ARTICOLO n. 34 / 2022

LICORICE PIZZA & LA MIA BEATA GIOVINEZZA

«Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi» rivela con forza epigrammatica una poesia di Sandro Penna.Quando un paio di settimane fa sono uscito dalla sala del cinema Arcobaleno in viale Tunisia dopo aver visto Licorice Pizza, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, mi sono venute in mente quelle parole. Eccitato e commosso assieme, ho dovuto camminare un po’, prendere aria, respirare e guardare la realtà extra-cinematografica pian piano rigenerare la propria forma, prima di riprendermi completamente e riportare alla regolarità il battito cardiaco.

Ho guardato il manifesto del film appeso in strada all’entrata del cinema: un fotogramma che sintetizza bene lo spirito del film, con l’attrice protagonista in primo piano. L’ho toccato, per sentire quanto fosse di carta, quanto fosse per l’appunto finzione, fiction, frammento di sogno di celluloide, quanto la vita che stavo riprendendo a vivere fosse cosa altra rispetto alla messinscena per immagini a cui avevo appena assistito.

Il film è la storia di un amore fra due ragazzi nella Los Angeles del 1973. Lui, Gary Valentine, ha quindici anni, è grassottello ma per niente impacciato e goffo, anzi, è un lanciato iper-promotore di sé stesso, un imprenditore in miniatura, una baby incarnazione del mito americano del self-made man; lei si chiama Alana Kane, ha 25 anni, lavora senza troppa passione come assistente di un fotografo, vive insieme al padre, alla madre e alle sorelle (famiglia ebraica) e sembra non essere in sintonia con niente e con nessuno. Si sente fuori posto, rispetto ai coetanei, rispetto agli adulti, rispetto a chi è più giovane di lei. Se non, per l’appunto, e sorprendentemente, con questo quindicenne smargiasso brufoloso che le fa la corte in modo spudorato e che lei non può (non deve, non dovrebbe!) assolutamente filare, secondo la regola volgare ed aurea insieme che sancisce che le ragazze vanno dietro soltanto ai maschi più grandi di loro.

Una parte superficiale ma per niente banale del film è in fin dei conti la descrizione romanzata della trasgressione di questa regola: ovvero il ragazzino anti-eroe che da rospo poco attraente si rivela pian piano principe azzurro e riesce a conquistare la preda impossibile e grande, a lui culturalmente e proverbialmente proibita.

Ma questa lettura è riduttiva: tutto il cinema di Paul Thomas Anderson è denso e stratificato, impossibile da leggere in maniera univoca. Io l’ho visto in una sorta di trance, tutto d’un fiato, piangendo a dirotto a più riprese e anche scoppiando a ridere in parecchi momenti. Non mi capita più così spesso di essere rapito da qualcosa. Rapito è la parola adatta. Sono stato trascinato con violenza da uno stato a un altro. Artigliato (etimologicamente sembra che raptus abbia una radice comune con «Arpìa») e portato da una dimensione di realtà a una dimensione altra ma altrettanto densa di significato proprio perché verosimile, compatibile con il mio personale vissuto.

Ci sono momenti nel film che sono puro cinema, dal mio punto di vista, in quanto monadi in cui i vari segni che compongono il codice filmico sono così fusi assieme da risultare irriconoscibili. Quando Gary Valentine viene arrestato, portato alla stazione di polizia e poi rilasciato, dopo un breve dialogo con Alana, viene scagliata una di queste frecce di cinema assoluto: una scena in apparenza molto semplice in cui viene filmata la corsa di un adolescente. Niente di più di Gary che, riacquistata la libertà, corre col suo fisico imperfetto su una strada della San Fernando Valley degli anni Settanta, nel sole. È una scena senza dialoghi, ed è solo, per l’appunto, un ragazzo che corre. È cinema puro perché non scritto o meglio così scritto da risultare muto e potente come un’esplosione stellare. È come la corsa del piccolo Antoine Doinel ne I 400 colpi di Truffaut, come i pistoleri che si dispongono a «triello» nel balletto finale de Il buon, il brutto, il cattivo, come il giro a Ostia in Caro Diario, come l’inizio di Persona di Bergman e come centinaia di altre scene o inquadrature che non sto ovviamente qui ad elencare. Ciò che mi interessa è questa capacità che a volte il cinema ha di far perdere le tracce dei segni di cui è fabbricato: perciò segui il dialogo – se c’è – come fossero le parole della tua reale esistenza quotidiana, la musica – se è presente – non la senti o la senti così forte come se l’avessi scritta tu e coincidesse con il battito del tuo cuore o con la paura e l’emozione che stai vivendo in un momento della tua vita; la tua vita, quella cosiddetta «vera», non cinematografica. Il cinema che scorrendo passa senza lasciar intravedere traccia di sé è il più subdolo e pericoloso: lo adoro, certo, perché grazie al cielo non mi fa incagliare nella saccenza di certe sceneggiature che fanno finta di essere intelligenti e fanno sfoggio di sé, ipercinetiche, ultra-brillanti, cariche di quell’ansia da prestazione da battuta perfetta che molti moderni scrittori per il cinema e la TV tendono ormai ad avere sempre, ma allo stesso tempo lo temo perché proprio perché somiglia alla vita, e nella sua perfetta manifattura tende a fondersi con essa, sostituirvisi. E così amore si aggiunge ad amore, ma anche dolore a dolore.

Nella San Fernando Valley del 1973 tutto sembra assolato e favoloso, e anche possibile: la musica è fantastica, puoi incontrare John H. Peters, ex-parrucchiere poi playboy poi produttore poi marito di Barbara Streisand, puoi fondare un’azienda di materassi ad acqua, puoi essere una baby star del cinema; eppure tutto è anche già marcio, sembra voler dire Paul Thomas Anderson. Impercettibilmente, con misura ed eleganza, questo meraviglioso film è la storia della contrapposizione fra la purezza dei ragazzi protagonisti, della loro innocenza (sono innocenti anche quando provano a fare i grandi, sono puliti anche se sognano il mondo sporco dei soldi e del business) e lo schifo senza possibilità di salvezza del mondo degli adulti. L’America nel 1973 è diventata adulta e compromessa rispetto a quella giovane e piena di speranze degli anni Sessanta. Il sogno è finito. «It’s on America’s tortured brow / that Mickey Mouse has grown up a cow», canta David Bowie in Life on Mars sparata non a caso a tutto volume in una scena del film. La Storia, possiamo azzardare, uccide i sogni. I sogni rimangono sempre immutabili, irrealizzati e bellissimi, nel cuore dei bambini e dei ragazzini. Prima che qualcosa li sporchi. Da una parte sta il fuoco della giovinezza e dall’altra tutto ciò che può servire a spegnerlo: nel film, nello specifico, la crisi petrolifera del 1973, le manovre politiche, gli abusi di potere e le megalomanie dell’industria del cinema. Ho pianto vedendo questo film perché inevitabilmente ho pensato a me, ho pensato a mia figlia, a mia moglie e ai miei cari, ho pensato ai sogni che a volte la Storia ruba ai ragazzi prima del previsto. Ho pensato che la giovinezza, a poterla congelare in eterno, sarebbe antitetica alla corruzione, fermerebbe le cause della colpa e ogni senso di colpa assieme, coinciderebbe col Bene.

Quando sono uscito dal cinema ho guardato il cellulare e scrollando sull’homepage del New York Times ho visto foto terrificanti dell’invasione dell’Ucraina e letto titoli di stragi di civili, fra cui bambini. 

E pensare che neanche mezz’ora prima, in un’altra scena del film, guidata da un amico di Gary, ho invece rivisto la mia bicicletta di ragazzino.

Credo fosse il mio compleanno. I miei genitori, intorno al 1978 (avevo cinque anni), mi regalarono una bicicletta blu, col manubrio piegato e un sellino con lo schienale altissimo. Un chopper a pedali. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Uno dei miei primi ricordi di essere umano sono le pedalate con quella bicicletta nelle strade sterrate intorno a casa. La sensazione del vento in faccia e fra i capelli. Ecco cosa intendo quando sostengo che Licorice Pizza in alcuni momenti si sostituisce pericolosamente alla tua vita, ai tuoi ricordi, al tuo bagaglio esperienziale. Con quella bici facevo gare di velocità coi miei amici, ovviamente, ma accompagnavo anche mio nonno a fare escursioni in campagna. Durante questi percorsi mio nonno mi raccontava la storia dei posti a cui passavamo accanto, mi mostrava le case, le località, certi alberi e certe cose che ai suoi tempi c’erano e che al nostro passaggio già non c’erano più. Mi raccontava che in quelle strade e in quei campi di grano, prima che ci venisse costruito un villaggio sopra, lui, sopra un carretto trainato da un somaro percorreva il tragitto quotidiano per andare a scuola. Io ascoltavo le storie del suo mondo perduto, come si ascolta una fiaba, bella e lontanissima. Ogni tanto raccontava le storie della guerra, della sofferenza patita, dell’aver sposato mia nonna un mattino ed essere partito per il fronte il giorno dopo. Storie che mi parevano antiche, meravigliose e distanti anni luce da me. Avevo solo sei anni, il mondo del cinema (il cinema neorealista dei racconti di mio nonno, in questo caso) con quello della mia vita non potevano ancora combaciare. 

Mio nonno era un uomo alto ed elegante, me lo ricordo un giorno fermarsi davanti a certe lamiere vicino alla Casa del Popolo dove venivano affisse le pagine de l’Unità. Si fermava sempre a leggere quei giornali appesi, e anche io diligente parcheggiavo la mia mini-Harley Davidson e aspettavo. Quel giorno invece di stare in silenzio lesse e disse: «Farabutti!», a voce alta. Il rapimento Moro, io l’ho vissuto così.

Un giorno d’estate ci fermammo sotto un olmo a fare colazione. Avevamo comprato un panino con la mortadella, l’acqua e l’aranciata in un Bar Tabacchi da qualche parte vicino al Canale Maestro della Chiana, che lui conosceva bene perché ci andava a comprare le sigarette quando nel dopoguerra prese a lavorare come stradino. Non so perché quel mattino, non so perché proprio in quel posto; chissà perché, ma mi piace pensare, nel mio rimembrare distorto, che ci fosse a quell’ora lo stesso sole di un mattino californiano.

Però successe. Fu il mattino in cui mi raccontò della morte di suo figlio. Il fratello maggiore di mio padre morì a quindici anni per un’infezione cardiaca che al giorno d’oggi sarebbe stato una sciocchezza curare. Mi raccontò di come i dottori avessero consigliato di farlo curare da uno specialista a Roma, solo così si poteva avere la speranza di salvarlo. Bisognava però raccomandarsi a certe persone e al vescovo. Io non capivo cosa significasse raccomandarsi al vescovo e chi fosse questa congrega di persone del paese così potenti da poter decidere chi va dentro gli ospedali buoni di Roma e chi invece ci resta fuori. Mio nonno piangeva mentre raccontava e io mi preoccupai. Mi raccontò che lo convocarono in un imprecisato ufficio e quelle certe persone gli dissero che, insomma, si sapeva bene come lui la pensasse politicamente, e che quindi l’unico modo per accedere a questa via medica di alta categoria era quello di abbandonare la tessera di un certo partito e prendere quella di un altro. Mio nonno sotto l’olmo si asciugava gli occhi col fazzoletto e piangeva come un vitello, per la prima volta incurante del fatto che questo piangere così a dirotto e senza difese mi potesse turbare. Non si dimentica, un vecchio che piange. «La mia risposta fu no», mi disse, me lo ricordo, «dissi a quelle persone spinto da non so cosa che la tessera non la prendevo mica, e un mese dopo Alcide morì». 

Ho capito tutto con più precisione molti anni più tardi. E ho capito che il mondo è instabile e tende inevitabilmente alla corruzione. La giovinezza, che non si può fermare con un tasto freeze, è un’età mitica in cui ancora questa nozione è ignota, e di conseguenza si è generalmente beati. Ma questa ignoranza è poi la stessa che ci sbatte in faccia con ancora più forza la rivelazione dei virulenti processi di decomposizione. E può far molto male. 

Dobbiamo proteggere i nostri figli dalla moltiplicazione forsennata delle immagini del sangue, proteggerli dal video-massacro mediatico che la Storia quotidianamente ci offre; è compito nostro occuparci di questa nuova forma di difesa dei cuccioli dal pericolo, ed è nostro dovere addestrarli a nuove modalità di sopravvivenza. Eppure, in ugual modo sono sempre più convinto, in un una maniera nuova che ancora non sappiamo e che filosofi e psicologi dovranno cominciare a indicarci, che potremmo cominciare a togliere i ragazzi dalla campana di vetro e lasciarli vivere in un universo un po’ meno bambino-centrico. E nei limiti del possibile, insegnare loro il perdono, la pietà, il logos di Eraclito che tutto trasforma, la fisica di Aristotele e le leggi del movimento; insegnare loro quanto inevitabile sia in tutto la fine, celebrando da subito, con adeguato rito, il matrimonio della vita con la morte.

ARTICOLO n. 93 / 2024