ARTICOLO n. 74 / 2022
MEDITAZIONE, TRA FILOSOFIA E CULTURA OCCIDENTALE
Quando si parla di meditazione il nostro sguardo volge inevitabilmente a Oriente. Non è un errore, perché questa tecnica trova le sue più antiche testimonianze in India, è più viva nelle società asiatiche e le sue più intricate ed esaustive tassonomie sono spesso opera dei vari buddismi. Il primato orientale è indiscutibile. Ciononostante anche la storia della filosofia e della religione occidentale ha un’antica tradizione contemplativa, adombrata non per modestia – dote rara qui come altrove – ma per una progressiva messa a silenzio di questo percorso, apparentemente lontano dalla scienza, poco ortodosso per i culti organizzati, e, almeno nelle sue declinazioni più genuine, poco integrabile in una società neoliberale. Se in Oriente il valore di chi intraprende la via mistica è riconosciuto e, per via dei troppi sedicenti illuminati, talvolta pedantemente istituzionalizzato, l’Europa sembra apprezzare i suoi ribelli ontologici solo quando la loro rivoluzione si è cristallizzata in un canone. Chi decide di morire al mondo deve aspettarsi ostilità o condanne di eresia – bene che vada derisione e motteggio, a meno che non abbia abbastanza talento e carisma da fondare una chiesa o ritagliarsi un ruolo in una già esistente. Eppure anche la nostra cultura è ben nutrita da quel che un manipolo di esploratori ed esploratrici dell’ineffabile hanno estratto dal cieco infinito che ci circonda.
Come ha ben evidenziato Pierre Hadot nel suo Esercizi spirituali e filosofia antica, la visione greca della filosofia era più vicina a quella dell’Oriente che alla nostra, in quanto non si trattava di un’esplorazione intellettuale fine a se stessa ma di una pratica di vita – anzi, una profonda cura esistenziale. Scrive Hadot:
Tutte le scuole concordano nell’ammettere che l’uomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che l’uomo possa essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi, raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa educazione di sé, a questa παιδεία, che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma conforme alla natura dell’uomo, che non è altro che la ragione.
Come ha avuto modo di raccontare Daniele Capuano in una recente conferenza sull’esicasmo (ci torneremo), la visione greca di peccato, accolta poi da quasi tutti i popoli slavi, è più legata al concetto di malattia che a quello giuridico latino di colpa. Il peccato non è dunque un male morale, ma un errore, un ostacolo al proprio percorso di guarigione e perfezionamento. Sin dall’antichità più profonda è lecito supporre che la filosofia fosse un percorso che veniva affiancato da pratiche contemplative che presentano non poche somiglianze con quelle orientali – nei secoli però qualcosa si è rotto e la meditazione occidentale è diventata una pratica esoterica, rivolta a pochi, insegnata di persona o, nei rari testi, con complesse cifrature. Con una certa semplificazione si potrebbe dire che laddove in Oriente l’atteggiamento ecumenico è legato principalmente ai metodi meditativi, qua si è legato più alle condotte etiche che li favoriscono. Per riprendere la controversa tesi del filosofo Karl Jaspers, anche in Occidente il periodo assiale non è passato senza i suoi contemplativi – se si prende per buona l’idea di una straordinaria intensità intellettuale e spirituale del periodo compreso tra l’800 a.C. e il 200 a.C., che il filosofo propone in Origine e senso della storia. Come racconta Jaspers, in Oriente «vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia». In Occidente, oltre ai profeti zoroastriani ed ebraici del Medioriente, lo sviluppo culturale avvenne in Grecia, che vide Omero, Pitagora, Parmenide, Eraclito e Platone, autori che in genere non vengono associati alla meditazione. Come suggerisce Javier Alvarado Planas nel suo History of non-dual meditation methods però, ci sono tracce di tecniche meditative già tra i presocratici. Sui pitagorici ad esempio, sappiamo grazie ad alcuni testi di Numenio e Plotino che venivano praticati alcuni esercizi di concentrazione e meditazione che consistevano nella ripetizione di monosillabi a cui veniva attribuita una qualche natura magica o taumaturgica – in particolare le parole greche on (essenza o esistenza) e hen (unità). Grazie all’eredità orfica inoltre, si sa che i Pitagorici praticavano la meditazione coordinata con la respirazione (una tecnica che in Occidente ci porta all’esicasmo e in Oriente… be’, praticamente ovunque). Anche Platone, nel Fedone, allude a una tecnica per purificare i pensieri che dice essere ripresa da un’antica tradizione: «così che la trasmigrazione, che ora a me viene imposta, avviene con buona speranza anche per chiunque altro creda di essersi predisposto al pensiero attraverso la purificazione. […] E non accade dunque questo, che vi sia purificazione, come da tempo teorizzano, quando si tenga l’anima il più possibile separata dal corpo e la si abitui a raccogliersi e a rinchiudersi in se stessa al di fuori della corporeità, e a farla dimorare per quanto è possibile nel presente e nel futuro, [67d] sola con se stessa, libera ormai dal corpo, come dalle catene?». E ancora, «Coloro che hanno istituito le iniziazioni mistiche non corrono certo il pericolo di essere reputati degli sciocchi, ma da parecchio tempo in realtà hanno fatto comprendere con enigmi che, chi giunge nell’Ade senza essere iniziato ai misteri né compiuto la sua purificazione, giacerà nel fango, mentre colui che vi giungerà purificato e iniziato, vivrà insieme agli dèi (69c)». Sembra evidente l’esistenza sottotesto di tecniche che, a chi conosce qualche rudimento di meditazione vipassana, la ricordano molto: osservazione distaccata degli stati corporali, osservazione dell’osservatore, preparazione alla morte. Scrive il filosofo, sempre nel Fedone, che «se essa [l’anima] si distacca pura dal corpo e nulla del corpo si trae dietro, perché in vita, per quanto stava in lei, non volle averci nulla di comune, ma rifuggendolo se ne stava sempre concentrata in se stessa, poiché di questo sempre si curò, e questo altro non è se non filosofare veramente e [81a] rettamente prepararsi a morire con serenità: quindi, non è forse questa una vera preparazione della morte?».
Per avere tracce più evidenti di meditazione occidentale bisogna arrivare a Pirrone (365 a.C. – 275 a.C. circa), il filosofo scettico che seguì Alessandro Magno nelle sue conquiste ed ebbe modo di conoscere i “gymnosofisti” indiani. Già il termine pare alludere in modo inequivocabile a un arcaico corpus di tecniche yogiche e in effetti sappiamo che il padre dello scetticismo conobbe alcune pratiche ascetiche indiane e le importò in patria – così come siamo al corrente delle notevoli somiglianze della sua filosofia con il buddismo delle origini. Se si studia quel che sappiamo di questo prezioso filosofo si può persino arrivare a definirlo “il Buddha greco”, come ha fatto Christopher Beckwitt nell’omonimo libro. Scrive Beckwitt:
Per Pirrone gli uomini vogliono conoscere la Verità ultima, assoluta, ma si tratta di una categoria metafisica o ontologica che sono proprio gli uomini ad aver creato e proiettato sul mondo. Le persone sostengono che il nostro compito è quello di apprendere la verità assoluta e perfetta, e di comprenderla come se esistesse davvero. Tuttavia tali categorie non possono esistere senza gli esseri umani, come viene sottolineato nell’insegnamento del Buddha sull’anātman i Dharma non hanno identità intrinseca, e la medesima cosa si trova in Pirrone, nell’adiafora.
Se si scavalla il periodo assiale e si arriva fino allo stoicismo troveremo dei resoconti più approfonditi delle pratiche meditative, soprattutto nei testi di Epitteto e Marco Aurelio (primo e secondo secolo d.C). Per gli stoici la filosofia doveva portare a una conoscenza teorica e pratica atta a raggiungere uno stato di pace che viene descritto come “tranquillità spirituale” (atarassia), “libertà interiore” (autarkeia), “libertà dalle passioni” (apatheia). Per farlo lo stoicismo eredita e adatta dal passato vari esercizi ascetici, un termine che non dobbiamo associare all’idea di astinenza o rinuncia, ma più a quella di esercizio, data la sua etimologia (askēsis) legata all’addestramento militare. Sebbene si abbiano ottime e dettagliate testimonianze della filosofia stoica, non è facile ricostruire quali fossero i suoi esercizi spirituali e solo grazie a Filone di Alessandria ne conosciamo alcuni. La pratica inizia con lo studio di un argomento (zetesis), la sua analisi approfondita (skepsis), la lettura e l’ascolto (akroasis). Tutto questo ha come fine la coltivazione di un’attenzione persistente (prosoche) che sviluppi l’autocontrollo (enkrateia) e l’indifferenza ai continui stimoli del mondo. È facile notare che la meditazione di carattere riflessivo fosse una delle pratiche più in voga nello stoicismo; gli stoici erano bravissimi nell’analizzare un argomento nel dettaglio, come si evince dai titoli dei trattati di Plutarco o Seneca: Sul controllo dell’ira, Sulla tranquillità dell’animo, Sull’amore fraterno, Sull’amore parentale, Sulla loquacità, Sulla curiosità, Sull’amore per la ricchezza, Sull’accondiscendenza, Sull’invidia e sull’odio, Sull’ira, Sulla brevità della vita…
Un passaggio di Marco Aurelio offre un ulteriore spunto; per il filosofo-imperatore, lo stoico deve «fornire sempre la definizione o descrizione dell’oggetto che cade sotto i nostri occhi, sì da poterlo vedere qual è nella sostanza, in sé e per sé, tutto intero e separatamente in tutte le sue parti; e dire a sé stessi il suo nome particolare e i nomi di quegli elementi di cui è costituito e in cui si dissolverà», (Colloqui con sé stesso, Marco Aurelio, III, 11).
Questo metodo di analisi, osservazione e dissoluzione ricorda, al netto di ovvie differenze, la pratica del buddismo Madhyamaka attraverso cui gli oggetti del mondo vengono analizzati e riscoperti nella loro intrinseca insostanzialità.
Andando avanti nel tempo, incontriamo assieme al primo cristianesimo il filosofo Plotino e la scuola neoplatonica (Licopoli, 203/205 – Campania, 270), che nelle sue Enneadi ci ha fornito dettagliati resoconti filosofici di pratiche contemplative ed esperienze mistiche. Per il filosofo quello dell’uomo «Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all’altra; né devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose, e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare la tua vista con un’altra, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano.» (En. I, 6, 8). Che fare dunque? «Bisogna quindi, se deve esserci apprensione di quanto è in questo modo presente nell’anima, che anche la nostra facoltà di apprensione sia rivolta verso l’interno, e là deve essere volta la sua attenzione. Come quando qualcuno, attendendo di udire una voce desiderata, allontanatosi dagli altri suoni, risveglia l’udito a quel suono che è il migliore ad udirsi, quando giunga: così anche quaggiù bisogna lasciar andare i suoni percepibili coi sensi, tranne che per il necessario, e custodire la facoltà di apprendere dell’anima pura, pronta ad ascoltare le voci di lassù» (En. V, 1, 12).
Il cristianesimo com’è immaginabile meriterebbe un approfondimento a parte, data la grande varietà di metodi contemplativi che si sono accavallati durante la sua lunga storia, ma a titolo di esempio citerei l’esicasmo, le cui caratteristiche sono più facilmente riconducibili alle pratiche contemplative occidentali di cui ho parlato finora. Si tratta di una prassi improntata alla ricerca della perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la preghiera incessante. La forma più celebre della preghiera esicasta è la “preghiera di Gesù”, che consiste nell’invocazione continua: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore». Si recita facendo scorrere una corda con nodi e ripetendo a ogni nodo l’invocazione, ma i dettagli di questa complessa tecnica vengono impartiti solo di persona da un adeguato maestro. In Occidente una testimonianza di questa pratica è nei Racconti di un pellegrino russo, trascrizione di un testo anonimo del monte Athos, curata dall’abate Paissy (1860). Come raccontava il sopracitato Daniele Capuano nella sua conferenza, nell’esicasmo si ritrova la tripartizione dell’anima umana di origine platonica in epithymetikon, parte desiderante (ventre e genitali, fame, attaccamento alle cose), thymikon (cuore-petto, difesa delle proprietà, zelo) e logikon (testa, pensiero). Le malattie di queste tre parti fondamentali dell’umano sono gastrimargia, philargyria e kenodoxia(gola, avidità e vanagloria), le cui cure consistono rispettivamente nell’enkrateia, agape e gnosis (dominio di sé, amore e conoscenza spirituale). La via spirituale è anch’essa triplice, ma non per questo divisa in tappe, dato che questi i momenti – o meglio movimenti – si alternano e accavallano a ogni passo. Si tratta della katharsis(o via purgativa), che consiste nel discernimento e distacco dalle passioni, nella theoria (o via illuminativa), ovvero la contemplazione discriminante del mondo, e infine nella theosis, la via unitiva di deificazione e riassorbimento nell’Uno. Un affascinante parallelo con l’Oriente è il modo in cui l’esicasmo, pur nella cornice cristiana, considera i pensieri, ovvero per lo più come suggestioni demoniache o ispirazioni angeliche. Anche in questa dottrina noi non pensiamo, ma siamo pensati, e ascoltare quel che attraversa la mente con distacco ed equanimità può aiutarci a valutarne la portata e l’importanza, oltre che riavvicinarsi allo sfondo del pensiero, il non pensabile Uno.
La rapida scivolata tra i millenni che ho qui proposto evidenzia come la meditazione sia una ricchezza trasversale alla geografia e alla storia umana, e che, pur con sensibili differenze in base al contesto culturale di riferimento, le tecniche per accedere a stati altri di coscienza siano un patrimonio comune dell’umanità, che sarebbe superficiale trattare sia come segreti esotici che come ciarpame di altri mondi.