ARTICOLO n. 41 / 2023

NON HO ALCUN RISPETTO PER MICHEL FOUCAULT

Intervista di Giulia Paganelli

Ci sono studi e libri da cui non è possibile prescindere quando si sceglie di varcare la soglia degli studi umanistici e sociali. Sexual Personae (Luiss University Press) è uno di questi. Io e Camille Paglia sulla carta siamo interlocutrici lontane, provenienti da due periodi storicamente e culturalmente ben distinti e inevitabilmente incisivi nella nostra formazione accademica e analitica. Abbiamo scoperto, in realtà, di avere in comune alcune cose importanti come il valore che diamo alla conoscenza storica nello sviluppo delle scienze sociali e antropologiche, l’urgenza di vedere il sistema accademico modificarsi e ristrutturarsi nelle scienze umanistiche perché così non funziona, l’amore profondo che diventa ossessione per i collegamenti nel tempo e nello spazio – e chissà come sarebbe davvero avere un pomeriggio di tempo e nessun limite tecnologico per tracciare nuove bisettrici in questi Atlanti cognitivi e simbolici. Entrambe da piccole volevano fare le egittologhe, entrambe da grandi abbiamo fatto percorsi tortuosi perché studiare solo una cosa non ci sembrava abbastanza. Ci sono, anche, incompatibilità fortissime che riguardano i nostri femminismi perché sicuramente Paglia fa parte di un’ondata precedente che difficilmente potrà mai sfociare nel movimento intersezionale, pratica che oggi è mia anche se non ne condivido molte delle modalità violente con cui si srotola nel mondo digitale. Ma anche questo è, indubbiamente, un percorso che ha bisogno di nuova teoria e di nuova tecnica, nuove voci e nuovi inizi, ma anche viaggi inversi che ritornino all’origine delle cose per far sì che gli orrori e gli errori non si ripresentino e su questo siamo d’accordo entrambe. Ma più di ogni altra cosa siamo due persone che credono nella conversazione critica e nel dibattito che nasce quando posizioni contrarie e distanti si mettono a sedere e parlano di società e dinamiche generali, senza cannibalizzarsi a vicenda. Il resto sono solo chiacchere.  

Giulia Paganelli: In un dialogo con Jordan Peterson, lei dice che «le religioni sono la vera rivoluzione». Io sono atea, ma sono anche un’antropologa e le cosmogonie così come le grandi religioni contemporanee mi permettono di acquisire moltissime informazioni sui sistemi culturali che osservo. Le chiedo se può approfondire per noi questo punto, in che modo le religioni sono una vera rivoluzione per gli studiosi del nostro tempo. 

Camille Paglia: Dopo le manifestazioni per i diritti civili e le proteste contro la guerra degli anni ’60, l’istruzione universitaria negli Stati Uniti e nel Regno Unito iniziò a spostarsi verso un orientamento apertamente politico, negativo nei confronti della cultura occidentale, che veniva descritta come irrimediabilmente sessista, razzista e imperialista. Tra le voci influenti che hanno assunto alcune o tutte queste posizioni c’erano Herbert Marcuse e Edward Said. Negli anni ’70 iniziarono continui attacchi al “canone” della grande letteratura e arte occidentale, che fu sempre più sostituito da opere contemporanee con un messaggio apertamente politico. Uscendo dalla scuola di specializzazione all’inizio degli anni ’70, pensavo che il curriculum universitario avesse un disperato bisogno di una profonda riforma, ma credevo che il “multiculturalismo” sarebbe stato meglio raggiunto da una riorganizzazione della struttura universitaria attraverso un modello interdisciplinare che fondesse le scienze umane e sociali. Le discipline umanistiche, a mio avviso, richiedevano un importante riorientamento verso la storia, come nell’ampia borsa di studio dei professori tedeschi della fine del diciannovesimo secolo, che erano profondamente eruditi in molteplici discipline. Uno degli ultimi grandi studiosi di quella tradizione è stato il marxista Arnold Hauser, i cui quattro volumi The Social History of Art (1951) mi hanno profondamente colpito quando stavo facendo ricerche per la mia tesi di dottorato a Yale.

Altre persone certamente hanno visto anche i limiti della struttura dipartimentale accademica standard. Tuttavia, in mezzo alla pressione per inserire nel curriculum materie nuove e urgenti come il femminismo e la letteratura afroamericana, gli amministratori universitari hanno erroneamente superato la loro autorità creando rapidamente unità di “studi” indipendenti, come studi sulle donne, studi afroamericani, studi sui nativi americani – al di fuori della supervisione accademica dipartimentale. A mio avviso, questi argomenti estremamente importanti e vitali sono stati purtroppo fortemente politicizzati fin dall’inizio, polemicamente ostili alla cultura occidentale e imponendo una semplicistica dicotomia oppressore-oppresso a tutti i discorsi sulla società e sull’arte.

Sostengo fortemente il multiculturalismo come ideale animatore dell’istruzione superiore. Ma mi oppongo alla politicizzazione ristretta e stridente che ora regna. Questa pratica ben intenzionata ma grossolanamente riduttiva trascina i giovani nelle liti contemporanee provinciali che sono diventate sempre più monotone ed estenuanti. Sebbene io sia atea, sostengo che la vera rivoluzione nell’educazione sarebbe quella di fare della religione comparata il fondamento del curriculum universitario di scienze umane. Vedo le grandi religioni del mondo come giganteschi sistemi di simboli contenenti verità complesse sulla vita umana. Al contrario, il marxismo manca di una metafisica e non vede altro nell’universo che politica ed economia.

La mia ultima raccolta di saggi, Provocations, contiene la mia dichiarazione di apertura per un dibattito del 2017 alla Yale Political Union, dove ho difeso la risoluzione (un argomento che avevo proposto), “La religione appartiene al curriculum”. Lì affermo: «nessuna società o civiltà può essere compresa senza fare riferimento alle sue radici religiose. Ogni studente dovrebbe laurearsi con una familiarità di base con la storia e i testi sacri, i codici, i rituali e i santuari delle principali religioni del mondo: induismo, buddismo, giudeo-cristianesimo e islam».

Ristampato in Provocations è anche il mio lungo saggio, “Cults and Cosmic Consciousness: Religious Vision in the American 1960s” (un ampliamento di una conferenza all’Institute for the Advanced Study of Religion di Yale). Qui sostengo che la massiccia influenza delle religioni non occidentali sui ribelli anni ’60 è stata stranamente dimenticata. Il buddismo zen era un tema importante nel movimento Beat degli anni ’50 a San Francisco, che ispirò direttamente la “controcultura” degli anni ’60 in quella città. L’era hippie fu soffusa di influenze dall’induismo, che ebbe inizio in California quando Ravi Shankar dimostrò il sitar al Monterey International Pop Festival nel 1967. La sua performance elettrizzante può essere vista nel documentario Monterey Pop. I sitar furono presto ascoltati in tutta la musica rock degli anni ’60, introdotta da George Harrison dei Beatles, la cui visita di gruppo in India per studiare con il Maharishi Mahesh Yogi finì in un fiasco.

La mia pratica come interprete della letteratura e dell’arte deriva in ultima analisi dall’antropologia, in particolare dalla “critica del mito”, le cui origini risalgono all’impatto della Cambridge School of Anthropology della fine del diciannovesimo secolo sullo psicologo Carl Jung. In Provocations è inclusa anche la mia conferenza alla New York University sull’analista junghiano Erich Neumann, il cui libro del 1955, La grande madre: un’analisi dell’archetipo, ha fortemente influenzato il mio primo libro, Sexual Personae (1990).

G.P. Da piccola volevo fare l’egittologa, ero sicura che sarebbe andata esattamente in questo modo. Poi ho incontrato Hegel e mi sono lasciata affascinare, arrivando poi solo alla fine del mio percorso accademico a occuparmi nuovamente di “archeologia” come parte fondamentale per codificare il mondo in cui vivo. Sexual Personae è un libro che nasce, secondo me, da un istinto simile. La Storia è imprescindibile per lo studio dei fenomeni complessi, siamo d’accordo?

C.P. Che coincidenza! Anch’io volevo essere un’egittologa. L’archeologia è stata la mia prima ambizione professionale, ispirata da una visita d’infanzia al Metropolitan Museum of Art di New York. Sono rimasta sbalordita e innamorata delle magnifiche sculture in granito rosso di un faraone inginocchiato che fa offerte agli dèi. Solo molti decenni dopo ho scoperto che il faraone era una donna: la regina Hatshepsut!

In seguito ho abbandonato il mio obiettivo di archeologia quando mi sono resa conto che tutti i grandi monumenti erano già stati scoperti e che probabilmente sarei stata condannato a rimontare vasi rotti, cosa per la quale non avevo pazienza. In risposta alla tua domanda, sì, la conoscenza della storia è certamente cruciale per tutto l’insegnamento e lo studio. Ma sin dall’ascesa della “teoria” chic postmodernista, troppi professori di discipline umanistiche hanno giocato ai filosofi dilettanti e hanno irresponsabilmente scartato studi storici approfonditi.

G.P. Da poco in Italia è uscito per Blackie Edizioni il racconto di Simone Wade Foucault in California, una sorta di etnografia sulla prima esperienza di Michel Foucault con LSD. Una volta tornato in Francia, si dice che il filosofo buttò via metà del lavoro scritto per quella che conosciamo oggi come Storia della Sessualità perché, cito, »quella fu l’esperienza migliore della sua vita, la più introspettiva». C’è spazio, secondo il suo punto di vista, per una rilettura delle opere precedenti di Foucault alla luce di questo evento? 

C.P. Non ho alcun rispetto per Michel Foucault, la cui conoscenza era strettamente limitata all’Europa solo dall’Illuminismo. Foucault non sapeva nulla dell’antichità classica o del Medioevo, e le sue osservazioni su quei periodi sono imprecise e a volte ridicole.

Le mie forti obiezioni a Foucault e ai suoi discepoli sono ampiamente contenute nel mio saggio-recensione, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf“, che è stato ristampato nella mia prima raccolta di saggi, Sex, Art, and American Culture (1992). Molte persone credono che Foucault fosse un erudito, ma non lo era. Era gravemente carente come ricercatore di materiali storici. Nella sua ristretta attenzione all’ideologia del potere, non aveva alcun istinto per l’arte o l’estetica. Ha rifiutato assurdamente la psicologia nella sua analisi della sessualità.

Inoltre, Foucault nascose disonestamente il suo enorme debito con i grandi sociologi Émile Durkheim e Max Weber. Durkheim, la vera fonte di Foucault, aveva già studiato carceri e codici penali ed esplorato i principi della classificazione e della tassonomia. C’era un libro del 1985 di J.G. Merquior che ha messo a nudo in modo divertente molti degli elementari errori di fatto commessi da Foucault. Come ho detto in “Junk Bonds”, un giorno la gente guarderà indietro, come facciamo noi alla mania del diciottesimo secolo per Emanuel Swedenborg, e vedrà Foucault come il Cagliostro del nostro tempo. Ma intanto lasciatemi semplicemente dire questo: non ci sono donne in Foucault. Nessuno se n’è accorto?

G.P. In Italia esiste questa credenza diffusa nella finta Ideologia del gender. Certo, buona parte del lavoro in questo è stato fatto dalla destra che ha spinto e creato narrazioni mostruose con una comunicazione costante e martellante, ma dall’altra parte il terreno occupato da questa propaganda, penso, sia stato prodotto dalla mancanza di una conversazione onesta e accessibile da parte della sinistra. Abbiamo avuto leader di sinistra lontani dalle persone e dalla lotta di classe, chiusi dentro una bolla intellettuale e forzata in cui si parlavano tra loro mostrando all’esterno solo incoerenze. Come si recupera tutto questo terreno perso? 

C.P. Sì, sono assolutamente d’accordo sul fatto che molti di sinistra, in particolare professori delle università statunitensi, sono spesso molto lontani dalle persone per cui affermano di parlare. Abitano davvero in una “bolla intellettuale” arrogante.

Quando ero al college, a metà degli anni ’60, ho visto gente di sinistra genuina tra i miei compagni di studio. Erano appassionati nelle loro convinzioni e modi, e parlavano con il linguaggio semplice e diretto della classe operaia. La sinistra accademica, al contrario, ha troppo spesso favorito una “teoria” grottescamente pretenziosa in un codice mandarino d’élite.

Sono certa che il mio disprezzo per il linguaggio snob dei teorici postmoderni derivi dalla mia esperienza infantile tra gli immigrati italiani della classe operaia. Tutti e quattro i miei nonni, così come mia madre, sono nati nell’Italia rurale povera: la famiglia di mia madre in Ciociaria e la famiglia di mio padre in Campania. Sono nata in una piccola città industriale nello stato di New York in cui gli italiani erano emigrati per lavorare nella grande fabbrica di scarpe. Un nonno era un barbiere, e l’altro era un operatore esperto di questa difficile macchina per stirare la pelle. Forse solo un contatto personale diretto e sostenuto di quel tipo può illuminare l’autentico sistema della moderna classe sociale.

G.P. Vorrei parlare della scrittura e della comunicazione digitale. Io penso che lo spazio infinito di Internet permetta di non stringere i discorsi dentro a trafiletti e parole contate su giornali e riviste, allo stesso tempo però questo aumenta anche i contenuti falsi e la proliferazione di fake news, nonché la strumentalizzazione delle stesse per la propaganda politica. Penso, per esempio, allo scandalo che investì Cambridge Analytica. Cosa ne pensa e come possiamo prevenire questo fenomeno? 

C.P. Il Web ha rivoluzionato le comunicazioni sia in positivo che in negativo. Sì, lo “spazio infinito” di Internet è una liberazione, ma è anche una maledizione. Nei media statunitensi c’è stato un grave declino della qualità dei commenti politici e culturali proprio a causa dell’assenza di limiti di spazio. Quando negli anni ’90 scrivevo più regolarmente per giornali e riviste cartacee tradizionali, mi piaceva davvero la rigida disciplina del limite di parole: condensare il proprio articolo a 1000 o anche 800 parole richieste dava grande potere e chiarezza. Oggi, al contrario, molti articoli analitici scorrono in continuazione in modo fiacco, monotono e con un ordine poco distinguibile. Manca la fase finale della riduzione della prosa al suo argomento essenziale.

Ho iniziato a scrivere per il Web molto presto, dal primo numero di Salon.com nel 1995. È sorprendente ricordare che il Web non è stato preso sul serio all’inizio. In effetti, quando sono diventata editorialista al Salon, un importante giornalista del Boston Globe mi ha detto che stavo sprecando il mio tempo e che nessuno nei principali mezzi di informazione considerava seriamente il Web. Come sono cambiate le cose! Il mio saggio del 2003 “Dispatches from the New Frontier: Writing for the Internet”, che descrive le mie esperienze a Salon.com, è ristampato in Provocations.

Purtroppo il web ha distrutto o ferito gravemente innumerevoli giornali e riviste, che hanno perso la loro base economica e lottano per la sopravvivenza. Negli Stati Uniti, ciò ha minato i giornali regionali più piccoli e aumentato il potere dei media aziendali con sede a New York e Washington DC, che sono uniformemente sostenitori del Partito Democratico. Sono una democratica registrata che mette in discussione o rifiuta gran parte dell’attuale dogma democratico.

L’enorme problema odierno delle fake news ingannevoli e della palese propaganda peggiora ogni anno. I giovani dovrebbero essere formati presto su come valutare la credibilità delle fonti di notizie. Penso che dovrebbero esserci lezioni obbligatorie di logica formale tradizionale a livello di scuola pubblica. Gli studenti hanno bisogno di esercitarsi nel seguire argomentazioni sequenziali e nel riconoscere distorsioni, errori e conclusioni non supportate.

G.P. Infine, una domanda diretta: la ricomparsa di fascismi e neonazismi in Europa ci dice che dalla storia non abbiamo imparato nulla? E se sì, come è avvenuto questo processo? 

C. P. La parola “decadenza” appare nel sottotitolo di Sexual Personae perché penso che la cultura occidentale sia attualmente in una fase “tardiva”, di graduale declino. Decadenza non è un termine negativo per me: il mio libro esamina molti esempi di meravigliosa arte della fase tarda, come le sculture manieriste contorte e morbosamente sensuali di Michelangelo nelle Cappelle Medicee. Lo stile decadente ha caratteristiche ricorrenti come androginia, voyeurismo e compressione o distorsione dello spazio. Sono fortemente attratta dall’arte decadente e dai suoi eroi, come Oscar Wilde e Andy Warhol.

Tuttavia, la storia mostra che le fasi successive, come nella Roma imperiale o nella Germania di Weimar, possono innescare una reazione da parte dei nazionalisti militanti che chiedono un ritorno alle virtù semplici e stoiche dei lontani antenati. Penso che sia qui che ci troviamo ora, poiché la cultura occidentale su entrambe le sponde dell’Atlantico ha perso fiducia in se stessa ed è stata eclissata da una forza crescente in Asia.

ENGLISH VERSION

G.P. In a dialogue with Jordan Peterson you say that “religions are the real revolution”. I’m an atheist but also an anthropologist: cosmogonies as well as the great contemporary religions allow me to acquire much information on the cultural systems I observe. I would like to ask you to elaborate more on this: how are religions a real revolution for today’s researchers?

C.P.  After the civil rights demonstrations and anti-war protests of the 1960s, university education in the U.S. and U.K. began to shift toward an overtly political orientation, negative toward Western culture, which was portrayed as irredeemably sexist, racist, and imperialist.  Among influential voices taking some or all of those positions were Herbert Marcuse and Edward Said. In the 1970s, sustained attacks began on the “canon” of great Western literature and art, which was increasingly replaced by contemporary works with an overtly political message.

Emerging from graduate school in the early 1970s, I thought that the university curriculum desperately needed major reform, but I believed that “multiculturalism” would be best achieved by a reorganization of university structure via an interdisciplinary model blending the humanities and social sciences. The humanities, in my view, required a major reorientation toward history, as in the wide-ranging scholarship of late-nineteenth-century German professors, who were profoundly erudite in multiple disciplines.  One of the last great scholars in that tradition was the Marxist Arnold Hauser, whose four-volume The Social History of Art (1951) deeply impressed me when I was doing research for my doctoral dissertation at Yale.

Others certainly also saw the limitations of standard academic departmental structure.  However, amid the pressure to bring urgent new subjects such as feminism and African-American literature into the curriculum, university administrators wrongly exceeded their authority by rapidly creating free-standing “studies” units–such as Women’s Studies, African-American Studies, Native American Studies–outside departmental scholarly oversight.  In my view, these extremely important and vital topics were unfortunately heavily politicized from the start, polemically hostile to Western culture and imposing a simplistic oppressor-oppressed dichotomy on all discourse about society and art.

I strongly support multiculturalism as an animating ideal of higher education.  But I oppose the narrow, strident politicization that now rules. This well-intended but crudely reductive practice drags young people down into provincial contemporary quarrels that have become increasingly monotonous and exhausted. Although I am an atheist, I maintain that the real revolution in education would be to make comparative religion the foundation of the university humanities curriculum. I view the great world religions as gigantic symbol-systems containing complex truths about human life. In contrast, Marxism lacks a metaphysics and sees nothing in the universe but politics and economics.  

My last essay collection, Provocations, contains my opening statement for a 2017 debate at the Yale Political Union, where I defended the resolution (a topic I had proposed), “Religion belongs in the curriculum”. There I state: “No society or civilization can be understood without reference to its religious roots. Every student should graduate with a basic familiarity with the history and sacred texts, codes, rituals, and shrines of the major world religions–Hinduism, Buddhism, Judeo-Christianity, and Islam.”

Also reprinted in Provocations is my long essay, “Cults and Cosmic Consciousness:  Religious Vision in the American 1960s” (an expansion of a lecture at the Institute for the Advanced Study of Religion at Yale). Here I argue that the massive influence of non-Western religions on the rebellious 1960s has been strangely forgotten. Zen Buddhism was a major theme in the 1950s Beat movement in San Francisco, which directly inspired the 1960s “counterculture” in that city. The hippie era was suffused with influences from Hinduism, which began in California when Ravi Shankar demonstrated the sitar at the Monterey International Pop Festival in 1967. (His electrifying performance can be seen in the documentary, Monterey Pop.) The spiritual floating notes of the sitar were soon heard throughout 1960s rock music, pioneered by George Harrison of the Beatles, whose group visit to India to study with the Maharishi Mahesh Yogi ended in fiasco.

My own practice as an interpreter of literature and art ultimately derives from anthropology, specifically “myth-criticism”, whose origins were in the impact of the late-nineteenth-century Cambridge School of Anthropology on psychologist Carl Jung. Also included in Provocations is my New York University lecture on the Jungian analyst Erich Neumann, whose 1955 book, The Great Mother: An Analysis of the Archetype, greatly influenced my first book, Sexual Personae (1990).

G.P. When I was young, I wanted to become an Egyptologist. Then I met Hegel, who fascinated me deeply. Then it was “archeology” all over again, which kicked in as a fundamental part to codify the world I live in at the end of my academic path. In my opinion, Sexual Personae comes from a similar instinct. History is essential for the study of complex events, do you agree?

C.P.  What a coincidence! I too wanted to be an Egyptologist. Archaeology was my first professional ambition, inspired by a childhood visit to the Metropolitan Museum of Art in New York. I was stunned and enamored by the magnificent red granite sculptures of a kneeling pharaoh making offerings to the gods. Only many decades later did I discover that the pharaoh was a woman – Queen Hatshepsut!

I later abandoned my goal of archaeology when I realized that all of the great monuments had already been discovered and that I would probably be doomed to reassembling broken pots, for which I had no patience. In response to your question, yes, knowledge of history is certainly crucial for all teaching and scholarship.  But ever since the rise of chic postmodernist “theory”, too many humanities professors have played amateur philosopher and irresponsibly discarded in-depth historical study.

G.P. Recently, in Italy, Blackie Edizioni published Simone Wade’s Foucault in California, a sort of ethnography about Michel Foucault’s first experience with LSD. It is said that when he returned to France, he threw away what he wrote up to that moment and started again from scratch, giving birth to what we know today as The History of Sexuality: he defined it as, and I quote, »the best experience of his life, the most introspective». Do you think, considering this event, that there could be room for a reinterpretation of Foucault’s previous works?

C.P. I have no respect whatever for Michel Foucault, whose knowledge was narrowly limited to Europe since the Enlightenment. Foucault knew nothing about classical antiquity or the Middle Ages, and his remarks about those periods are inaccurate and at times ridiculous.

My strong objections to Foucault and his disciples are contained at great length in my review-essay, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf”, which was reprinted in my first essay collection, Sex, Art, and American Culture (1992). Many people believe that Foucault was erudite, but he was not. He was severely deficient as a researcher of historical materials. In his narrow focus on the ideology of power, he had no instinct for art or aesthetics. He absurdly rejected psychology in his analysis of sexuality.

Furthermore, Foucault dishonestly concealed his enormous debt to the great sociologists Emile Durkheim and Max Weber. Durkheim, Foucault’s true source, had already studied prisons and penal codes and explored the principles of classification and taxonomy. There was a 1985 book by J.G. Merquior that amusingly exposed many of the elementary factual errors made by Foucault. As I said in “Junk Bonds”, some day people will look back, as we do at the eighteenth-century craze for Emanuel Swedenborg, and see Foucault as the Cagliostro of our time. But meanwhile let me simply say this: there are no women in Foucault. Has no one noticed?

G.P. In Italy, many believe in Gender Ideology – which is a hoax. Certainly, part of the blame goes to right-wing parties who constantly pushed and created appalling narratives about it. On the other side, I personally think that this was also a product of the absence of an open and accessible conversation from left-wing parties. We have had many leftist leaders who were far from people and class struggle, sealed inside their forced intellectual bubble and only showing on the outside their contradictions. How do we fill the gap that left-wing parties left?

C.P. Yes, I absolutely agree that many leftists, especially professors at U.S. universities, are often far removed from the people they claim to speak for. They do indeed inhabit an arrogant “intellectual bubble”.

When I was in college in the mid-1960s, I saw genuine leftists among my fellow students.  They were passionate in their beliefs and manner, and they spoke with the simple direct language of the working class. Academic leftism, in contrast, has too often favored grotesquely pretentious “theory” in an elite mandarin code.

I am certain that my own contempt for the snobbish language of postmodern theorists comes from my childhood experience among working-class Italian immigrants. All four of my grandparents, as well as my mother, were born in impoverished rural Italy–my mother’s family in Ciociaria and my father’s family in Campania. I was born in a small industrial town in upstate New York to which Italians had migrated to work in the vast shoe factory. One grandfather was a barber, and the other one was an expert operator of the difficult leather-stretching machine. Perhaps only direct, sustained personal contact of that kind can illuminate the authentic system of modern social class.

G.P. I would like to talk about writing and digital communication. I think that the endless space of the Internet allows us to go beyond discourses inside paragraphs and a limited number of words in newspapers and magazines. At the same time, it increases the spreading of fake news and their manipulation for propaganda. I think, for example, about the Cambridge Analytica scandal. What do you think of it and how can we prevent this from happening? 

C.P. The Web has revolutionized communications in both positive and negative ways. Yes, the “endless space” of the Internet is a liberation, but it is also a curse. In the U.S. media, there has been a severe decline in the quality of political and cultural commentary precisely because of the absence of space limits. When I was more regularly writing for mainstream print newspapers and magazines in the 1990s, I actually enjoyed the strict discipline of the word limit: condensing one’s article to a required 1000 or even 800 words gave great power and clarity. Today, in contrast, many analytic articles run on and on in a slack, dull way and with little discernible order. They are missing the final stage of stripping prose down to its essential argument.

I began writing for the Web very early–from the first issue of Salon.com in 1995. It is startling to remember that the Web was not taken seriously at first. Indeed, when I became a columnist at Salon, a prominent journalist at The Boston Globetold me that I was wasting my time and that no one in the major news media regarded the Web seriously. How things have changed! My 2003 essay “Dispatches from the New Frontier:  Writing for the Internet”, which describes my experiences at Salon.com, is reprinted in Provocations.

Unfortunately, the Web has destroyed or seriously wounded innumerable newspapers and magazines, which have lost their economic base and are fighting for survival. In the U.S., this has undermined smaller regional newspapers and increased the power of the corporate media based in New York and Washington, D.C., who are uniformly supporters of the Democratic party. I am a registered Democrat who questions or rejects much current Democratic dogma.

Today’s enormous problem of deceptive “fake news” and blatant propaganda is getting worse each year. Young people should be trained early in how to assess the credibility of news sources. I think there should be required classes in traditional formal logic at the public-school level. Students need practice in following sequential argument and in recognizing distortions, fallacies, and unsupported conclusions.

G.P. Lastly, a very straightforward question: could the reappearance of Fascism and neo-Nazism in Europe be suggesting that we haven’t learnt anything from history? And if so, how did this process take place?

C.P. The word “decadence” appears in the subtitle of Sexual Personae because I think that Western culture is currently in a “late” phase of gradual decline. Decadence is not a negative term for me: my book examines many examples of marvelous late-phase art, such as Michelangelo’s twisted, morbidly sensual Mannerist sculptures in the Medici Chapel.  Decadent style has recurrent characteristics such as androgyny, voyeurism and compression or distortion of space. I am strongly drawn to decadent art and its heroes, like Oscar Wilde and Andy Warhol.

However, history shows that late phases, as in imperial Rome or Weimar Germany, may trigger a reaction from militant nationalists calling for a return to the simple, stoic virtues of the distant ancestors. I think that is where we are now, as Western culture on both sides of the Atlantic has lost faith in itself and is being eclipsed by a rising force in Asia.

ARTICOLO n. 78 / 2024