ARTICOLO n. 7 / 2022

OLTRE LE SBARRE

per me si va tra la perduta gente.
DANTE, Inferno, Canto III

È cominciato tutto da una dimenticanza.

Ero in partenza per un viaggio. In aeroporto mi accorgo di aver lasciato a casa il libro da leggere nella lunga trasferta, così, superato il check-in, mi infilo nell’edicola/libreria del terminal in cerca di una sostituzione. Passando in rassegna riviste e best seller, inciampo su un volume, fatto cadere inavvertitamente da qualcuno. Sulla copertina, l’immagine di una mano che simula il profilo di una pistola, con il pollice sollevato e l’indice e il medio puntati in avanti. Il titolo: A mano armata. Sottotitolo: Vita violenta di Giusva Fioravanti

Dò un’occhiata alla quarta di copertina: «Noi siamo sopravvissuti per caso, le pallottole ci hanno risparmiato. Volevamo dimostrare che il mondo non appartiene solo ai grandi, che non ci può essere qualcuno che decide sempre per te. Abbiamo fatto un macello per questo. E alla fine, sia gli amici sia le vittime sono morti inutilmente…». 

Decido che quel libro partirà insieme a me.

Della vita violenta di Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, conoscevo ciò che riferiva la cronaca all’epoca dei fatti che avevano insanguinato il nostro paese per oltre un decennio. Un periodo storico che avevo vissuto, adolescente, con un sentimento ambivalente di paura ed eccitazione, attrazione e repulsione. Ero troppo giovane per afferrare il significato delle varie sigle e acronimi che rivendicavano, a turno, le azioni politiche, gli attentati, le rapine, gli atti dimostrativi. Cosa volessero dimostrare, appunto, mi sfuggiva, ma una cosa è certa: la mia giovinezza romana sarebbe stata segnata dalla febbre di quegli anni, poiché nulla di così incredibile era mai accaduto prima. 

Fioravanti apparteneva all’oscura galassia del terrorismo nero, del quale poco si parlava e meno ancora si capiva: ma probabilmente il suo nome, nella mia memoria, si sarebbe confuso insieme a quello di tanti altri, se il suo volto di bambino, di bravo bambino, non fosse apparso, per contrasto, accanto alle foto segnaletiche del giovane 

uomo cattivo che era diventato. Il piccolo Giusva, protagonista de La Famiglia Benvenuti, popolare sceneggiato televisivo degli anni ’60, divenuto un criminale di spicco della destra eversiva, suscitava l’interesse della stampa che aveva trovato il soggetto ideale per opinioni e considerazioni di ogni genere.

Col tempo, e con la distanza necessaria per una riflessione, ho cominciato ad approfondire la conoscenza di quel periodo ormai tramontato, volevo capire cosa avesse spinto dei giovani verso una deriva così spietata e autolesionista. Quel libro caduto ai miei piedi è stato per me l’inizio di un lungo percorso.

Rientrata a Roma, avevo un solo obiettivo: acquistare i diritti di A mano armata e scriverne una sceneggiatura. La storia raccontata da Giovanni Bianconi conteneva un’infinità di elementi drammaturgici interessanti: l’infanzia borghese, il successo nel cinema, l’insofferenza verso l’autorità, gli studi in America, il senso di protezione nei confronti del fratello minore (preludio di un viaggio senza ritorno), la storia d’amore con Francesca Mambro, la morte degli amici, la morte dei nemici, la latitanza, l’arresto, il carcere. Il personaggio Giusva Fioravanti, anomalo rispetto ai terroristi della sua frangia politica e così diverso per generazione ed educazione dei combattenti di sinistra, poteva essere raccontato in un film, malgrado le inevitabili difficoltà e i rischi legati alla rappresentazione di vicende reali così dolorose. Questo credevo, e questo hanno creduto anche Giovanni Bianconi e Sandro Veronesi con i quali scrivemmo la sceneggiatura, e Marco Risi, mio marito, che avrebbe diretto il film.

La stesura della sceneggiatura è stata lunga e sofferta. Avevamo a che fare con un materiale incandescente, si trattava di risollevare il velo su fatti e misfatti che bruciavano e bruciano tuttora, sentivamo il peso e la responsabilità di raccontare eventi realmente accaduti cercando di aggirare le infinite trappole seminate dal confronto, talvolta impari, fra l’onestà intellettuale e le esigenze artistiche. Avevo raccolto una quantità enorme di materiali: fotografie, articoli di giornali, testimonianze dei familiari delle vittime, sopralluoghi nei quartieri in cui si erano svolti i fatti, processi ancora in corso… Ero stata travolta dalle ricerche, e più andavo avanti più volevo andare a fondo senza accorgermi che stavo girando a vuoto. I miei compagni di lavoro se ne resero conto molto prima di me: il film su cui ci stavamo lambiccando da mesi non si sarebbe mai fatto. I produttori traccheggiavano, e non per una questione di soldi. «I tempi non sono ancora maturi» è la frase che ho sentito ripetere più volte, e forse era davvero troppo presto: il processo per la strage di Bologna, avvenuta quindici anni prima, era ancora in corso, e da quella tragedia, per la quale non era ancora stata emessa una sentenza definitiva, il nostro racconto non poteva prescindere. E dunque, come spesso accade a chi lavora nel cinema, la sceneggiatura fu messa in un cassetto, con l’amara consapevolezza che lì sarebbe rimasta. Con saggezza i miei compagni passarono ad altri progetti, e lo stesso feci anch’io. Partii per la Turchia per le riprese di un film a me molto caro, Il Bagno turco, opera prima di Ferzan Ozpetek, ma nonostante il coinvolgimento e l’entusiasmo, non riuscivo a non pensare all’altro film, a quello che non si sarebbe fatto (infelice chi non gode di ciò che possiede e rimpiange quel che non ha…). Il tarlo scavava nella mia mente, e così, un giorno, decisi di scrivere una lettera. 

Destinatario: Giuseppe Valerio Fioravanti. 

Indirizzo: Via Raffaele Majetti 70, Carcere Circondariale di Rebibbia. 

«Mi chiamo Francesca d’Aloja, sono un’attrice. Ho passato un anno a documentarmi sulla tua vita. So molte cose di te, e tu non sai niente di me. Mi sembrava giusto dirti chi sono e informarti che il progetto del film tratto dal libro di Giovanni Bianconi A mano armata si è arenato. Il film non si farà…»

Aggiunsi alcune note biografiche, raccontai qualche dettaglio sulla sceneggiatura (esitai a lungo sul confidenziale «tu», ma l’azzardo di scrivergli una lettera era talmente sfacciato che usare il «lei» mi sembrò ipocrita), e spedii la lettera, dando per scontato che mai avrei ricevuto risposta, ma a me bastava. Era il punto finale che andavo cercando.

Fu solo l’inizio.

Arrivò la risposta pochi giorni dopo:

«So benissimo chi sei. Ricordo di averti vista passare, vestita di nero, in un’aula bunker durante uno dei miei tanti processi. Hai i capelli lunghi. Sei alta e magra. Mi conforta sapere che il film non si farà, e se ne hai voglia posso spiegarti perché. Sai dove trovarmi, basta chiedere un permesso…»

La lettera era molto più lunga, ma queste sono le frasi che ho letto e riletto più volte. Sai dove trovarmi… Basta chiedere un permesso…

Prima di allora immaginavo fosse difficile entrare in un carcere. Perché mai – mi chiedevo – dovrebbero concedermi il permesso di incontrare un pluriergastolano senza avere nessuna parentela o titolo professionale che ne giustifichi la richiesta? Oggi risponderei che quando circostanze apparentemente difficili si rivelano praticabili, o viceversa, quando ciò che appare semplice diventa insormontabile, il significato è uno solo: è il momento giusto, oppure non lo è. Quel luogo ostile e lontano da tutto ciò che aveva fatto parte della mia vita, mi stava aspettando. E quello strano appuntamento non era altro che il mezzo per entrarci.

Fui accolta dal direttore del carcere, Maurizio Barbera. Gentile, disponibile, loquace, non corrispondeva a nessun immaginario cinematografico (è naturale e quasi inevitabile l’associazione mondo carcerario/cinema, l’unica a nostra disposizione, almeno fino a quando i cancelli blindati non si aprono davvero, come accadde a me quel giorno). Mi scortò per un lungo percorso fatto di corridoi rivestiti di linoleum, cancelli aperti e subito richiusi, saluti frettolosi con il personale e descrizioni minuziose dei luoghi che via via attraversavamo: la biblioteca, la palestra, le cucine, l’area verde…  Ero curiosa, sfacciata. Approfittavo della disponibilità del direttore incalzandolo di domande alle quali rispondeva senza indugi, forse anche lui grato dell’occasione. All’epoca non erano frequenti visite non ufficiali, se non per scontare una pena, in carcere ci si va per svolgere un lavoro, ottemperare un impegno, altrimenti lo si evita. 

Senza arte né parte, mi aggiravo nei meandri della prigione ringraziando la sorte (e la mia sfrontatezza) per l’opportunità che mi veniva concessa. Ricordo ancora oggi lo stato d’animo che accompagnava i miei passi: mi sentivo a mio agio, incredibilmente a mio agio. 

Entrammo in una piccola stanza arredata con un tavolino in formica e due seggiole: «Può attendere qui, Fioravanti la raggiungerà al più presto.»

E il direttore se ne andò.

La prima cosa che mi colpì fu il suo abbigliamento. Camicia pulita e pantaloni di buona fattura. Niente a che vedere con quella che mi era sembrata la divisa di ordinanza di quasi tutti i detenuti intravisti durante quell’oretta di visita: tuta acrilica o felpe fuorimisura. E un nuovo cliché prodotto dal mio immaginario veniva smentito dalla realtà: nella mia mente un ergastolano, con diciassette anni di detenzione alle spalle, si sarebbe dovuto presentare con la barba lunga e i vestiti casuali di chi ha da tempo abbandonato l’idea del decoro mondano. E invece era vestito come ci si veste fuori. La faccia era la stessa del ragazzino di tanti anni prima, forse per via di quei lineamenti affilati, zigomi alti, mascelle pronunciate, naso sottile, che il tempo non aveva intaccato. Ci stringemmo la mano, mi rivolse un sorriso, ricambiai.

Mi sentivo a disagio?

Meno di quanto avrei immaginato. E questo mi mise a disagio.

Parlammo a lungo. Di tantissime cose. Roma, la nostra città, era il centro della conversazione, e ancora mi stupii della sua totale mancanza di toni nostalgici nell’evocare luoghi conosciuti: piazze, strade, cinema, negozi o gelaterie. La sensazione che avevo provato durante i lunghi mesi di immersione nelle vicende che lo riguardavano, e che un’intima censura desiderava fosse smentita, fu invece avvalorata: quel giovane uomo, che citava titoli di film che avevo amato, gruppi musicali che avevano segnato la mia adolescenza, autori per me fondamentali (Camus su tutti), fino a un certo punto della sua esistenza sarebbe potuto diventare mio amico. Quel certo punto, il punto di non ritorno, quello che avrebbe interrotto definitivamente la nostra possibile amicizia, rappresentava il cardine del mio interesse. La domanda sul perché una persona, cresciuta in contesti simili ai miei (educazione borghese, buone scuole, addirittura la stessa piscina del Foro Italico, come allievi, in anni diversi, del corso di tuffi condotto da Klaus Di Biasi…), in apparenza nessun motivo valido di ribellione, decida improvvisamente di distruggere ogni cosa, arrivando al punto di uccidere e farsi uccidere, era per me centrale. La politica non c’entrava nulla, a me interessava altro. 

Rincasai frastornata, ma nella confusione dei pensieri si insinuava il desiderio, sempre più urgente, di tornare. Il carcere era un luogo che volevo, dovevo, conoscere. Ancora non sapevo quanto sarebbe stato importante farlo.

Giorni dopo ricevetti una lettera di Fioravanti. Calligrafia rotonda, femminile. Si diceva contento di avermi incontrata. Nelle poche frasi si percepiva, tuttavia, un sottile stupore riguardo alla mia curiosità di conoscere il luogo in cui era costretto a vivere.

(Lo stesso stupore mi par di cogliere in alcuni di voi… Non riguarda il luogo, ma la persona che in quel luogo viveva. Vi starete chiedendo, non dite di no, quali oscure manovre della mia mente mi abbiano condotto verso «quella» persona e perché mai il giudizio, il sacrosanto giudizio, non abbia prevalso. Vi rispondo che è forse l’aver sospeso tale giudizio ad avermi aperto le porte del carcere. È la regola fondamentale seguita da chiunque voglia varcare quei cancelli con la fedina penale pulita. Insufficiente come risposta? Può darsi. E in questo caso, il giudizio lo lascio a voi che leggete.)

A quella lettera fece seguito una lunga, fitta corrispondenza. Dai molti argomenti affrontati emergeva una personalità poliedrica, molto distante dal profilo medio dei simpatizzanti di destra che proliferavano nel mio quartiere (i Parioli), verso i quali nutrivo un’avversione furiosa. Mi chiedevo se tale distanza fosse stata generata dalla lunga detenzione, se la capacità di analisi e riflessione, così evidente nei suoi scritti, e praticamente assente nella stragrande maggioranza dei «fasci» che avevo incrociato, fosse il frutto di una crescita esistenziale maturata fra le quattro mura di una cella. Tuttavia, dalla storia della sua vita, così ben raccontata da Giovanni Bianconi, affiorava un carattere solitario e introspettivo che avrebbe lasciato presagire un futuro ben diverso. L’intelligenza mal riposta è stato il primo dei delitti di Valerio Fioravanti. Glielo feci notare, anni dopo, in nome di quel «perché?» che continuava a pungolarmi. «Sono tante le risposte – mi disse – potrei imputare le mie scelte alla città in cui vivevo, al momento storico, alla scuola che frequentavo, a mio padre, mio fratello, agli amici che mi ero scelto, ma sarei disonesto se non considerassi una personale vocazione al male, farina esclusiva del mio sacco.»

Quando manifestai il mio desiderio di conoscere il carcere, lui commentò con un sarcastico «Allora sei più stramba di me». Non ricordo se ritenni necessario fornirgli le mie motivazioni, forse perché allora non mi erano così chiare come lo sono adesso, con tanti anni di distanza. Da ragazza insoddisfatta degli ambienti nei quali ero cresciuta, avevo bisogno di sconfinare in territori sconosciuti. Distanti da me. Un carcere maschile era quanto di più lontano potessi immaginare. (Ma forse, e lo dico col beneficio del dubbio, ciò che aveva spinto i miei passi all’interno di quel luogo era l’impareggiabile opportunità di fiancheggiare il male stando dalla parte del bene, di respirarne lo zolfo ben protetta dal mio statuto di persona onesta. E poi, onesta? Chi può davvero ritenersi tale fino in fondo? Mettermi alla prova significava concedermi la possibilità di scardinare le mie certezze, dubitare delle mie convinzioni. Sono stata ingenua, lo confesso, e anche alquanto presuntuosa. Credere di sconfinare mettendosi accanto a persone che avevano sconfinato sul serio era una forma di presunzione. Ero giovane allora, ma non così giovane…)

Ottenere il permesso per un incontro occasionale si rivelò relativamente semplice, ma come avrei fatto a garantirmi un accesso regolare? Mi fu d’aiuto Pablo Echaurren, che conoscevo solo come autore della famosa copertina di Porci con le ali. Pablo aveva creato dei laboratori di pittura all’interno del carcere, e grazie a lui ottenni un colloquio con l’allora responsabile del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Michele Coiro, persona preziosa senza la quale non avrei potuto ottenere nulla. Gli chiesi un permesso temporaneo con il patto che se entro tre mesi non avessi portato un progetto concreto sarebbe stato revocato. Si fidò di me, non so perché.

(Parentesi fondamentale: nell’attesa di ricevere il lasciapassare, le maglie del destino imbastivano una nuova trama. Sandro, Sandro Veronesi, l’amico che più di altri avrebbe avuto a che fare con le incognite della mia vita, mi disse che avrei dovuto conoscere Edoardo Albinati: «Insegna in carcere da alcuni anni, potrebbe esserti d’aiuto». E fu così che a una cena organizzata dal mio migliore amico per agevolare la mia nuova avventura, incontrai l’uomo cardine del mio futuro. Non lo sapevo ancora, nessuno di noi lo sapeva. Eravamo felicemente partecipi di altre vite.)

Trascorsi alcuni giorni, mi ritrovai fra le mani il tesserino plastificato «Art.17», che mi consentiva di muovermi nella quasi totale libertà all’interno dei reparti. E così cominciò il mio viaggio.

Per diversi mesi sono entrata a Rebibbia ogni giorno, esclusi alcuni fine settimana. Ci arrivavo al mattino e me ne andavo al tramonto.

Cosa facevo?

Si può dire che trascorrevo il mio tempo parlando, ma soprattutto, ascoltando. 

Superata l’iniziale diffidenza nei miei confronti (che vuole questa qui…?), i detenuti mi raccontavano le loro storie, e via via che accumulavo aneddoti e confidenze si materializzava l’idea di raccoglierle in un film. 

Insieme a Pablo Echaurren e Valerio Fioravanti, la nostra guida all’interno di un luogo pieno di trappole e insidie che nella mia ingenuità talvolta non coglievo, abbiamo speso ore e ore a trascrivere o a registrare le voci dei reclusi. Ho imparato ben presto che dispensare saluti e sorrisi lì dentro aveva un altro significato, mostrare interesse nei confronti di qualcuno poteva generare invidie e gelosie, dimenticare, anche per un solo istante, la realtà del luogo in cui mi trovavo era imprudente. Non ho mai voluto sapere per quali reati erano stati incarcerati. È stata un’esperienza faticosa e difficile, eppure non dimenticherò mai la sensazione di appagamento che mi portavo a casa la sera e il desiderio di farvi ritorno l’indomani.

L’impegno preso con Michele Coiro venne onorato, allo scadere del terzo mese avevo un progetto: girare un film su e con i detenuti. Miei co-autori, Fioravanti ed Echaurren. Avremmo messo in scena la quotidianità, la routine ripetitiva e insensata di un gruppo di reclusi, selezionati durante quei mesi di colloqui. Titolo: Piccoli Ergastoli.

Riunii una piccola troupe di collaboratori e cominciarono le riprese. Si trattava della mia prima prova di regia, affrontata senza ponderare fino in fondo la difficoltà dell’impresa: una volta chiusi i cancelli alle mie spalle, non avrei potuto contare sull’aiuto di nessuno, non potevo telefonare né ricevere assistenza dall’esterno. Dovevamo cavarcela da soli, adattando le nostre esigenze alle ristrettezze del luogo. Inoltre, non consideravo il rischio di lavorare con persone il cui unico legame era basato sulla reciproca fiducia e la cui disponibilità poteva essere messa in discussione a ogni istante. Non erano professionisti che avevano stipulato un contratto, non percepivano un compenso (vietato dalla legge), non avevano dunque nessun obbligo. È capitato più di una volta che uno degli «attori» non se la sentisse di girare perché reduce da un turbolento colloquio con l’avvocato, o con la moglie, o che, nottetempo, fosse stato trasferito altrove. In quei casi dovevamo improvvisare una nuova situazione (rimpiangerò sempre di non aver potuto riprendere Drago, zingaro con una faccia impareggiabile, sempre vestito di nero, che mi accolse nella sua cella per raccontarmi la sua storia, e mentre parlava, le mani scivolavano languidamente sulle decine di fotografie di donne nude attaccate alle sue spalle…). L’indisponibilità di Drago offrì una nuova occasione al mio destino. Dovendo tamponare il buco, mi venne in mente che Edoardo Albinati stava svolgendo il suo lavoro di insegnante nel reparto accanto. Perché non riprendere una lezione? Bussammo alla porta della sua classe. Nello sguardo, l’ennesimo, eloquente: «che vuole questa?». Chiedemmo gentilmente il permesso di riprendere una tranche di lezione, e lui e i suoi studenti gentilmente acconsentirono…

Malgrado gli imprevisti e le difficoltà portammo a termine le riprese.

Il film, preceduto da critiche e commenti di ogni genere, fu presentato al Festival di Venezia. La conferenza stampa si rivelò come una delle prove più difficili. Il nome di Valerio Fioravanti, presente nei titoli, scatenò la reazione dei familiari delle vittime e non fu affatto semplice sostenere le ragioni di un lavoro nato come un esperimento che offriva ai carcerati la possibilità di raccontarsi, dunque di esistere. Non era mai accaduto prima. Ci fu d’aiuto il direttore del carcere, Barbera, insieme a noi a Venezia, ma il fatto che Fioravanti non apparisse nel film (il titolo stesso ne avrebbe escluso la presenza…) non fu sufficiente a placare gli animi. Inutile dire che di Piccoli Ergastoli si parlò più di quanto avrebbe meritato, si trattava in fondo di un piccolo film, realizzato con pochissimi mezzi. Un’opera prima sincera, sì, ma sgangherata e approssimativa che certo non ambiva a palcoscenici internazionali. Divenne un caso nostro malgrado, tanto che la Rai lo mandò in onda in contemporanea con una proiezione all’interno di Rebibbia cui fece seguito un dibattito al quale parteciparono detenuti, giornalisti e rappresentanti dello Stato. In diretta. Mi tremavano le gambe.

Spenti, come si dice, i riflettori, avrei potuto considerare conclusa la mia immersione carceraria. Non fu così. Decisi di continuare. Da sola, questa volta. Senza collaboratori, senza nessuno. Chiesi il rinnovo del permesso e restai, come volontaria, per altri due anni. Non osavo confessare ai reclusi che mi piaceva stare lì. È facile, se sai di poterne uscire, avrebbero commentato. 

Entrare in un luogo in cui tutto era diverso, gli equilibri e la sostanza, l’importanza di un oggetto, la sospensione del tempo, il significato delle parole, degli sguardi, di un raggio di sole, di una promessa non mantenuta, l’assurdità delle regole, il rumore costante, gli odori: tutto questo rendeva anche me prigioniera.

E poi volevo spingermi oltre. Tornare da sola era tutta un’altra faccenda. Pensavo di sapermi muovere dopo mesi di frequentazione. Era un luogo che conoscevo, l’avevo percorso in lungo e in largo tante volte… Di nuovo ingenua e presuntuosa. Ho fatto una montagna di errori, perlomeno all’inizio. Poi forse ho imparato. Ecco, se c’è una cosa che ho imparato frequentando un carcere è l’importanza, l’importanza fondamentale dell’equilibrio. Tutto è in bilico. Lo è fuori, sempre, figuriamoci dentro. Attenzione ai toni, agli sguardi, alle confidenze, ai passi falsi, alle false gentilezze, ai pregiudizi (presenti anche quando credi di esserne immune), all’illudersi di essere al sicuro, al ritenersi superiori. Attenzione alla cattiveria ma anche alla bontà.

Chi, all’esterno, era a conoscenza del mio viaggio fra la perduta gente, manifestava stupore e insieme ammirazione per un impegno giudicato difficile da perseguire: «che brava che sei… che coraggio…». Così vengono spesso considerate le persone che prestano servizio in un carcere, varcare quei cancelli volontariamente può apparire un gesto eroico, e talvolta tali attestati sono ben riposti. Ma io, onestamente, non li meritavo. Non era l’altruismo a spingermi là dentro. Non era per loro che andavo. Lo facevo per me. Ne avevo bisogno. Volevo spingermi in un altrove, forse perché nello sconfinare si trovano le chiavi per conoscersi, per capire un po’ meglio se stessi. Io, di me, non ho mai capito nulla. E però, da ciascun uomo conosciuto in prigione e in ciascuno dei giorni lì trascorsi, ho imparato qualcosa (sono passati più di vent’anni da allora, eppure, ancora oggi, considero quell’esperienza una delle più importanti della mia vita). Tre anni straordinari, stranissimi, irripetibili, che si conclusero un giorno ben preciso.

Mi trovavo a passeggiare insieme ai detenuti nel cortile, durante l’ora d’aria. E a un certo punto, da un altoparlante sentii distintamente una voce scandire il mio nome: «DALOIA, al colloquio!»

Se l’avessi visto scritto, sarebbe stato diverso. Ma sul momento, pensai che l’ordine fosse rivolto a me e non a un detenuto il cui cognome si pronunciava come il mio. Ed ebbi paura. Pensai di essere entrata nell’ingranaggio, e che mai più ne sarei uscita.

Non avevo mai avuto paura, entrando e uscendo dalle celle, transitando nei vari reparti, andando su e giù per il cortile. E avevo sbagliato. 

Quella voce, per quanto suonasse surreale, mi riportava alla realtà. Mi ricordava che io, lì dentro, ero solo di passaggio.

ARTICOLO n. 93 / 2024