ARTICOLO n. 6 / 2021
Non c’è abisso tra verità e finzione
Intervista di Andrea Romeo
Andrea Romeo. Werner, vorrei cominciare la nostra conversazione ricordando com’è nata l’idea del tuo nuovo film, Family Romance, LLC. Mi raccontavi che c’è dietro un articolo di cronaca.
Werner Herzog. L’idea è partita da un amico, Roc Morin, che mi ha mandato un suo articolo in cui raccontava la storia di questa straordinaria agenzia giapponese che affitta familiari, fidanzati e amici. Dopo averlo letto, gli ho consigliato di farne un film, ma lui mi ha risposto che non si sentiva pronto. «Se non lo fai tu, lo faccio io», ho detto. Ed è stato così che abbiamo subito iniziato a girare, io come regista e Roc come produttore. Sin dall’inizio è stato chiaro che non doveva essere un documentario: doveva essere un film a tutti gli effetti, con un copione e degli attori.
A.R. Ma per costruire questa fiction sei partito dai protagonisti reali?
W.H. Già, per prima cosa ho contattato il fondatore e proprietario della società «Family Romance», Yuichi Ishii, e gli ho chiesto due cose: di raccontarmi molti aneddoti sull’attività quotidiana della sua agenzia, soprattutto le cose più strane e memorabili; e poi, di aiutarmi con la selezione del cast. Volevo trovare gli attori del film all’interno dello stesso gruppo di collaboratori dell’agenzia, quelli che vengono chiamati ogni giorno quando qualcuno si sente solo e vuole un amico o desidera trascorrere un pomeriggio diverso dal solito. Oppure quando bisogna sostituire un familiare, magari durante un matrimonio.
A.R. Loro soddisfano il bisogno del cliente, assolvendo allo stesso tempo a una certa utilità sociale…
W.H. Esatto, proprio così. Proviamo a soffermarci sui matrimoni, che in Giappone sono cerimonie estremamente importanti e formali. Attraverso «Family Romance», se una donna che non vuole sposarsi teme di dispiacere i suoi genitori tradizionalisti, può scegliere dal catalogo dell’agenzia un uomo «da sposare»: l’uomo parteciperà veramente ad un matrimonio formale ma finto; e i genitori della sposa, appagati dalla cerimonia, potranno dire: «Finalmente si è sposata!». Ecco, in termini di benessere sociale, l’agenzia aiuta molto.
A.R. Questo è solo uno dei tanti casi che hai esplorato per costruire il tuo film.
W.H. Nel mio film ho immaginato una ragazza di undici anni, Mahiro, a cui manca il padre. I suoi genitori hanno divorziato quando lei aveva soltanto un anno, perciò di lui non ricorda nulla ma ne percepisce l’assenza, sente un vuoto. La madre, allora, decide di affittare un padre, che confessa a Mahiro di avere nuova famiglia, una famiglia che non accetterebbe questo rapporto con la prima figlia. I due cominciano a frequentarsi, a conoscersi, e instaurano un legame molto intenso che fa bene alla ragazza.
A.R. Per me è comunque molto divertente che molti critici, forse ingannati dal realismo, dai diversi livelli di finzione, abbiano creduto si trattasse di un documentario.
W.H. Ma in verità sono tutti attori. La ragazza è un’attrice, la madre della ragazza è un’attrice dell’agenzia, e il padre è il fondatore della vera «Family Romance» …
A.R. Che ti ha pure aiutato per i casting. Come hai gestito questo abisso tra verità e finzione?
W.H. Non c’è abisso tra verità e finzione. È un tutt’uno. Avevo una struttura molto chiara della mia storia e una bozza del copione già scritta. Ti ricordi, però, la scena della donna che ha vinto alla lotteria? Quando ho visto l’attrice ai provini ho pensato immediatamente che dovesse far parte del film, ho deciso che avrei immaginato un episodio apposta per lei e così ho iniziato a inventare sul momento partendo dalla sua straordinaria espressione di disagio. Ho capito che avrebbe interpretato una donna che non era mai stata fortunata in vita sua. Per caso ha sbancato alla lotteria una volta e ora desidera rivivere l’istante di quell’unica vittoria, perciò si rivolge alla Family Romance, LLC perché le permetta di rimettere in scena quell’istante e quell’emozione. Molto nel film è nato così, in corso d’opera.
A.R. A proposito di quella scena, vorrei farti una domanda tecnica. Quando l’agenzia fa rivivere alla donna l’istante della sua vittoria, usi lo slow-motion. Mentre giravi, sapevi già che l’avresti usato per quella scena o ci hai pensato dopo, al momento del montaggio?
W.H. Sì, sapevo già da prima di volerlo fare. E volevo farlo in un momento preciso: quando la vincitrice della lotteria viene circondata dalle ragazze pompon che esultano e ballano per festeggiarla, noi vediamo il suo volto ma la sua reazione è ancora enigmatica, ecco, in quel preciso punto, passo al rallentatore, per riprendere l’improvviso, nascente impatto emotivo. Ho usato lo slow-motion anche in altri film, ad esempio in Woyzeck con Klaus Kinski, nella scena in cui uccide la sua amata, ho fatto vedere l’uccisione con un rallenty molto spinto. È un effetto strano e potente, io sento sempre a istinto quando usarlo.
A.R. Nel film è affascinante questo tuo racconto del Giappone in filigrana: i ciliegi in fiore, una scena di samurai nel parco. Anche questa sottotrama l’hai costruita in corso d’opera, con le persone che lo animavano il giorno che hai girato?
W.H. La scena con i samurai è stata davvero una coincidenza: li ho visti nel parco e mi sono subito precipitato a filmare. Ma trenta secondi dopo di me è arrivato il guardiano e li ha fermati; non è servito a niente spiegargli che le spade erano finte, non ha voluto sentire ragioni. Allora mi sono accostato a loro e ho chiesto se potessero rifare per me la loro coreografia, ma senza spade. Quindi il loro seppuku, il suicidio rituale dei samurai, non viene più commesso con la spada finta, la spada è proprio scomparsa.
A.R. Così è scomparso l’ostacolo oggettivo tra verità e finzione.
W.H. Infatti, e questo più tardi mi ha portato all’idea che il finto padre, sopraffatto dall’amore di Mahiro e di sua madre, dovesse desiderare di morire, dovesse inscenare la propria morte, le procedure funebri, per sfuggire alla finzione da lui stesso creata. Senza però morire realmente. Lo vediamo, infatti, chiedere informazioni in un’agenzia di pompe funebri, provare una bara. Come notavi, il film si sviluppa su molti livelli sovrapposti, e non sempre sintonici.
A.R. Solo in apparenza può sembrare una storia semplice.
W.H. In superficie è illusoriamente semplice, ma è un film che prova a scavare a fondo e indagare la condizione umana. Penso che Family Romance, LLC sia uno dei miei film essenziali, tanto quanto Aguirre, furore di Dio o L’enigma di Kaspar Hauser.
A.R. Credi sia possibile considerarlo anche un film sulla famiglia e sulle sue estreme implicazioni sentimentali?
W.H. Certo, è un film sulla famiglia, racconta di una famiglia spaccata, di un padre scomparso, però apre molte altre questioni e soprattutto è attraversato da diverse domande. Quella che mi angoscia di più è questa: quanto della nostra vita è una performance? Perché anche quando non ce ne accorgiamo, recitiamo tutti tantissimo. Interpretiamo sempre un ruolo sia quando siamo in chiesa, magari durante un matrimonio, sia quando siamo allo stadio. Tutta la nostra vita è una continua performance. Pensa solo a quanto mettiamo in scena di noi stessi mentre stiamo sui social. Cos’è Facebook se non una riscrittura di noi stessi? Una sorta di pantomima; tutto può essere abbellito, falsificato: d’altronde, è naturale voler provare a mostrare agli altri il nostro lato migliore. Ma quanto ci mentiamo a vicenda? Sarebbe banale pensare che sia sbagliato; al contrario, penso sia un meccanismo assolutamente naturale: per sopravvivere nella nostra società dobbiamo accettare questa rappresentazione. Dobbiamo tutti accettare il compito di recitare una parte. Per questo motivo non è poi così assurdo che qualcuno o qualcosa, ogni tanto, ci sostituisca. È già una pratica comune nella nostra quotidianità.
A.R. Ti riferisci a qualche occasione in particolare?
W.H. Quando affittiamo un baby-sitter, ad esempio. È il rimpiazzo di un familiare assente, che affittiamo magari quando vogliamo andare al cinema col nostro compagno. Ma anche l’orsacchiotto di peluche che regaliamo ai nostri figli è un modo per delegare le nostre emozioni a un giocattolo. Molto di tutto questo verrà sostituito presto dai robot, ormai ne siamo circondati, si occupano di noi, sono disponibili, capiscono quello che diciamo, ci rispondono.
A.R. In Family Romance, LLC dedichi una scena molto interessante all’uso dei robot. Secondo te, perché oggi sentiamo così tanto il bisogno di essere sostituiti? Di usare i robot come nostri possibili alter ego?
W.H. Perché stiamo attraversando una stagione di solitudine esistenziale. In questi anni le solitudini si sono esacerbate, sono diventate più profonde, perché viviamo in un tempo che ci spinge di continuo verso la solitudine. In parte è dovuto sicuramente ai social media; ogni giorno deleghiamo le esperienze del mondo reale ad applicazioni del cellulare. Deleghiamo i nostri incontri con altri esseri umani ad uno schermo. Sono convinto che il XXI secolo sarà un’epoca di solitudini, che ci obbligherà ad assistere a un curioso paradosso: a causa di questo enorme incremento di mezzi di comunicazioni, diventeremo più soli. Non saremo isolati, ma saremo profondamente, filosoficamente ed esistenzialmente soli.
A.R. Il protagonista del tuo film dice che abbiamo bisogno di avere molti dettagli per mettere in scena quello che siamo davvero. Vorrei chiederti allora se il cinema, che è un’arte fatta di dettagli, può essere il mezzo attraverso cui capire qualcosa in più di noi. Quanto ha a che fare Family Romance, LLC con il cinema?
W.H. Sì, ovviamente ha a che fare con la vita ma anche con il cinema. Innanzitutto, lo spettatore vede gli strumenti di realizzazione del film, li sente, li percepisce. C’è una sorta di approccio fisico, diretto. Però, ha a che fare soprattutto con quanto del cinema è illusione, proiezione di desideri. Il cinema – l’arte in genere – non ti consente solo di raccontare i fatti, ti dà l’opportunità di arrivare a coglierne le verità profonde. Penso sempre al lavoro che fece Michelangelo quando realizzò la Pietà Vaticana: il volto di Gesù è il volto tormentato di un trentatreenne; il volto della madre Maria è il volto di una quindicenne. Michelangelo ha raccontato una fake news? Ha imbrogliato, ha mentito? No, voleva soltanto offrirci una verità profonda.
A.R. Parlando dell’importanza che ha per te il tuo film, hai evocato alcuni due tuoi capolavori, Aguirre, furore di Dio e L’enigma di Kaspar Hauser, che hanno formato la nostra passione cinefila. Quanto sei legato alla tua passata produzione? Senti ancora quei film come tuoi, del regista e dell’uomo che sei oggi?
W.H. Penso di essere sempre rimasto coerente con la mia visione. Non c’è dubbio. Sono sempre stato alla ricerca di una comprensione profonda della condizione umana. Credo di aver mantenuto la rotta, ma in un certo senso adesso sono ritornato ai miei primi tempi, proprio quelli di Aguirre, quando non c’erano soldi, a malapena una troupe con cui girare, e io mi avventuravo comunque nell’impresa di fare un film.
A.R. Che consigli daresti oggi ad una/un millennial che vuole diventare regista?
W.H. Se volete fare un film, potete farlo. È questo il mio consiglio per i giovani registi o aspiranti tali. Gli strumenti che servono sono pochi ed economici: si può realizzare un documentario di un’ora e mezza con meno di dieci mila euro, e un film di qualità con circa ventimila euro. Oggi potete farlo! Per Family Romance, LLC ho comprato una telecamera che costava pochissimo, ma era in 4K e aveva un ottimo sistema audio. Il film, alla fine, nonostante le sue dimensioni è stato selezionato a Cannes. Alcune cose che mi piace ripetere sempre alla mia Rogue Film School, che è una scuola di cinema sui generis che ho creato: mentre girate, fate tutto quello che è possibile fare, nei limiti del lecito. Non derubate una banca, vi prenderanno sicuramente. Ma se lo sentite, filmate pure senza permesso. Siate audaci. Bisogna avere una mentalità criminale per fare un film.
A.R. Werner, durante questa nostra conversazione abbiamo volutamente evitato la parola pandemia. Una domanda, però, tengo a fartela: cosa ti manca di più della sala cinematografica?
W.H. Il cinema al cinema è la madre di tutte le battaglie, ed è ciò a cui aspiro. Voglio stare al cinema. Voglio stare lì, in sala, per sentire quando la gente ride e la cascata di risate arriva fino al mio posto. Voglio sentire i respiri, l’attenzione, la tensione. Al momento stiamo trasferendo tutto sulle piattaforme di streaming: è un processo iniziato ben prima della pandemia, ma il cinema non morirà. Dobbiamo difenderlo in quanto spazio pubblico. Dobbiamo difenderlo come luogo di incontro, dove le persone sono collettivamente curiose. La curiosità intellettuale collettiva, il fermento collettivo delle menti: per me è questa la vera definizione di cultura.
A.R. Questo film è indissolubilmente legato al tuo rapporto con il Giappone. Non resisto a chiederti di raccontare ai nostri lettori di The Italian Review di quella volta che ti hanno proposto di incontrare l’imperatore del Giappone.
W.H. Tu la conosci già perché, come ho avuto occasione di dirti, è uno dei più grandi errori della mia vita. Stavo allestendo la prima mondiale di un’opera moderna scritta da un compositore giapponese. Questo compositore teneva che la allestissi io personalmente e visto che mi piaceva la sua musica ho accettato di andare in Giappone. Un giorno, durante le prove, si diffonde la voce che sia successa una cosa incredibile: l’imperatore del Giappone aveva manifestato l’intenzione di incontrarmi in un’udienza privata. E lì ho fatto una cosa stupida, di cui mi vergogno ancora ora: ho rifiutato. Ho detto che non ci sarei andato. A mia discolpa posso dire che pensai sarebbe stata un’occasione molto formale, piena di frasi di circostanza, e priva di un valore reale. Tutte cose che all’epoca sentivo che non erano sostenibili per me. Ma alla mia reazione tutte le persone presenti in quel momento nel teatro sembravano raggelate, sconvolte dal mio gesto. Rifiutare un invito dell’imperatore è una cosa inaudita: forse la cosa peggiore che si possa fare in Giappone, e oggi mi pento di averlo fatto. D’un tratto qualcuno però mi ha chiesto: «Ma se non vuoi incontrare l’imperatore qual è allora il giapponese che sogneresti di poter incontrare?».
A.R. Eh eh, vedi allora che ti sei fatto un regalo? Perché la tua risposta è stata…
W.H. Hiroo Onoda. Lui è stato l’ultimo soldato giapponese asserragliato in un’isola filippina ad arrendersi, ventinove anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Pensava che la guerra non fosse ancora finita. Aveva continuato a vedere gli aerei militari volare verso le Filippine, ma si trattava della guerra in Corea. Negli anni Sessanta, poi, aveva visto passare un grande bombardiere B-52, ma si trattava della guerra in Vietnam. Lui credeva che fosse sempre la stessa guerra che stava combattendo lui: che la Seconda Guerra Mondiale non fosse mai terminata. E così l’ho incontrato davvero. Ho instaurato con lui un ottimo dialogo, e da allora ci siamo ritrovati molte volte. Ora ho da poco finito di scrivere un libro sulle nostre conversazioni, si intitola The last days, e verrà pubblicato l’anno prossimo.
A.R. Un’ultima domanda prima di salutarci. La pandemia cambierà il nostro modo di raccontare le storie?
W.H. Ancora non riesco a dirtelo. Non sono un profeta, sono un regista. Ritengo, però, che questo periodo ci stia riportando alle cose essenziali. Ci stia indicando ciò a cui dovremmo tornare: riscoprire i valori della famiglia, riscoprire il nostro rapporto con la Natura. Ci sta riconnettendo con la lettura dei libri. Vedi, credo specialmente che i giovani comincino a dubitare. Credo che molti non vogliano più leggere solo i tweet, solo gli scambi nelle chat, dove ci sono frasi di due righe o di due parole. Confrontarsi con la letteratura dà accesso alla poesia, al pensiero concettuale, ti connette al mondo in un modo strano e profondo. Ecco, riguardo ai consigli che mi chiedevi per i giovani registi aggiungerei questo: se volete diventare validi registi, dovete leggere, leggere, leggere.