ARTICOLO n. 24 / 2025

NOTIZIE DA LEI, E CHE NOTIZIE!

L’amico che negli scorsi giorni mi ha ospitata a Venezia mi ha raccontato, mentre ero lì, di quanto gli fossero piaciuti i libri di Romain Gary, nonché Martin Eden di Jack London, perché li aveva letti in un momento in cui stava vivendo le stesse situazioni e pensando gli stessi pensieri dei protagonisti di quei romanzi; gli ho risposto che qualche mese fa, confrontandomi con un conoscente in merito a Un uomo che dorme di Perec, ho scoperto di averlo letto – soprattutto nel finale – in maniera drasticamente differente rispetto a lui, soltanto perché stavamo attraversando due fasi ben diverse l’una dall’altra delle nostre vite. 

La biografia e l’autobiografia, per me, sono fondamentali: quelle di chi realizza l’opera e quelle di chi la legge, la ascolta, la guarda. «In Italia, la vita d’uno scrittore è annullata dalla sua opera. La persona che ha scritto quelle pagine, che studiamo e amiamo, paradossalmente non ci interessa», scrisse Viola Papetti nel 1992 in una lettera indirizzata a Maria Corti. Ci siamo convinti – non solo in Italia – che l’opera esista in un regno a parte, sia essa opera letteraria o musicale o visiva; che goda in qualche modo di uno statuto indipendente da chi l’ha prodotta – e, allora, per chiudere in fretta e furia questo divario, giù con il pur lecito mantra “il personale è politico” (ma solo se siamo politicamente allineati) o, per aumentarlo a dismisura, tipo accelerazionismo, con le degenerazioni del separare l’opera dall’artista, se si parla di Carl Andre o Roman Polanski, che, per salvare capra e cavoli, finiscono per togliere l’odore all’una e agli altri. Per fortuna, però, io, qui, non voglio parlare di Carl Andre e Roman Polanski, né di Ana Mendieta e Adèle Haenel, ma di Sofia Silva.

Ero a Venezia, ospite di quell’amico, perché il 15 marzo, da Barbati Gallery in campo Santo Stefano, ha inaugurato Notizie da lei, la personale – personalissima – di Silva in cui è l’autobiografia della pittrice a costruire le immagini. Ascoltandola parlare dei suoi quadri, in riferimento ai pigmenti e ai materiali utilizzati, ho sentito la pittrice ripetere più volte il termine “sublimare” e, sicuramente influenzata da questa reiterazione, devo dire che l’artista ha sublimato la sua autobiografia. Perché sì, le biografie e le autobiografie possono indubbiamente essere noiosissime, se non le si sa raccontare, ma se le si sublima con stile, diventano illuminanti.

«Ma sa la letteratura è Morte. A tenerci in vita è solo l’affetto per le persone e le cose. Tutto il resto è niente»; «Tra gli scrittori, gli unici che mi interessano sono quelli che hanno uno stile. Se non ce l’hanno, non m’interessano. È pieno di storie nelle strade. Le vedo ovunque. È pieno di storie nelle stazioni di polizia, nei cortili, nella tua vita. Chiunque ha una storia, sai; centinaia di storie. È raro avere stile»: sono tutte parole di Céline, a dimostrazione che – non solo per me: mi consolo – la vita vissuta e lo stile per sublimarla non soltanto possono, ma devono essere tenuti insieme, salvaguardando le specificità di entrambi.

La casa natale a Padova, il profondo Veneto di vascobrondiana memoria, la vita universitaria a Venezia, l’imponenza della figura paterna, le pensioni tre stelle sull’Adriatico per fare le ferie in famiglia: mi sembrava di averle vissute tutte io, queste cose dipinte da Silva – io che sono nata nell’Oltrepò pavese, che a Venezia ci ho passato al massimo sette giorni di fila e che le pensioni adriatiche non le ho mai viste, perché le vacanze da piccola le trascorrevo in villaggi all inclusive tra Grecia e Turchia.

Le tele di Silva sono abitate da roselline, pesciolini, manine, lineette, figurine diafane: è tutto sussurrato; sono una voce nell’orecchio, mentre sentiamo il fiato sul collo e ci viene la pelle d’oca. Una volta, nel 1955, Giorgio Manganelli – uno che aveva fatto la Resistenza in prima linea – appuntò in un suo diario: «Non sono diventato comunista. Non ci riesco», in anni in cui era impensabile non diventarlo, se si faceva cultura in Italia.

Nemmeno Silva riesce a diventare altro da sé, eppure il suo personale è estremamente politico; solo, è un politico diverso da quello dominante. È una presa di posizione netta, la sua, con le retine fatte a mano dalle donne venete incollate sulla tela e la riproposizione di seni di statue di sante medievali che paiono un generico nude in chat di oggi. Nel rifiuto di ciò che è altro da sé, Silva non abdica al valore collettivo dell’arte, della sua arte (nulla di più collettivo di retine passate di mano in mano, di statue uscite da popolosissime botteghe e di foto riciclate a ogni sessione di sexting donate a una pletora di maschietti), ma sa – come, ancora, Manganelli – che la vera rivolta è la “rivolta individuale”. Lei può, al massimo, riunire tante rivoltose davanti ai suoi quadri e, poi, lasciare che ognuna faccia la sua, di rivoluzione.

Le tele di Silva sono slavate, in perfetto pendant cromatico con i muri del palazzo che ospita la galleria e ai quali l’artista ha consapevolmente scelto di adeguarsi (sembra, forse, un atto di sottomissione, ma idealmente la mostra si chiude con un piccolo quadro su cui è appiccicato un biglietto che recita: “MANGIATI UN PALAZZO”). La pittura di Silva, delicata nelle cromie, è, poi, fatta di memoria, di ricordi, di sguardi all’indietro. «A partire dal 1848 ogni pittore importante ha dovuto contare sulla sua fede nel futuro. La fiducia che il futuro sarebbe stato diverso e migliore nasceva dalla consapevolezza (a volte del tutto lucida, a volte solo oscuramente avvertita) di vivere in un’epoca di profondi cambiamenti sociali», scrisse John Berger su Léger.

Nella memoria, nei ricordi, negli sguardi all’indietro di Silva sono convinta ci sia la più commovente e profonda fede nel futuro che si possa ricercare. Ogni epoca è epoca di cambiamenti sociali – perché in ogni epoca c’è qualcuno che l’ha scritto, lamentandosi giustamente di vivere nel peggiore possibile dei momenti – e Silva, avendo fiducia che il futuro – lontano, non si sa quanto – sarà migliore, per parlare del presente ne elude i motivi (tematici e materici) tipici, cercando di metterne già di alternativi a disposizione di chi verrà, come fanno, appunto, i pittori importanti. Silva dipinge come vola una farfalla: è leggera e silenziosa, eppure tutti ci giriamo a guardare quant’è bella (aborro le metafore, ma questa è uscita da sé).

Al primo piano della galleria, dove si snoda il grosso dell’esposizione, c’è un’opera in cui il pigmento è mischiato a della polvere metallica e dentro a un riquadro azzurro c’è scritta, cioè: dipinta, la data 1943. È l’anno di nascita del padre di Silva, ma poiché l’autobiografia è sublimata – se non la sublimiamo noi, si sublima da sola attraverso junghiane sincronicità – quel 1943 la pittrice l’ha trovato inciso in una chiesa di Asolo, la traccia di un fedele dell’epoca (il 1943 è anche la data di nascita della madre di Jacopo Benassi, che quel numero l’ha graffitato in nero su una parete del Museo Diocesano di Milano all’interno della mostra Attorno a Tintoretto, visitabile fino al 25 maggio). Quando ho visto il 1943 di Silva, con la pancia – senza aver ancora colto razionalmente il collegamento – sono andata all’installazione di Benassi, la quale, oltre alla scritta sul muro, comprende pure una cinghia che tiene legate, appese a parete, una copia di una Deposizione di Caravaggio da lui dipinta, la fotografia del muro su cui era appesa a casa di sua mamma e la fotografia del di lei comodino, pieno di bruciature di sigaretta; la prima immagine è a colori, le altre due in bianco e nero. Anche Silva ha scelto la mescolanza cromatica, con l’azzurro nel campo centrale e una scala di grigi nei bordi.

A posteriori, già tornata a Milano da Venezia, ho capito anche dov’era andata la mia pancia quando ho visto Inter Milan, una delle opere più grandi portate dall’artista da Barbati Gallery e il cui titolo richiama sue vicende familiari, tra avi milanisti e – giustissime, per me – inversioni di rotta in senso nerazzurro. L’estate scorsa, anzi: era maggio, insieme a Sofia visitai la mostra Roberto Sambonet. La teoria della forma alla Triennale di Milano, ed entrambe ci fermammo per un po’ di istanti davanti a un piccolo disegno quadrato raffigurante un bambinetto biondo-rossiccio che, con addosso una maglietta a righe verticali, si slancia, disarticolato, per colpire un pallone che nell’immagine non c’è.

A causa di quest’assenza, sembra piuttosto che la figurina stia marciando con fin troppa convinzione, diventando caricaturale, ed effettivamente il titolo di quel disegno, benché non lo ricordi con esattezza, aveva sicuramente dentro la parola “balilla”. Sul margine basso del foglio, poi, c’è la data, 1934, che è una semi-inversione di 1943. Io a Sofia non l’ho chiesto se quel balilla di Sambonet l’abbia un po’ ispirata o se piuttosto si sia adagiato sul suo subconscio e saranno queste righe a riportarglielo per bene alla mente, ma nella mia autobiografia tutta questa roba è legata.

Non sa solo dipingere, Sofia Silva, ma anche parlare (e scrivere). L’inaugurazione di Notizie da lei – che sarà visitabile fino al 30 aprile – è durata dalle 17 alle 20: sono rimasta in galleria tutte e tre le ore, ascoltando e riascoltando l’artista parlare dei suoi lavori ai visitatori che entravano e uscivano – nessuno si è fermato tutte e tre le ore, oltre a me. Ascoltandola e riascoltandola, ho pensato a quanto sono fortunata a conoscere una delle pochissime pittrici di questa generazione (o di sempre?) capaci di spiegare cos’hanno messo sulla tela, senza aspettarsi che sia il visitatore a praticare una sbilenca maieutica dell’opera, solo perché non sono in grado loro di farlo (e, allora, vai con il liscio della degenerata curatela contemporanea).

Il quadro è un oggetto, ricordava sempre Silva ammonendo un po’ il pubblico idealista-misto-ignorante (ignorante mai quanto me, sia chiaro) davanti al suo 1943, posto pochi centimetri sopra la boiserie grigina, a contatto, così, con qualcosa di fisicissimo, e non disperso nel bianco della parete come qualcosa di metafisico. Chiunque sa parlare del proprio letto o della propria unghia rotta, in quanto oggetti, e così chiunque dovrebbe saper parlare anche dei propri quadri, cosa che moltissimi pittori, però, si sono dimenticati di fare, perché – dicono – se l’opera e l’artista sono due entità separate, è l’opera che parla per sé o, se il personale è politico, per coerenza, loro tacciono oppure sbraitano cose incomprensibili in entrambi i campi, che, poi, sono il medesimo.

Lo scrittore, continuava Papetti nel ‘92, sarebbe, secondo molti, «solo uno strumento della Provvidenza per permettere che il linguaggio abbia organi fonici, mano, sintomi di malattia», e come lo scrittore, anche la pittrice. Per fortuna la Provvidenza, in una nazione fondata su Manzoni, fa sempre il suo mestiere e mi ha fatta nascere nella stessa epoca di Sofia Silva.

ARTICOLO n. 23 / 2025