ARTICOLO n. 86 / 2022

DA DOVE VENITE VOI CHE SCRIVETE QUI?

Joseph Ponthus, la generazione X e il lavoro culturale

Farsi da soli, in tanti sensi e contesti, anche i peggiori. Meritocrazia, autoimprenditorialità, self-made o deregulation, parole sospette interiorizzate a forza a inizi anni 2000, contraddittorie e pericolose quando messe sul piano pratico. Da ragioniere diplomato con il minimo dei voti a laureato in filosofia, conti e partita doppia non erano il mio forte. Poi un master in comunicazione grazie a una borsa di studio, qualche corso di informatica, diploma di lingua, il tesserino da pubblicista e altre licenze ad attestare alta funzionalità e adattamento. Nel mezzo, già da quando ero a scuola, dai 14 anni, sempre il lavoro, fabbrica di scarpe, cameriere, taglialegna, imbianchino, aiuto cuoco, call center, fabbrica di vasche idromassaggio, portalettere, lavorazione materie plastiche, assicuratore, call center, barista, fabbrica di luci, parcheggiatore, aiuto scenografo, ognuno li ho attraversati. Nemmeno li ricordo tutti, sono sicuro che in parecchi casi sono stato pagato in nero, o parzialmente in nero, erano comunque soldi. All’inizio non percepivo la ricchezza come sostanza, era idealizzata, la ricchezza riguardava l’umano, risiedeva nelle mie esperienze, in una vita piccola ma avventurosa, attiva, in cui allargare gli orizzonti, conoscere altre vite, altre possibilità e crearmi un’idea. La mia famiglia non mi ha mai fatto mancare l’essenziale, quand’è stato possibile mi ha aiutato con il denaro, ho avuto il motorino, la vecchia Lancia Delta di mio padre. I soldi erano importanti, certo, non fondamentali, sapevo di avere una casa a cui tornare, ho sempre vissuto con poco, in camere o appartamenti minimi, viaggiare appena possibile, assecondando un forte quanto celato senso di autodeterminazione e l’insofferenza di quegli anni. L’autodeterminazione veniva dall’aria che avevo respirato, famiglie contadine, ex mezzadri che superato il dopoguerra di fame e fatica stavano bene, inventandosi, rinnovandosi. L’insofferenza era la provincia, la noia e la ripetitività da cui scappare.

Oggi, a 45 anni, sono uno splendido esempio della Generazione X, senza figli, senza Dio, non sposato, due gatti, pessimista, sradicato, precario cronico, si potrebbe pensare libero in qualche modo, operativo su tanti fronti, svariati lavori ma quelli per cui ho più interesse e in cui mi sento comodo non mi permettono di saldare i conti: sono ufficio stampa e organizzazione di eventi ma solo in determinati periodi, quando serve, lavoro con gente di cui ho stima, con cui mi accordo ma che, capisco, non possono darmi continuità. E poi ho scritto dei libri e tanti articoli in rispettabili testate. Sulla carta potrebbero sembrare buoni numeri, in qualche modo dovrebbe essere tutto ok, ma ristagno, incapace di prendere delle decisioni, una caratteristica della Generazione X, quando ti guadagni ogni pezzettino non vuoi lasciare nulla, specialmente se tanti pezzettini ti permettono di mangiare. Così l’agenda è piena, scadenze in diversi settori ma che non mi rendono campione in nessun ambito, so adeguarmi, afferro e sbrigo nei tempi le consegne, ma comunque non ci campo. Ecco allora l’altro lavoro che svolgo quando le scuole sono aperte: è l’AEC, l’assistente educativo culturale o assistente scolastico o altre cento sigle che fanno intuire quanto sia vago questo ruolo, favorisco l’autonomia degli alunni disabili all’interno della scuola, assunto da una cooperativa sociale. Non so se ho la vocazione per lavorare con i disabili ma lo so fare, questo è certo come certi sono i pochissimi diritti, chi ci lavora sa, il fantastico mondo del sociale è impegnativo e rende una miseria, spesso a cottimo, a chiamata. È un paradosso, l’art. 1 che disciplina le coop sociali recita: hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, ok bello, aiutiamo gli altri ma a noi chi ci aiuta? Si è pagati in base alle ore svolte, alunno malato allora sostituzioni, spezzoni qua e là oppure, semplicemente, meno cash. In estate sei sospeso, vai a capire cosa significa se non entrare in una terra di nessuno, perché hai il contratto a tempo indeterminato congelato, non ti pagano ma non ti spetta Naspi né tantomeno la cassa integrazione. Per avere uno stipendio sopra ai mille euro devi fare tante, troppe ore per un lavoro usurante. Ogni tanto, come se fosse uno sport estremo, mi presento dai sindacati, vari, a caso, li ho ascoltati quasi tutti, giusto per vedere dietro alla scrivania ripetere il copione di sempre, quelle braccia che si allargano e lo sguardo rivolto verso l’alto, ho bisogno di (ri)sentirmi dire che non c’è speranza, che non si può far nulla. «Funziona così», «Ti va bene – dice lui – perché in teoria, essendo tu socio lavoratore, potrebbero impedirti di avere altri contratti», e così via. Una condizione straordinariamente penalizzante, umiliante, antecedente al Pacchetto Treu e quindi al Jobs Act, questo guarda caso introdotto dal ministro Poletti che fu presidente di Cooperative Italiane. Fra gli operatori con un sorriso amaro si dice che i contratti delle coop siano stati la nave scuola del precariato.

Altro paradosso: ho guadagnato di più sotto lockdown; con la cassa integrazione in deroga che in cooperativa copriva pure l’estate e alcuni dei fondi destinati ai lavoratori dello spettacolo, ho incassato di più. Guadagni di più senza lavorare, me lo ripeto quando sono esausto, allora non mi resta che accarezzare il sogno di abbandonare almeno il sociale, di sparire, è un pensiero che scaccio perché devo lavorare. Un retaggio cioè di quel passato operoso e insaziabile in cui sono cresciuto, ne sono consapevole, forse è solo paura, ma ho il turbamento di essere in trappola, sento un bruciore forte che sale dallo stomaco. Ho iniziato a vagheggiare l’ipotesi di prendere la disoccupazione, licenziandomi, facendomi riassumere un mese da chicchessia e così accedere agli ammortizzatori sociali. Ma la mia è una situazione complicata, tanti Cud, diritti d’autore, contratti di collaborazione, contratti di assunzione d’estate, «Ti potrebbero scalare ciò che guadagni con gli altri incarichi», dicono al sindacato. 

Leggo con interesse le storie di precariato ma non mi consolano, si assomigliano a tal punto da trasformarsi in intrattenimento, pure questa qui, ho l’impressione che le testimonianze non servano a nulla quando si è imbevuti dello spietato individualismo alimentato dagli ultimi 30 anni di politiche neoliberali, quando non avverti una comunità intorno non c’è nemmeno nessun eroismo dei lavoratori, solo solitudine se si è continuamente ricattati dalla necessità di tirare avanti. Il lavoro ha perso completamente quella ascendenza immaginifica della giovinezza, ora per quanto mi riguarda resta solo speculazione. La ricchezza è diventata sostanziale e circostanziata, relativa alla sua essenza e complice dell’immanenza, è il conto corrente, sogno 10 o 20mila euro, nemmeno cifre astronomiche, una quota che mi permetta di prendermi una pausa, respirare ed assaporare un cappuccino al bar con tranquillità.

Temo che le mie forze si stiano esaurendo, i pensieri sempre più negativi, ogni giorno perdo qualcosa, la mia sta diventando una spirale di rancore, ce l’ho vagamente con qualcuno poco identificabile da qua sotto, uno spettro, è un processo del tutto involontario che però ancora posso osservare e neutralizzare, ho gli strumenti per individuare l’emotività distorta e le diseguaglianze sociali, non mi sorprendono per niente i risultati delle elezioni politiche, ci sono tante monadi che hanno bisogno di una risposta, qualsiasi risposta, si abbraccia anche la promessa di un miracolo.

Certe volte, rischiando di sembrare maleducato, domando alle persone con cui entro in confidenza cosa fanno i genitori, da dove vengono, generalmente quando converso con chi abita il mondo della cultura. Da dove venite voi che scrivete qui? Sono preoccupato, escludendo quelli bravi e bravissimi che prima o poi si fanno notare, temo che arrivare a un giornale importante sia diventata solo una questione di censo; quanto puoi mantenerti in una grande città con quello che viene pagato un articolo di 4 o 5mila battute? Quanti altri lavori puoi svolgere ed avere la forza, fisica e mentale, di scrivere? Quanto si può resistere? Chi resiste, credo io, è perché parte da un’altra base economica che gli permette di riversare energie vitali su studio e contenuti, oltre al desiderio di vedere la propria firma fra altre più autorevoli, un desiderio giusto e impegnativo. E il fatto in sé seguirebbe solo la logica classista di ogni altra fottuta occupazione, se non fosse che poi a raccontare le storie, la cronaca, la politica, restano quelli che vengono da una data classe sociale, anche se le “classi”, ripete qualcuno, non esistono più. Avranno queste classi medio-alte la capacità di raccontare e dialogare con il malcontento, la sofferenza, lo svilimento o la sfortuna di chi non ha avuto un’istruzione adeguata, di chi è cresciuto in costrutti socio familiari che non gli hanno permesso di mettere il becco fuori di casa? Si discute continuamente di narrazioni tossiche, il problema sta anche a monte, nel sistema di reclutamento e quindi nel sistema produttivo.Ho divorato Alla linea di Joseph Ponthus (Bompiani), tradotto da Ileana Zagaglia, uno degli affreschi più raffinati sull’indecente condizione operaia (anzi del lavoro) che ho potuto leggere negli ultimi anni, una prosa con il ritmo della catena di montaggio e in cui, a un certo punto, l’autore scrive: «Il silenzio sulle nostre vite sembra d’obbligo/La fabbrica prima di tutto e insieme il nostro reddito mensile». Provo la medesima sensazione di abbandono; hai compiuto ogni dettame che ti era stato suggerito e vaghi, a metà della tua esistenza, in una nebbia fitta, in una provvisorietà incapace di guidarti da qualche parte, di costruire, retta solo dall’urgenza del salario. Qualche giorno addietro i soldi di un bonifico mi hanno permesso di sostituire gli occhiali da vista, ci vedevo più niente, pareggiare un po’ i conti con la mia compagna, saldare qualche debito, mi ritrovo sempre a ragionare sulle centinaia d’euro, le bollette, sempre a fare le pulci alle spese. Vivo in provincia e ho un piccolo mutuo di casa, già è arrivata la comunicazione per la revisione dell’auto, automobile che fa quel che può per tirare avanti, per sostenermi, certe volte ci parlo, la convinco ad accendersi e ad accollarsi le mie necessità, tendo a restituire un’anima a chi mi aiuta pure se non ha cuore ma carburatori, l’unico sollievo è solo l’opzione che potrebbe andarmi peggio. Ho la preoccupazione del giorno in cui mi abbandonerà la lavatrice che inizia a far rumori strani, i grattacapi te li costruisci in anticipo, li materializzi, il dentista lo rimando di continuo, le visite di controllo manco a parlarne. Il malessere cresce, certe volte ravviso più avvantaggiato di me chi si è ritrovato anche solo una casa di proprietà, è uno scarto minimo ma fondamentale specie nelle aree metropolitane, ma è solo un’escalation, dopo diventa importante il tipo di proprietà, la zona, quante stanze, terrazzi. In questa ipertrofia dello sfruttamento, spoglio di coordinate e solidarietà, intercetto privilegi e rendite ovunque a giustificare i miei fallimenti e questo stato di perenne insoddisfazione, di sparizione degli obiettivi e dell’essere, infine di eterna sottomissione.

ARTICOLO n. 88 / 2024