi, stesi.

ARTICOLO n. 93 / 2024