ARTICOLO n. 45 / 2023
NANNI MORETTI IN FUGA
Il sol dell'avvenire
L’immagine è quella di un uomo di quarant’anni, capelli lunghi e ondulati, fisionomia sottile. Quest’uomo vaga lungo un viale con gli occhi arrossati dalle lacrime, cammina senza pace. È ottobre, è Parigi e quel viale è Boulevard Raspail che quel giorno di ottobre del 1984 apparirà ancora più grigio di come già non sia solitamente. Un viale che è un lungo vuoto che scava non poca angoscia nel mezzo di Montparnasse. Quell’uomo è Jean-Pierre Léaud e ha saputo da poco che François Truffaut è morto. L’uomo che lo ha cresciuto e formato proprio come un padre è morto all’assurda età di cinquantadue anni. Léaud non si dà pace e forse non si darà pace mai più. Siamo nel mezzo degli Anni Ottanta, ma i francesi ancora non lo sanno. François Mitterrand è presidente già da tre anni, molti sono delusi, ma in qualche modo Ronald Reagan e Margaret Thatcher appaiono ancora lontani e con loro appaiono lontane le facce orribili di anni che si pretendono leggeri e spensierati e che non saranno altro che il primo volgare rigurgito di una mostruosità antropologica che oggi i nostri anni accolgono invece con assurda ovvietà.
La fine della storia non riguardava la storia in sé, i cicli economici e di potere, ma avrebbe riguardato invece le nostre stupide facce intrise di espressioni sempre più prive di memoria. La morte di Truffaut segna in un certo senso un passaggio, illuminato ancor di più durante le sue esequie dall’icastico viso atrocemente bello e straziante di Fanny Ardant. Appariva in quel giorno di lutto sui volti dei presenti la grana spessa del tempo e della memoria. Le storie erano ancora visibili come tatuaggi fissati nel pensiero di chi le aveva vissute e ben percepibili da chi ancora allora sapeva leggere nel prossimo. Gli occhiali scuri erano indossati per non esibire il proprio dolore: quanto stridore con gli occhiali scuri di oggi, inforcati invece solo per evidenziarlo durante funerali assordati dagli applausi. Il gesto è il medesimo, ma l’effetto è decisamente di verso opposto.
François Truffaut lottò fino all’ultimo, non tanto con la malattia, ma con la propria meraviglia che aveva la forma del fare cinema, e non derogò mai alla propria arte come al proprio desiderio. Quello che allora aveva assunto la forza di un’utopia del possibile oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo una pericolante perdita di controllo, un fare cinema ridotto ai minimi termini e sovrastato da apparenza mista a paura, angoscia e panico da sala vuota.
E allora bisognerebbe tornare a Jean-Pierre Léaud, alla sua mano. La immaginiamo mentre scorre sottile tra i capelli per fermarli dietro all’orecchio prima che ricaschino oltre, mossi dal vento e dallo sconforto di quell’ottobre. Torniamo a un attore fragilissimo come dovrebbero essere forse sempre gli attori. Un artista cui va conquistata la fiducia perché si possa fidare e affidare, perché possa essere controllato facendosi guidare fino al punto di offrirsi al proprio pubblico libero e vivo per sé e per gli altri. E vivo per sé e per gli altri Léaud lo è stato in maniera assoluta e splendida.
Un piacere per gli occhi, un dono raro. Ed è di questa forma di controllo, che seppe offrire Truffaut, e di questa forma di fiducia che seppe offrire Léaud che oggi latita sempre più un’arte cinematografica decadente e a tratti moribonda, in parte nei suoi contenuti, quasi sempre nella sua fruizione. Un cinema che da sala è diventato da cameretta, una forma di fruizione ridotta che non riguarda ormai più il popolare, ma quella che si dice una sua nicchia; che sia ceto medio, più o meno riflessivo conta ormai ben poco.
E attorno a questa forma insieme di riduzione e di mancanza sembra parlare il cappio che sta al centro della scena de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Cappio con cui dovrebbe impiccarsi il protagonista del film di Giovanni, Silvio Orlando, ma che al tempo stesso sembra destinato proprio a Giovanni. Un regista, quello interpretato da Nanni Moretti, non esplicitamente depresso o privo di idee, perché molti film ha ancora in mente di fare, ma rinchiuso in una gabbia critica e soprattutto autocritica, ormai incapace di cogliere la realtà e il suo senso.
Un suicidio, una morte che aleggia attorno a tutto il film di Nanni Moretti come al film che Giovanni pretende insistentemente come politico. Una morte quasi desiderata, una fragilità esposta eppure inedita al punto da capovolgere il ruolo e il compito di un regista che pare ormai in balia degli eventi (Giovanni) e privo di una poetica che da sempre lo ha caratterizzato (Nanni Moretti).
Nanni Moretti, in anni in cui il cinema italiano declinava pericolosamente riducendosi a pochi autori (e ancor più a pochi spettatori) e a una produzione di bassa qualità, ha – con Sogni d’oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1985) mostrato un’idea del cinema netta e anche divisiva. Un regista che ha sempre imposto un controllo ossessivo nella regia, nel controllo del set e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Moretti ha rappresentato un cinema innovativo, ma fortemente classico nella visione generale, segnato da un tentativo di controllo a tratti assoluto che ha in qualche modo reso impraticabile uno sguardo permeabile, ampio e curioso su una società e su una realtà che il regista romano non sembra più in grado di leggere, prima ancora che di rappresentare. Se nel 1984 Michele Apicella in Bianca uccideva i suoi amici perché non poteva controllarne le storie, oggi Giovanni preferirebbe fare da sé uccidendosi e lasciando perdere tutto il resto. È come se la fragilità dell’attore – quella di Jean-Pierre Léaud sperso lungo Boulevard Raspail – si fosse trasferita ad un regista diventato lui stesso il fulcro e il centro della scena, ma al tempo stesso la sua negazione: perché senza di lui – «mi viene da dirgli: spostati un po’ e fammi vedere il film» disse Dino Risi, non resta più nulla, non c’è nessuna scena, nessun film. Un regista che non controlla, un regista che non decide si trasforma in un film che non può esistere.
Un film su se stesso e per se stesso? Forse, ma anche un film su un regista senza alcuna possibilità di controllo, su un regista che ha perso il controllo di ogni cosa. Un regista che diviene totalmente attore esponendo una fragilità però non curabile. Nessuno dietro la camera può più guidare lui e la scena. Gli attori provano a fare da sé, a darsi un ruolo per conto proprio, ma tutto questo non può funzionare a lungo e infatti non funziona, né nel film nel film e ancor meno nel film stesso. Il funzionare è basilare per ogni macchina perché significa senso e ragione e tutto questo Il sol dell’avvenire non lo ha, restando per altro comunque lontano dall’ambizione di una utopica macchina celibe. E il continuo incespicare in citazioni e autocitazioni – divertenti per chi segue Moretti da quaranta anni – offrono il ritratto di una passione triste che sembra volere per principio oppure ciò che è stato (e non è più ripetibile) a ciò che potrebbe funzionare e forse pure meravigliare.
Un regista può essere sordo (sempre François Truffaut in La nuit américaine) oppure cieco (Woody Allen in Hollywood Ending), ma non può essere fragile, soprattutto se la fragilità va a determinare una totale perdita di controllo, o meglio una voluta perdita di controllo. Il sol dell’avvenire mostra il corpo di un regista che non può – ovviamente – essere il regista di quaranta anni fa, ma al tempo stesso non offre una possibilità diversa di sguardo al possibile regista di oggi e così anche allo spettatore (salvo che per gli spettatori groupie di quaranta o venti anni fa).
È un garbuglio, un nodo scorsoio pericoloso che rivela una debolezza che non sta solo in Nanni Moretti, ma che probabilmente il regista romano tende a riflettere da una società che della nostalgia ha fatto una mitologia, senza accorgersi però che i reperti vanno maneggiati con cura e non utilizzati come vettovaglie buone per tutti i giorni. Una tensione che resta priva di dramma e colma di stanchezza.
Una stanchezza reale eppure vacua, perché incapace di offrire un’utopia, o anche solo una possibile forma di resistenza. Il controllo è una forma di equilibrio oltre il quale tutto diviene ingestibile, ma è anche una forma di adattamento continuo capace di aggirare la stanchezza. Per raggiungere il quale non basta citare “la storia”, ma occorre mettere in discussione ciò che è stato per individuare una nuova strada, quella più adatta, dare in sostanza un equilibrio (sempre mobile) alla storia e alla sua morfologia.
Mettersi in discussione non appartiene proprio a Il sol dell’avvenire che gioca sì con la storia, immaginandola con i sé, ma con l’unico obiettivo di confermare un’idea precisa e già data. Dare forma a una certezza non dovrebbe appartenere al cinema e alla sua capacità di creare nuovi immaginari. In questo falso movimento che appartiene sempre più all’ultimo Moretti, sicuramente da Tre piani in poi, si avverte una perdita comune del ruolo del regista, di quel mestiere oscuro che lo stesso Ettore Scola faticava a spiegare ai suoi genitori (Silvia Scola, Paola Scola, Chiamiamo il babbo), ma che si palesava in un saper fare dentro al quale ogni elemento della troupe acquistava pienamente senso.
Ne Il sol dell’avvenire si avverte un liberi tutti, una resa al cambiamento e un assoluto disinteresse per come questo cambiamento possa essere interpretato. Una pretesa di centralità che trasforma la voce di Moretti intesa come sguardo, intuizione e intelligenza in una parodia di se stesso.
Mentre Marco Bellocchio che esordì nel 1965 ancora sembra divertirsi come un pazzo giocando su più piani e con più forme di cinema, Nanni Moretti abbandona il campo chiedendo ai propri attori di fare da sé in un finale celebrativo di un passato che si vorrebbe come una scatola ermeticamente chiusa, ma che rischia solo di dare forma a un presente inadeguato, mentre il mondo vive tensioni inedite e mutazioni radicali. Forse queste attrici e questi attori sapranno fare meglio da soli, alcuni già stanno da altre e in altre parti, ma abdicare al ruolo di guida per un regista come Nanni Moretti assume il segno grave di una sottovalutazione del dolore (proprio e altrui) in nome di una sopravvalutazione di se stessi. Tornando a quell’ottobre del 1984, non si può non vedere come le foto dei funerali di François Truffaut mostrino una forza cinematografica che certamente riguarda solo in parte il grande regista francese. Tra gli scatti si può cogliere a fianco di Fanny Ardant l’interprete dell’uomo misterioso, quello che avvicinandosi alla coppia Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) e Christine Darbon (Claude Jade) in Baisers volés avverte Christine del proprio amore per lei, un amore definitivo e assoluto al punto da dirsi pronto ad attenderla quando lei avrà deciso di “abbandonare il mondo del provvisorio” per unirsi a lui. Chiaro, quello era un tempo in cui non era necessario cercare “il cinematografico” perché tutto per certi versi lo era già, ma credere nel cinema e nella sua funzione vuol dire anche saper creare un immaginario al di là di se stessi e che vale sempre più di se stessi.