ARTICOLO n. 76 / 2021
MANGA
Istruzioni sentimentali per l'uso
1986, Milano. Giardino di una scuola d’infanzia. Intervallo.
«A cosa giochiamo?» chiede la bambina con i capelli corti.
«Strega comanda color?» propone quella con le scarpette di vernice.
«Giochiamo a fare le torte di sabbia? Possiamo decorarle con le margherite o con i fiori gialli» dice quella minuta con gli occhiali di plastica rosa.
«Perché non giochiamo a Occhi di gatto?» L’idea è della bambina con la coda di cavallo.
Scarpette di vernice e occhiali rosa si entusiasmano, discutono: «Io faccio Sheila.» «No io, tu puoi fare la più piccola, Tati.» «Ma non mi piace la cintura arancione, voglio quella gialla.» «Domani portiamo tutte una sciarpa, tu portala azzurra così fai Kelly. Poi dobbiamo anche scegliere cosa rubare.»
La bambina con i capelli corti non si è ancora fatta avanti, finalmente trova il coraggio di chiedere: «Come si gioca a Occhi di gatto?»
Le altre bambine si scambiano sguardi interrogativi, impietositi, scocciati.
«Ah già che tu non hai la tv.»
La tv, la bambina con i capelli corti ce l’ha ma i genitori non gliela lasciano guardare mai. Non sa niente di Kelly, fasce colorate, gatti e ladri, e le altre giocano senza di lei.
1987, Milano. Salotto di una casa in via Ripamonti.
La bambina con i capelli corti ha finito di pranzare dalla nonna e fra poco andrà al corso di pattinaggio sul ghiaccio. Il freddo non le piace, pattinare invece sì. Però è sempre difficile lasciare il divano caldo per la pista gelida, le maestre severe e il ghiaccio duro quando si cade. E lo è ancora di più da quando la nonna le permette – violando il divieto tv – di guardare quindici minuti di cartoni animati mentre lei si prepara. La nonna è sempre elegante, anche quando la aspetta un intero pomeriggio sugli spalti scomodi del palazzetto.
Sullo schermo compare un treno che viaggia nella galassia, una donna vestita di nero, lunghi capelli biondi, l’aria triste, enigmatica, un ragazzino orfano e un controllore senza volto. La bambina con i capelli corti non capisce molto della trama, ma quello che sta vedendo la cattura, è un piacere strano, paura vissuta al sicuro.
«Dai, non possiamo fare tardi» dice la nonna.
Deve spegnere.
Ogni volta, dopo soli quindici minuti abbandona quei pianeti sinistri, mortiferi, desolati prima di sapere se e chi si salverà. Non vedrà mai una puntata dall’inizio alla fine, eppure quel tempo insieme alla donna bionda e al bambino orfano nello spazio è un piacere irrinunciabile.
1992, Milano. Vie del centro.
La bambina con i capelli corti è quasi una ragazzina. Sta andando al cinema con il padre: ancora niente tv, ma tre pomeriggi al mese sono dedicati al grande schermo. Il padre questa volta ha scelto un cartone animato. Lei è diffidente, lo conosce, non è un tipo da Disney. E infatti quando arrivano davanti alla sala la locandina che li accoglie non ha nulla di infantile: un motociclista di spalle, vestito di rosso, si dirige verso una moto dello stesso colore. Il suolo è bianco, spaccato in un punto. Akira, il titolo, è scritto in solide lettere maiuscole. «È un film di animazione giapponese, non un cartone per bambini» le dice.
Lei è cresciuta, certo, ma forse non abbastanza: immagini di una città postatomica, guerra fra bande, ribellioni, un bambino dalla pelle azzurrognola e rugosa, ritmi primitivi, sintetizzatori, un arto meccanico, un corpo umano che si trasforma in qualcosa di mostruoso la affliggeranno nei sogni, mentre fa colazione o cammina per andare a scuola.
In Italia la diffusione della cultura pop giapponese ha avuto inizio attraverso il piccolo schermo e questi sono i miei primi tre ricordi che la riguardano: la bambina con i capelli corti sono io. Ho cominciato a osservare quel mondo di nascosto, talvolta di sfuggita, oppure fin troppo da vicino proprio negli anni in cui ha sedotto e conquistato, per la prima volta, il pubblico italiano. All’epoca in televisione erano tanti i cartoni animati giapponesi trasmessi, al contrario pochi erano gli editori che si avventuravano nella pubblicazione di manga – e infatti noi abbiamo sperimentato una dicotomia e uno sfasamento schermo-carta che non rispecchiava quanto accadeva in Giappone, dove la produzione e la distribuzione della versione cartacea precede la versione animata.
E così mentre Lady Oscar creava valorose adepte fra le mie amiche e Georgie le faceva piangere, nelle camerette si giocava all’Incantevole Creamy con bacchette improvvisate e recitando paripampum molto convinti. Tutte con lo stesso desiderio di essere magiche, di potersi trasformare in una cantante-illusionista amatissima, di diventare una pallavolista capace di ovalizzare i palloni, di scoprirsi un prodigio della ginnastica ritmica, di avere una vita normale e una incredibile. E poi – anzi prima, durante e dopo – c’erano i robottoni: Goldrake, Mazinga, Jeeg per citarne giusto tre. Nonostante i prodotti non raggiungessero sempre in purezza (traduzione, tagli, riduzioni) il mercato nostrano, e nonostante fosse ancora radicato il pensiero «sono cartoni animati quindi sono per bambini» – ma come esistono libri di narrativa per bambini e per adulti, allo stesso modo anche i manga sono destinati a un pubblico diverso a seconda delle tematiche e dei contenuti – quel linguaggio funzionava. A prescindere dal merchandising che sarebbe diventato consistente negli anni e avrebbe funzionato da amplificatore, le qualità seduttive di quel prodotto culturale esistevano soprattutto in virtù delle sue potenzialità narrative, delle sue ambientazioni, della sua estetica, della profondità emotiva. L’anime-manga è stato quindi capace di coinvolgere e incuriosire anche un pubblico che aveva tutt’altre matrici culturali rispetto a quelle del paese che lo aveva creato e dove la sua industria era solida e sfavillante da tempo grazie al successo di mercato.
La prima esposizione all’immaginario visivo giapponese avviene quindi in Italia negli anni settanta e ottanta, e crea una generazione di appassionati. Spettatori diventati poi lettori e che, in alcuni casi, hanno visto i loro interessi trasformarsi in culti, territori di studio, ricerca, collezionismo.
Quanto a me, per una decina di anni non ricordo di essermi più curata molto dei manga – ho letto appassionatamente Black Jack e Nana – e i graffi dell’infanzia si sono trasformati in quiete cicatrici.
Finché nel 2007 sono capitata in Giappone dove, pochi mesi dopo, ho scelto di vivere. Una decisione semplice, spontanea – per quanto possibile. Guardando ora a quel tempo, ho la sensazione che parte del desiderio di abitare il Paese mi abitasse dagli anni della frustrazione per Occhi di Gatto, del treno spaziale Galaxy 999 e dall’apocalisse di Akira. Una sorta di malìa, che ha potuto perfezionarsi nel momento dell’incontro fisico e reale con la capitale. Quando sono arrivata a Tokyo ero nuova e senza aspettative: eppure il fascino si è dispiegato in tutta la sua forza, e ha fatto divampare l’interesse. Ben presto ho iniziato a colmare le lacune, ho completato letture e visioni e ne ho aggiunte di più attuali – Death Note è per me il titolo della consapevolezza.
Ma, al netto della produzione ineguagliabile e della storia profondamente radicata, dov’era possibile incontrare i segni tangibili e immediati di questa forte presenza? Sono entrata in libreria, un punto vendita di grandi dimensioni parte di una catena: era molto lo spazio destinato ai manga – serie di culto, edizioni speciali, ultime uscite, diversissimi per tematiche, ambientazioni, generi, formati, pubblico di riferimento. Anche nei konbini – minimarket aperti 24h che vendono poche cose di immediata necessità – i manga occupavano almeno qualche scaffale.
Il volume di denaro che riescono a muovere è da tempo una fetta importantissima dell’intero comparto editoriale del paese – oggi, secondo le indagini della società di ricerche di mercato Statista, questo volume ammonta a 612.000 miliardi di yen, poco meno di metà del totale.
I protagonisti dei manga sono eroi popolari, conosciuti e amati in tutto il Giappone, e quindi ottimi testimonial pubblicitari o portavoce di messaggi importanti: dalle campagne informative del governo al food marketing, dalla promozione del turismo locale alle norme di comportamento in metropolitana. La principessa Zaffiro e Astroboy di Osamu Tezuka spiegano come non causare incendi all’aperto, mentre Simbad e Black Jack danno buoni consigli su come evitare gli incidenti domestici generati da stufe elettriche, fuoriuscite di gas o fiamme libere. Duke Togo, il sicario protagonista di Golgo 13, la serie manga più longeva tuttora in corso (il primo numero è stato pubblicato nel 1968) insegna alle piccole e medie imprese come tutelarsi all’estero. A Oreimo, una delle protagoniste della serie Oreimo – My Little Sister Can’t Be This Cute, si sono affidati nel 2015 per spiegare le conseguenze dell’abbassamento dell’età di voto da 20 a 18 anni (in Giappone la maggiore età è 20 anni). Miss Dronio (la supercattiva di Yattaman) e Black Jack si mostrano insieme – una passeggiata sotto la neve, una romantica gita in barca – sul manifesto pubblicitario di un’agenzia matrimoniale: lei è iraconda e determinata, lui cupo e misterioso, sarà amore?
E quando non sono i personaggi più noti a essere in prima linea, spesso lo è lo stile manga: l’immagine veicola il messaggio con maggior semplicità rispetto a un testo, e quindi più rapidamente. Ho visto manga educational per spiegare la Costituzione. Ogni istituto costituzionale è incarnato da un personaggio femminile. La bionda è Saibansho-chan la signorina tribunale, quella blu è Kokkai-chan la signorina parlamento, e la mora è Naikaku chan la signorina Consiglio dei ministri. Per spiegare come funziona la Convenzione dell’Aia sulla sottrazione internazionale di minori, un argomento dibattuto e controverso nel paese, di nuovo è stato scelto di utilizzare un manga.
Ma anche nella quotidianità, in una giornata qualsiasi è facile incontrare un fumetto che spieghi come fare la raccolta differenziata, o che promuova un’iniziativa benefica.
L’anno scorso, il successo travolgente di Demon Slayer – Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba dal novembre 2019 al novembre 2020 ha venduto in Giappone più di 82 milioni di copie – gli ha garantito sponsorizzazioni di ogni tipo, dai cup ramen agli snack, dalle mascherine ai rasoi da uomo, dalle compagnie telefoniche a quelle aeree, dall’abbigliamento agli occhiali da vista.
Intanto, in Italia, negli anni successivi al primo boom, il manga ha raccolto sempre più attenzione, si è liberato di alcuni pregiudizi, è stato riconosciuto come prodotto di grande qualità e letterario (anche se non sempre e non da tutti) ed è stato pubblicato da editori sempre più sensibili, seri, consapevoli che gli hanno assegnato risorse e strumenti specifici. E certamente ha giocato un ruolo importante anche la distribuzione: dalle edicole e dai negozi specializzati o per appassionati, i manga si sono diffusi nelle librerie, e sono sempre più spesso fruiti anche online e in forma digitale. Tutto ciò ha dato i suoi risultati e nel 2021 i manga, finalmente ammessi nelle rilevazioni ufficiali dei libri più venduti, hanno raggiunto i primi posti delle classifiche. Il pubblico italiano ha riconfermato la propria passione (vecchie serie, riscoperte, novità) e questa volta ha trovato il suo interesse sostenuto anche da una struttura – librerie, editoria, comunicazione – che lo ha nutrito con sapienza e attenzione. Ma cosa ha reso l’Italia un terreno così fertile?
«Italia e Francia sono tra i primi paesi al mondo a importare anime giapponesi negli anni settanta, molto prima del mondo anglofono dove manga e anime rimangono un fenomeno di nicchia e da nerd fino più o meno al nuovo millennio, quando nascono distributori come Tokyopop. Altro elemento che facilita la diffusione del manga in Italia (e un discorso simile vale per la Francia) è la presenza di una forte tradizione locale di fumetti narrativi, molto diversi dal fumetto nordamericano di supereroi, e più vicini all’estetica e alle tematiche del manga. Altra cosa interessante è che proprio per questa storia relativamente lunga di interesse per il manga tra i lettori italiani, negli ultimi anni sta crescendo abbastanza il fenomeno del gaijin manga, fumetti in stile manga ma scritti in lingue diverse dal giapponese, autori come Vincenzo Filosa (Viaggio a Tokyo, Figlio Unico), che creano fumetti in stile manga, alcuni ambientati in Giappone altri ambientati in Italia o in mondi immaginari. Un altro esempio interessante è Giuseppe Durato che si è formato in Giappone come assistente della mangaka Keiko Nishi, e ha poi pubblicato una sua serie sulla rivista Big Comics Spirits, Mingo: Itariajin ga minna moteru to omounayo, poi ripubblicata in volume e ora tradotta anche in italiano, facendo il giro completo.» Mi dice Rebecca Suter, Direttrice del programma di studi giapponesi all’Università di Sydney, alla quale ho chiesto un parere autorevole sull’argomento.
Rivoluzione culturale? Fuga dall’Occidente? Probabilmente entrambe le cose e credo che la risposta abbia una componente personale oltre che una sociale.
Arte, profondità, trasversalità, scrittura accurata, letteratura, punti di vista alternativi, domande cosmiche, risposte cosmiche, domande quotidiane, risposte quotidiane, visioni future, conoscenza, invenzione, personaggi indimenticabili, distorsioni e riallineamenti, distruzione e ricostruzione, compagnia, partecipazione, commozione: questo è solo un frammento della sequenza, anzi della successione disordinata di termini che associo al manga, un flusso che ha origine nei ricordi e porta con sé le impressioni di un mondo tanto reale quanto inimmaginabile, un flusso capace di generare continua curiosità tra sguardo e pensiero.
2014, Nagoya, zona di Endoji.
La bambina con i capelli corti è adulta e da qualche anno vive in Giappone. Da poco ha cambiato città, abita in un condominio di pochi piani, in una zona di case tradizionali e silenziose. Non è facile integrarsi nel nuovo quartiere. Quando esce per fare una passeggiata al tramonto incontra spesso una vicina, una donna giapponese, che deve avere solo qualche anno più di lei – o almeno così sembra. La donna porta a spasso il suo cane, un piccolo shiba inu dall’espressione sorridente. Anche se il cane si mostra incuriosito dalla ragazza, la donna lo strattona e non lascia che si fermi. Alla ragazza dispiace, vorrebbe fargli almeno una carezza.
È un pomeriggio d’inverno, nevica fitto. La ragazza esce lo stesso, e anche la vicina con il cane. Come sempre si incontrano, come sempre il cane si mostra affettuoso, come sempre la donna sta per portarlo via.
«Come si chiama?» chiede la ragazza, mentre i fiocchi riempiono lo spazio, tengono la giusta distanza.
«Nana-chan» dice la vicina.
Il cane scodinzola sentendo il suo nome.
«Nana, come il manga?» chiede la ragazza.
La vicina cambia espressione, per la prima volta il loro sguardo si incontra.
«Sì. Lo conosci anche tu?»
La ragazza annuisce: «La storia inizia in una giornata di neve…»