ARTICOLO n. 40 / 2022

MEDITAZIONE

Breve guida per occidentali

La meditazione è arrivata in Occidente. Nei quartieri delle principali metropoli i centri yoga sono frequenti come supermercati, la mindfulness si è infiltrata negli studi medici, nelle start-up, nei corsi di aggiornamento aziendali, gli ospedali, le pratiche psicologiche, i corsi online – e ancora, le app, centinaia di app, con corsi, timer, campane tibetane. I social rigurgitano foto di donne e uomini snelli, in forma, felici, in più o meno corrette posizioni del loto – e le dirette Instagram, i profili di mindful-tizio-e-caio, le tisane dedicate a specifiche pratiche, gli articoli «sono stato dieci giorni in un ritiro Vipassana ed ecco cosa mi è successo», i libri, manuali, albi illustrati, saggi, articoli accademici, ricerche scientifiche, corsi di laurea, poster, tappetini, tazze, magneti. Non posso dire di esserne stufo, perché ho contribuito anch’io all’invasione, con seminari e articoli come questo – mi limito dunque a prenderne atto, in accordo con il tema in oggetto. Osservo il fenomeno e come consigliano alcune tecniche proprie alla meditazione buddista («Tu che tipo di meditazione pratichi?» Tutto a suo tempo) cerco di non giudicarlo. Osservo, ma il pensiero della meditazione in occidente è ormai scomparso; sono in un bar, all’aperto, sento le mie gambe inclinate sul lato destro, la schiena appesantita da una stortura innaturale (mi raddrizzo), ora sento la fronte, è ovattata dalla prima afa primaverile, le dita, picchetto sulla tastiera del portatile, l’odore di ossido di carbonio, è passata un’automobile. Scrivo, e mentre lo faccio non posso nascondermi dietro l’equanimità, perché chiunque usa il linguaggio accetta implicitamente di dividere il mondo con le parole. Posso dunque esprimere un’opinione sull’arrivo (anzi il ritorno) della meditazione: è un bene o un male? Come spesso capita, entrambe le cose.

È stato più volte fatto notare che la società neoliberale ha un modo tutto suo di assimilare gli elementi che meno si adattano al suo impianto ideologico; qualunque cosa passi attraverso il suo filtro risulta inevitabilmente contaminata. A volte il messaggio riesce a sopravvivere senza eccessive distorsioni, mentre in alcuni casi viene snaturato fino agli estremi più grotteschi, come nel caso della «cabina della meditazione» per i magazzini degli sfruttatissimi dipendenti Amazon: un congegno così simile – anche moralmente – alle cabine per il suicidio di Futurama da essere stato subito ritirato e insabbiato. Ciononostante il ritorno della meditazione in Occidente continua a sembrarmi una buona notizia, perché considero queste pratiche così preziose per la liberazione individuale e collettiva da continuare a credere (o sperare) che i vantaggi sopravanzino i difetti.

Uno dei contraccolpi della rapida commercializzazione di queste prassi è l’appiattimento delle loro differenze e dei contesti culturali di appartenenza, che ha sancito un’apparente vittoria della filosofia perenne di Huxley – e non solo sua, dato che solo nel ventesimo secolo era promossa da autori quali René Guénon, Ananda Coomaraswamy ed Elémire Zolla. La tesi in sostanza è che esista il medesimo nucleo di verità in tutta la storia della filosofia e delle religioni, associabile all’incirca al misticismo, ovvero l’idea che la massima tendenza spirituale dell’uomo sia l’unione con l’assoluto, mediante il superamento dei limiti dell’esperienza sensibile e l’annullamento della personalità individuale. In effetti le somiglianze di alcune idee di mistici e mistiche delle epoche e tradizioni più disparate – compreso il comune sentire che queste «idee» siano inesprimibili attraverso il linguaggio – suggeriscono che la filosofia perenne abbia colto nel segno, come sembrano avvalorare anche le vistose analogie delle tecniche meditative di tutto il mondo. Col tempo però l’interesse verso questa materia ha portato a studi più approfonditi, il cui esito è che le somiglianze non giustificano l’assimilazione, date le notevoli divergenze anche solo all’interno della sola «esperienza mistica».

Così come formiche che giudichiamo identiche risultano diverse allo sguardo di un entomologo, più si osservano le differenti tecniche e tradizioni meditative più si scoprirà una varietà a prima vista poco evidente. Questo ci riporta alla domanda che si rivolge spesso a chi medita: che tipo di meditazione pratichi? Rispondere non è facile, perché a fare la differenza non è tanto la tecnica, quanto il contesto culturale e filosofico in cui questa si inserisce. In Occidente ad esempio è molto diffusa la mindfulness, una pratica ideata dal biologo e scrittore Jon Kabat-Zinn attorno agli anni novanta e da allora adottata in vari contesti terapeutici; questo metodo ha molti punti in comune col buddismo da cui si ispira, ma se ne allontana nel contenuto filosofico, che viene per così dire diluito e adattato per trasformare la meditazione in un dispositivo medico. Un percorso simile è accaduto alla meditazione trascendentale, fondata e divulgata da Maharishi Mahesh Yogi; anche questa prassi ha perso gran parte del messaggio del contesto culturale da cui trae le origini, quello del filosofo indiano Śaṃkara (788? – 820?), fondatore della celebre scuola dell’Advaita Vedānta. Queste semplificazioni sono state utili a rendere più digeribili agli occidentali delle prassi erroneamente considerate aliene dalla nostra cultura, ma il contrappasso è stato spesso l’impoverimento dell’impianto filosofico in cui chi medita andrà a inscrivere le proprie esperienze – con questo non intendo dire che esista una giusta filosofia della meditazione, ma che quest’ultima non possa prescindere da un contesto culturale. Persino in esperienze in apparenza esclusivamente farmacologiche come l’uso di sostanze psichedeliche si sottolinea l’importanza del setting e al netto della natura non duale di alcune profonde esperienze meditative e psichedeliche, al momento del ritorno al mondo ordinario queste vengono sempre affrontate con gli strumenti culturali di chi le ha vissute. L’idea che la meditazione possa distaccarsi dalla sua tradizione di riferimento è stata più volte oggetto di critica e Carl Gustav Jung ammoniva già nel 1932: «Dico a quanti più posso: “Studiate lo yoga; vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?». Il secolo trascorso sembra avergli dato torto, ma ancora oggi molte persone considerano rischioso scollegare queste prassi dalla loro tradizione di riferimento. Scrive Raffaella Arrobbio in La meditazione tra essere e benessere: «Alcuni sperano di risolvere difficoltà emotive e psicologiche percorrendo la strada della meditazione laica di derivazione buddhista, ma questo è impossibile: alla pratica della meditazione (che sia tradizionale o moderna) si può accedere proficuamente soltanto a partire da una base di maturazione psicologica sufficiente a impedire il sorgere di ostacoli, talora anche gravi, che bloccherebbero o devierebbero il percorso conducendo la mente del praticante a sperimentare condizioni di insopportabili sofferenze». L’importanza del contesto culturale ed epistemologico nel caratterizzare la natura di un’esperienza meditativa col tempo ha visto studi approfonditi, come ad esempio Philosophy of Mysticism di Richard H. Jones, ma possiamo permetterci una concessione alla filosofia perenne per quel che riguarda le tecniche meditative. Se è infatti azzardato assimilare una mistica cristiana del Cinquecento a un bodhisattva tibetano, è possibile tracciare alcune somiglianze di famiglia tra le principali tecniche meditative utilizzate in Oriente e in Occidente. A tale proposito ha svolto un lavoro prezioso Claudio Lamparelli nel suo Tecniche della meditazione Orientale, così come nel complementare ma purtroppo fuori commercio Tecniche della meditazione Occidentale. Anche il filosofo della scienza Michel Bitbol, in Cambiare stato di coscienza, traduzione italiana di parte del ponderoso La conscience a-t-elle une origine?, ha proposto un’interessante tassonomia delle tecniche meditative, ed è anche attraverso il loro lavoro che ne propongo una mia versione – eternamente provvisoria, dati i limiti della mia ignoranza e l’impossibilità di avere una visione d’insieme di tutte le principali tradizioni filosofiche e religiose del mondo.

Dividiamo dunque le principali tecniche meditative in tre gruppi, da non intendersi come mutualmente escludenti ma che si alternano nella medesima tradizione come anche all’interno di una singola sessione, in base allo stato psicofisico di chi medita. Questi tre insiemi sono le tecniche basate sulla concentrazione e la ripetizione, quelle basate sulla contemplazione e l’osservazione equanime e quelle basate sulla riflessione.

Per concentrazione e ripetizione intendo tutte quelle tecniche il cui asse è essenzialmente la concentrazione su un atto ripetitivo – il più celebre è il respiro, in quanto naturale e incessante, che sia l’aria che entra ed esce dalle narici, il lieve movimento dello stomaco, la pausa vuota tra inspirazione ed espirazione. La concentrazione sulla respirazione è quasi una costante in tutta la meditazione di matrice induista e buddista, ma si ritrova anche nella preghiera del cuore ortodossa, in cui il respiro viene sincronizzato alla recitazione mentale di una preghiera, fino a renderla virtualmente incessante. Ho parlato di preghiera, ma può ben trattarsi dei più o meno complessi mantra tipici del buddismo tibetano, che possono essere vocali o (più spesso) mentali, legati alle fasi della respirazione (come ham-inspiro sa-espiro) o autonomi, come nel caso del «nam myōhō renge kyō» della scuola buddista giapponese Soka Gakkai. Altri oggetti di concentrazione possono essere le sensazioni corporee legate alla posizione che si assume per meditare, o parti specifiche del corpo, come un punto in mezzo alle sopracciglia. Si può anche usare uno o più chakra, i sette (ma arrivano fino a undici) snodi mistici situati in vari punti del corpo, come il plesso sacrale, l’ombelico, il diaframma, il cuore, la gola, tra le sopracciglia e sopra la testa. I chakra vengono spesso percorsi in moto ascendente e discendente e sono uno strumento utile anche per sistemare la propria posizione e calibrare il respiro. Inoltre hanno un forte impatto simbolico e aiutano a tenere presente le varie tappe del processo meditativo. Questi glifi possono essere visualizzati come semplici punti luminosi o come diagrammi più o meno complessi, il che ci porta a un altro tipico oggetto della concentrazione, le visualizzazioni, che possono rappresentare un po’ qualunque cosa, come mandala, chakra o divinità, e che in base alla tradizione di riferimento possono essere anche estremamente complesse, come i mandala propri dell’induismo e del buddismo – densi cosmogrammi la cui decompressione presenta a chi medita una variegata mole di elementi dottrinali e filosofici.

Come scrive Michel Bitbol, «la pratica meditativa di base, quella per stabilizzare l’attenzione, ha come principio cardine la concentrazione su un singolo oggetto costante. Può trattarsi di qualcosa di visibile, di un oggetto immaginario o di un ricordo i cui dettagli si delineano gradualmente, di una frase ripetuta a oltranza, ma più spesso un tema corporeo propriocettivo, come le auto-sensazioni che si accompagnano agli equilibri muscolo-scheletrici della posizione seduta o il flusso alterno del respiro. Quest’ultimo metodo risale (come minimo) al Buddha storico, Siddhārtha Gautama, il quale lo descrive ai suoi più stretti discepoli in modo semplice: «Richiamando tutta la propria vigilanza, egli inspira sapendo che inspira, ed espira sapendo che espira». Tale metodo è stato anticipato o integrato dai sofisticati metodi di controllo del respiro utilizzati dallo Yoga (detti Prānāyāma in sanscrito), ed è stato scoperto, o riscoperto, da molte altre tradizioni spirituali, in particolare cristiane. Così, la preghiera del cuore ortodossa si fonda sul ritmo del respiro, accuratamente sincronizzato alla recitazione cadenzata di una formula sacra. La recitazione è, in questo caso, uno strumento complementare di raccoglimento, simile ai metodi di ripetizione dei mantra cui ricorrono l’induismo e il buddismo per costringere la mente discorsiva alla concentrazione estrema, fino a deviare la sua naturale tendenza, incline alla significazione». Un altro oggetto di concentrazione, comune alla tradizione musulmana Sufi e al metodo di Gurdjieff, che l’ha mutuata proprio dai Sufi, è la danza o alcuni movimenti ripetitivi del corpo – penso qui anche alla tradizione del kundalini yoga.

Il gruppo che ho definito contemplazione e osservazione equanime è molto comune nel buddismo e consiste essenzialmente nel prestare una continua attenzione al flusso di coscienza di sensazioni e pensieri che contraddistingue lo stato di veglia: emozioni, propriocezioni, percezioni, pensieri più o meno verbali. Questi vengono osservati nel loro veloce emergere alla coscienza per poi inabissarsi ed essere sostituiti da altri, senza che chi medita forzi in alcun modo il processo, limitandosi a osservare, e, in una fase successiva, cercando di astenersi da ogni giudizio di valore su di essi. In questa pratica si percepisce il martellante frazionamento della coscienza fino a infiltrarsi negli spazi sempre meno brevi tra un elemento cosciente e l’altro. È una tecnica anche nota come Vipassana e viene introdotta o intrecciata ai metodi citati in precedenza. Come si legge in The Cambridge handbook of counsciousness a cura di Philip David Zelazo, Morris Moscovitch e Evan Thompson, «per quel che riguarda la sonnolenza, i metodi per contrastarla sono spesso legati a quelli che contrastano la sovreccitazione. Per esempio, così come si può contrastare l’eccitazione meditando in una stanza poco illuminata, si può contrastare l’apatia meditando in un ambiente luminoso. Allo stesso modo aggiungere tensione al corpo o intensità a un oggetto visualizzato può contrastare la sonnolenza. Per i meditatori avanzati, molti degli “antidoti” menzionati qui sono troppo grossolani, e porterebbero ad una correzione eccessiva nella meditazione. Per questi praticanti, il livello di sonnolenza o di sovreccitazione che incontrano viene corretto da aggiustamenti altrettanto lievi alla chiarezza (per la sonnolenza) o alla stabilità (per l’eccitazione)». I due principali nemici della meditazione sono infatti stanchezza e ansia: lavorare sulla concentrazione aiuta a combattere il sonno, mentre la contemplazione aiuta a contrastare l’iperattività mentale, di conseguenza capita alternarli in base al proprio stato psicofisico. Come scrive Bitbol, questa pratica serve a sviluppare una «capacità di dimorare in modo così preciso nell’esperienza presente da riuscire a discernere la sua fine granularità prima che inneschi l’impulso di desiderio-repulsione tipico della percezione, e prima che venga elaborata dalle generalizzazioni e dalle antinomie dell’intelletto». Ultimo passaggio, più complesso, la pura consapevolezza della propria consapevolezza: un ulteriore salto di meta- rispetto alla meta-percezione descritta in precedenza.

Infine, la riflessione è una macrocategoria che include in sé elementi molto vari, poiché in base alla tradizione di riferimento si richiede di meditare (qui la parola assume il suo senso occidentale) su idee molto diverse. Chi pratica una meditazione buddista si dedicherà a concetti diversi da chi, poniamo, pratica una meditazione cristiana o chi riflette su un koan zen; cionostante si può trovare alcuni elementi ricorrenti, come la meditazione sulla morte, che nella tradizione tibetana si spinge letteralmente all’immaginarsi come un cadavere, mentre in quella cristiana si limita a interrogarsi sulla vanità dell’esistenza mondana. Un tratto comune è che, come il respiro nella meditazione da concentrazione, anche queste riflessioni sono solo un supporto, da abbandonare una volta raggiunto il loro intento di destabilizzare le abitudini mentali e rallentare fino a svuotare il proprio flusso di coscienza.

A questi tre filoni andrebbe aggiunto un paragrafo – se non un articolo – relativo alla posizioni da adottare durante la meditazione. A dire il vero si può meditare in qualunque postura e momento, seduti sulla poltrona del dentista come nella posizione del loto in un tempio induista, ma per le sessioni quotidiane si preferisce adottare una posizione specifica. Sempre nel The Cambridge handbook of counsciousness si legge che «I vari stili di meditazione tibetana prevedono posture diverse, ma nel contesto dello sviluppo dell’attenzione Focalizzata [la nostra concentrazione], la regola generale è che la spina dorsale deve essere mantenuta dritta e che il resto del corpo non deve essere né troppo teso né troppo rilassato». In effetti l’ingrediente per la giusta posizione è semplice: non deve essere né scomoda, o il dolore distrae chi medita (e crea danni fisici), né troppo comoda, o ci si addormenta. È per questo che è sconsigliata la meditazione da sdraiati, per lo meno per chi non ha molta esperienza, e in genere si preferisce una posizione comoda che mantenga la schiena dritta, come il loto, il mezzo loto, la posizione birmana, lo sgabello giapponese o anche una banale sedia senza schienale.

Mi accorgo in ritardo di aver dato per scontato qualcosa che non lo è affatto, ovvero cosa dovrebbe spingerci a meditare; dopotutto anche per chi ha un approccio laico si tratta di un impegno non indifferente. Un orecchio materialista vorrà una lista di vantaggi concreti, che in effetti non mancano, dal miglioramento della reazione immunitaria ai benefici alla circolazione sanguigna, fino alla migliore gestione delle emozioni, dell’ansia, degli stress e delle delusioni quotidiane, una maggiore plasticità cerebrale e capacità nel gestire il dolore e gli imprevisti. A leggere alcuni trattati tradizionali come lo Yoga Sutra, questo è ben poca roba rispetto ai superpoteri che garantisce la giusta prassi – come volare, leggere nella mente, diventare invisibile eccetera, ma anche queste capacità (siddhi) sono solo effetti collaterali dell’unica cosa che conta, la liberazione. Anzi, anche quest’ultima deve smettere di essere una meta, se vogliamo raggiungerla – il che offre una curiosa risposta alla domanda perché meditare: per nessun motivo. La meditazione è un percorso complesso, faticoso, pieno di incomparabili doni ma anche di prove e inciampi talvolta molto dolorosi. Sperare che un mezzo verso la liberazione da qualunque cosa sia privo di effetti collaterali sarebbe ingenuo e in questo è bene ascoltare Buddha, o anche Gesù: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».


Classificazione delle principali tecniche meditative:

1. Concentrazione / ripetizione
(Rintracciabili soprattutto nell’Induismo, Vedanta, Tantra, Buddismo, Zen, Cristianesimo, Islam, Ebraismo)

Mantra
Preghiera
Respiro / sensazione corporea
Visualizzazioni (più o meno devozionali)
Gesti/danze
Chakra

2. Contemplazione aperta / Osservazione senza giudizio
(Rintracciabili soprattutto nel Buddismo, Zen, Taoismo)

Sensazioni fisiche
Emozioni
Pensieri
Atti (camminare, mangiare, lavoro artigianale e artistico, ecc.)
Focalizzazione sull’io percipiente

3. Riflessione
(Proprio a tutte le tradizioni)

Contenuti devozionali (meditazioni o preghiere verso divinità o santi, ecc.)
Meditazione sulla morte
Compassione
Meditazione su contenuti filosofici/dottrinali

(Queste fasi si possono alternare anche all’interno della medesima sessione, non hanno una cadenza progressiva.)

ARTICOLO n. 93 / 2024