ARTICOLO n. 79 / 2023

METAMORPHOSES, UMANO E NON UMANO

Intervista di Fabio Bozzato

Cosa consideriamo umano non è scontato. I confini con il non-umano o il dis-umano, quelli che definiscono l’inclusione e l’esclusione del vivente, sono un terreno troppo terremotato per non metterci in discussione. È su quel confine che insiste la ricerca di Manuela Infante. Classe 1980, cilena, è la fondatrice del Teatro de Chile, la compagnia con cui ha sfidato molti dogmi della cultura del suo paese. Drammaturga e sceneggiatrice, ha una formazione filosofica ed è considerata una delle voci più importanti della scena teatrale internazionale. Ha anche all’attivo due album musicali, con la sua band Bahia Inutil, Stand Scared (2011) e Useless Bay (2015).

Il suo è un teatro di idee, una macchina di domande che affiorano continuamente nello svolgersi della scena. Ci siamo incontrati a Venezia, dove ha presentato Metamorphoses (2021), nell’ambito della rassegna Asteroide Amor curata da Susanne Franco (Università Ca’ Foscari) e Annalisa Sacchi (Università Iuav). L’opera teatrale attinge al libro di Ovidio e si sofferma su quella sequela di transustanziazioni che hanno come protagonista una folla di donne e di ragazze, dopo essere state oggetto di assalti, desideri frustrati, patti tra uomini. 

Fabio Bozzato: La prima cosa che colpisce, assistendo allo spettacolo, è che sembra di stare in un concerto. 

Manuela Infante: È un concerto! Più che a un’opera teatrale, l’ho immaginata proprio così; come se, allo stesso tempo, stessi leggendo un libro e assistendo a un concerto. Ho lavorato molto con Diego Noguera, il musicista, e l’abbiamo sviluppata proprio come un’esperienza musicale. Anche per questo, quando provo a definire il mio lavoro, mi riferisco a un teatro di filosofia encantada, nel senso di magico ma anche di canto, una filosofia musicale. È questa miscela, credo, che permette allo spettatore di assistere a un teatro di idee vivendolo anche emotivamente. In Metamorphoses prima di scrivere il testo, prima di tessere la storia, ho realizzato una esplorazione della voce e ho cercato tutte le strategie per trasformare le voci. Da qui lo studio sul ventriloquio, pensando a chi parla per chi e al momento in cui si invertono le voci. La stessa voce è un tema dell’opera, perché si connette alla famosa «lingua perduta» raccontata in una delle storie di Ovidio, ma allo stesso tempo è una deliberata scelta estetica.

F. B. Dunque, cosa significa scrivere per un teatro non di parola ma di idee?

M. I. Per me la drammaturgia non ha mai significato «scrivere parole». Per me ha sempre significato costruire strutture o esperienze temporanee, con molti elementi, uno dei quali è la parola, ma soprattutto la luce, il suono, i corpi, il flusso delle idee, gli spazi di oscurità.Lavoro facendo lo sforzo che non tutto sia comprensibile, in modo che tu non possa legare tutte le parti in modo razionale. Provo cioè a lasciare sempre la sensazione di essere in un mondo che non comprendo completamente e che mai sarò capace di farlo. È un esercizio che faccio di proposito quando costruisco un’opera teatrale. Lo faccio persino con il mio gruppo di lavoro. Molte volte mi chiedono: «Ma questo personaggio che relazione ha con quell’altro?». E io sempre dico: «A questa domanda non risponderemo». So che per gli attori è una cosa esasperante perché hanno sempre bisogno di sapere il più possibile per poter interpretare. Ma per me è un aspetto fondamentale, ha che fare con la mia ricerca, il mio desiderio politico del non-antropocentrico.

F. B. Questo suona come un paradosso rispetto alla tua formazione filosofica: non dare risposta, non legare in modo razionale, non trovare spiegazioni logiche.

M. I. A dire il vero non è un paradosso, ma è la prima ragione per cui faccio teatro e non filosofia [ride] Ho studiato filosofia, ho fatto il mio master, ma un certo punto mi son detta: «Qui non c’è abbastanza spazio per l’oscurità». Per carità, ci sono molti filosofi pieni di oscuro, penso a Nietzsche…ma non è abbastanza. La seconda ragione per cui faccio teatro è che nella filosofia non c’è sufficiente musica [ride]. Con la musica ho un legame particolare. Ho suonato il violino dai 4 ai 13 anni, il progetto era diventare violinista; ho imparato con un metodo che si chiama Suzuki, basato sul solo ascolto, senza leggere la musica. Vivevamo in Canada e quando sono tornata in Cile, nessuno conosceva questo metodo. A quel punto dovevo imparare a leggere lo spartito: immagina, per una adolescente di 14-15 anni non poteva essere che un inferno e là ho mollato tutto.

F. B. Eravate in Canada per il lavoro di tuo padre, so che era un astrofisico: c’è qualcosa del suo mondo scientifico che si è appiccicato al tuo immaginario e alle tue pratiche di drammaturga?

M. I. Assolutamente sì. E ora ho fatto qualcosa in più: ho lavorato a un’opera teatrale dal titolo Horizonte, che presenterò a Bruxelles in ottobre. È basata su una conversazione proprio con mio padre attorno al concetto astrofisico di orizzonte, vale a dire il punto più lontano cui può arrivare un segnale, che equivale alla velocità della luce. Dunque, in un certo modo l’orizzonte è il limite del conoscibile. La meraviglia è che si sposta nel tempo, proprio come la nostra percezione di orizzonte, più ti avvicini più si allontana. Anche in questo caso mi interessava continuare a riflettere sui confini tra umano e non-umano, perché c’è sempre qualcosa che resta più in là dell’orizzonte. Allora l’ho collegato all’idea di orizzonte che agitava i primi esploratori e colonizzatori spagnoli, il loro timore che la Terra avesse un bordo segnato dall’orizzonte e che oltre ci fossero mostri. In questo modo posso intersecare il campo scientifico con l’esperienza storica di tutto ciò che rappresenta il bordo e il di là dal bordo, quello che chiamavano «gli antipodi». Sappiamo che immaginavano l’esistenza, dall’altra parte dell’orizzonte, agli antipodi appunto, di uomini che vivevano rovesciati, coi piedi per aria [ride].

F. B. Credi che scienza e arte siano contigue?

M. I. Abbiamo ereditato l’idea che scienza e arte fossero ambiti opposti di azione disciplinare. Ma osservando da vicino mio padre ho capito che prima di tutto uno scienziato si immagina qualcosa; tutto il gioco delle ipotesi scientifiche è un volo di immaginazione e solo dopo si vive la sfida di provarlo. Io penso che l’arte sia scienza e che la scienza sia davvero arte. Ricordo che a Chicago, dove eravamo in tour, abbiamo visitato una sala con i modellini di grattacieli usati per la prova del vento, in modo da testare la capacità di resistenza degli edifici. E ricordo di aver pensato: «Questo è il teatro». Sì, il teatro è quella micro-sala che contiene in miniatura tutta la realtà: tempo, corpi, spazio, dove si possono provare le idee, una specie di sala di esperimenti. Così provo a fare anch’io. Lo faccio in modo esplicito nel caso di Estado Vegetal (2016) provando a rispondere a come le piante potrebbero narrare o come si possa capire il tempo in modo vegetale. Il teatro lo sento proprio come un laboratorio.

F. B. E qui torniamo a Metamorphoses. Tu lavori sempre su più baricentri, in questo caso è centrale lo sguardo femminista sulla costruzione dei generi, sulla narrazione dei generi, la rilettura femminista dei fondamenti classici della nostra cultura.

M. I. La lettura di genere e della violenza di genere su quel testo è stata una scoperta. Un giorno Michael De Cock, il direttore artistico del KVS di Bruxelles, mi ha proposto di fare una versione de Le Metamorfosi di Ovidio. Un po’ me lo ricordavo e mi sembrava coerente con la mia ricerca sulla frontiera tra umano e non-umano. Ricordavo le storie di esseri che venivano trasformati in alberi o rocce, ma rileggendo il testo ho incontrato tutte queste scene di violenza o di abuso contro donne, ragazze, ninfe. E là mi sono chiesta come si relaziona la frontiera dell’umano e del non-umano con il tema del genere. E quindi mi è parso evidente il concetto di espulsione: parte della costruzione dell’umano e del non-umano ha a che vedere con la necessità di espellere ciò che non si considera umano. E ciò che ci permea è una costruzione tutta eurocentrica: l’umano civilizzato nasce così, tutto il processo coloniale ci dimostra la tensione a costruire un’idea di umano per opposizione. 

In una mia precedente opera, Zoo (2013), provavo ad affrontare la questione degli zoo umani, che sono apparsi in Europa sottoforma di fiere dove venivano esposte persone portate dalle colonie, nel caso del Cile alcuni Selk’nam della Terra del fuoco. Venivano trascinati in Europa per essere messi in mostra. È un momento iconico della cultura europea: nel momento in cui espongo l’altro come un barbaro, un selvaggio, un esotico, un non-umano, riproduco me stesso come civilizzato, moderno, umano appunto. In questo modo il gesto di espellere l’altro è il movimento con cui ci si nomina, ponendoci come discrimine. Da questo punto di vista, molte femministe hanno detto che, come donne, non siamo mai state umane. La considero una definizione splendida.

F. B. Come è possibile a quel punto srotolare una narrazione femminista?

M. I. Qui ritorna la questione della voce: quando quelle donne del libro di Ovidio venivano convertite in mucca o in alberi, si dice che provassero comunque a parlare e nessuno riconosceva la loro voce. Mi è sembrata un’immagine bellissima. E con Diego Noguera, mentre lavoravamo sulla tecnica della voce, mi sono concentrata sulla storia di Filomena: quando le tagliano la lingua, questa continua a parlare da sola. Allora mi sono chiesta: come possiamo, come possono le donne che hanno sofferto ogni tipo di violenza denunciare quello che hanno passato usando la lingua dello stesso carnefice, la lingua della violenza? Uno potrebbe pensare che basterebbe dar voce a quelle donne e lasciare che siano loro a raccontare. In realtà mi è sembrato chiaro che quelle donne non possano usare la stessa voce della storia officiale, c’è bisogno di una nuova lingua. In spagnolo e in italiano la parola “lingua” si riferisce sia al linguaggio che all’organo fisico, per cui questa “lingua” tagliata che parla da sola cosa può raccontare? Quando la donna trasformata in qualcos’altro parla e nessuno la capisce, perché è già un muggito o un rumore, un suono sconosciuto, quello è il solo modo con cui può comunicare il suo dolore e la sua rabbia.

F. B. Questo mi ricorda molte immagini durante le proteste femministe in Cile del 2018, in particolare un giorno dall’Università Cattolica uno sciame di donne sono uscite dalla facoltà a seno nudo, passamontagna in testa con un grido che non sembrava umano, appunto, ma un suono incomprensibile perché era un grido liberatorio.

M. I. Guarda, quest’opera teatrale l’ho lavorata durante la marea femminista cilena. E insegnavo proprio all’Università Cattolica: quelle erano le studentesse del mio corso. E di fatto io ho terminato il mio lavoro là, andandomene via, anche perché ho dovuto difendere quelle ragazze in varie occasioni. Sì, ero profondamente scossa da quello che stava succedendo.

È sempre lo stesso problema, compreso tutto il fenomeno del MeToo: se una donna denuncia una violenza in un sistema che continua ad essere tale, non può che imbattersi in quello che diceva Audre Lorde sul fatto che «gli strumenti del padrone non smonteranno mai la casa del padrone». Se io denuncio un sistema che è stato disegnato e sviluppato dal patriarcato, finisce sempre che viene presa quella tua voce, se ne appropriano per silenziarla un’altra volta ancora. Dunque, è molto forte la domanda: cosa significa alzare la voce? La politica della denuncia funziona? O funziona più la strategia di accumulare forza, della sorellanza invisibile? In Metamorphoses arriva a un certo punto un gruppo di donne e salvano la ragazza, ma a quel punto sta parlando con la sua nuova lingua.

F. B. Questo discrimine tra umano e non-umano, compresa nella sua versione di genere, sembra sempre una frontiera che si muove, che include ed esclude via via col tempo in forme nuove, in base alle necessità simboliche o materiali, di governo o del capitale.

M. I. Certo, perché è una frontiera che si amministra davvero. E si pattuglia costantemente, come tutte le frontiere. Ha poliziotti veri. Nell’opera, Pitagora è un poliziotto. Chissà, forse l’ho pensato così perché mi risuonavano le proteste del mio paese: l’idea del poliziotto che sarebbe là per difenderti, tutti sappiamo almeno in Cile che non è così. Se vedi un poliziotto, corri, diciamo noi. Però questa figura del poliziotto, si lega anche a tutto l’immaginario delle serie stile Netflix, quel catalogo visivo di donne squartate, che si reitera continuamente come un feticcio, qualcosa da mostrare come una minaccia. Realizzando la mia opera teatrale, sempre mi chiedevo come potessi rappresentare la violenza senza cadere nella ripetizione della scena. Siamo immersi nella riproduzione di quel feticcio macabro che sembra un desiderio più che una critica. Ed è una linea molto complessa. Le due attrici ora sono cresciute, ma quando abbiamo debuttato una aveva 13 anni e l’altra 17. Non sono attrici professioniste, le ho scelte dopo un casting aperto a ragazze che avessero la stessa età delle protagoniste nelle storie di Ovidio. E così è stato per un uomo cinquantenne, che è il terzo attore in scena. Dovevamo sentire tutti, fisicamente e visivamente, la potenza di quei fatti. È stato molto complesso lavorare e provare con le due ragazze, senza sottoporle a vivere, seppure nella finzione, quella violenza. Per questo dico che quest’opera è un campo minato.

F. B. Un campo minato e una frontiera pattugliata: forse stanno lì, davanti a noi, perché difendono il diritto di estrarre risorse, in ciò che non è umano, anzi in ciò che non si considera umano.

M. I. Quella frontiera misura, per dirla con Donna Haraway, ciò che è uccidibile e cioè che non lo è. Appena io espello qualcosa dal territorio dell’umano, lo trasformo in qualcosa di sfruttabile, appropriabile. «To make killable», dice. È molto interessante, perché Haraway riconosce che noi esseri umani uccidiamo, ma è più violento far uccidere che uccidere. Uccidere implica una relazione etica, in qualche modo. Rendere qualcuno uccidibile significa che ha una vita che non vale la pena, non ha valore. È il nodo della necropolitica. Non è successo così con la schiavitù o con il regime nazista? O sotto i regimi militari in America Latina? E succede anche in altri modi. È un tema, ad esempio, che ho affrontato in un’opera, Cómo convertirse en piedra (2021): mi riferisco alle zone di sacrificio, che ci sono anche in Cile. Sono territori sfruttati dall’industria per estrarre risorse a qualunque costo, con alla base una sorta di accordo politico-sociale per cui quel territorio sarà sacrificato, sarà sventrato e distrutto. È l’amministrazione dell’annientamento. Il pattugliamento della frontiera umano – non umano ha proprio che fare con questo.

F. B. Sempre nel tuo paese, il Cile, negli ultimi anni sono successe tante cose. La marea femminista è diventata una protesta di popolo, il processo costituente partito con entusiasmo è finito bocciato al referendum, un presidente giovane e radicale, e ora la ultradestra primo partito che può persino riscrivere la Costituzione. Sembra una saga teatrale lunga cinque anni.

M. I. Devo confessare che sono stata scettica fin dall’inizio. Neanch’io ero consapevole, non capivo, anzi la realtà ha superato la peggiore delle ipotesi, ma quando il mondo politico ha preso in mano il reclamo di quel movimento popolare, beh c’era qualcosa che sembrava nato male e maneggiato male. C’erano troppe questioni lasciate in sospeso, come quella della violenza. Cose che all’inizio ci siamo dimenticati tutti nell’euforia degli eventi. Ora, cosa si potesse fare diversamente non so, vista la situazione. Ma quest’onda di estrema destra diventata popolare, cosa farà? Mi chiedo che Costituzione scriverà. In realtà mi sembra di vedere qualcuno che agita quella «lingua tagliata» di cui parlavamo. Forse l’hanno fatta parlare troppo presto.

ARTICOLO n. 93 / 2024