ARTICOLO n. 96 / 2023
Di Marina Viola
LETTERA DA UNA CASA DI FAMIGLIA
Carissima Marina,
dalla polvere sul tavolo e sul pianoforte, sto cominciando a pensare che Franca, tua mamma, non mi voglia più bene. Per decenni mi ha accarezzato i fratelli mobili e le sorelle sedie, ha pulito i miei cugini pavimenti e i lavabi dei miei bagni, ma da quasi due anni siamo rimasti molto soli. Nessuno ci ha dato spiegazioni. Il termosifone in sala che ha già mandato in giro teorie complottistiche che non stanno né in cielo né in terra. Franca parlava con le piante, soprattutto con l’ibisco, che lei chiamava Ibi e che se la tirava da morire: pare, ma bisogna avere delle prove, che siano state proprio le piante ad averla inghiottita. Io non ci credo, ma metà dei tappeti ormai non ha dubbi. Non vorrei invece che le fosse successo qualcosa di peggio, perché proprio non è da lei abbandonarci così. Ci siamo fatte compagnia per più di cinquant’anni. Il mese scorso, in un momento di lucidità, ho fatto due più due e sono quasi convinta che se ne sia andata.
Puoi immaginare la mia solitudine! Ho visto te e le tue sorelle crescere, mi sono cuccata anni di cartoni animati, tra Heidi e Mimi e le ragazze della pallavolo; decenni di Saranno Famosi e la Famiglia Bradford. Per non parlare delle mille cene, delle feste di Natale e Capodanno. Ho assorbito i vostri litigi, i vostri momenti belli. Non dimenticherò mai la volta che tu e quel fidanzato ignorante vi siete nascosti lì dove c’era la scrivania in sala e avete limonato per ore e ore. Una tristezza vedervi crescere così in fretta!
Ero lì quando vi preparavate per gli spettacolini da mostrare ai i vostri genitori: una di voi era la Carrà, tu Mina e l’altra la Vanoni. Papà e mamma che facevano a turno per venire a ridere in cucina.
Ero lì per tutti i compleanni, per i battesimi, le comunioni, le cresime.
Ero lì quando Franca vi disse: “Aspetto un bambino”, e quando Beppe rispose al telefono alle sei del mattino felicissimo che fosse nata la mia sorella piccolina. Andò a citofonare a tutti i suoi amici della zona per annunciare la sua quarta e ultima figlia. Era pieno di gioia!
Ero lì quando facevate i compiti, quando aprivate quello che sembrava un cassetto normale e invece era un tavolino nella cucina, quella verde, quando apparecchiavate mentre Franca faceva da mangiare, mettevate attorno al tavolo gli sgabelli e vi sedevate, un po’ strette, solo voi cinque.
Beppe era già andato via. Mi aveva fatto compagnia il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, il fumo delle sigarette lasciate bruciare nel portacenere, le sue telefonate, il suo “abbiamo proprio una bella casa” detto quell’ultimo giorno, aprendo la porta delle scale. Qualche giorno dopo, ricordo di essere stata assalita da centomila persone, tutte tristi. C’era il suo amico, mi pare si chiamasse Enzo, che piangeva forte nel bagno che era stato del nonno Mario. Questo tipo, Enzo, e Beppe ne avevano fatte di tutti i colori, compreso decidere di bruciare l’albero di Natale nel mio camino, appiccando un incendio fortunatamente non doloso. Ricordo Franca il giorno che Beppe è andato via, che a un tratto era diventata piccola piccola, terrorizzata. Vi aveva chiamate in sala per dirvelo: “Vostro papà non c’è più”.
Ero lì quando quel capellone, mi pare si chiami Giorgio, si è trasformato da collega di papà a fratello maggiore, a botte di palloncini pieni d’acqua buttati dal terrazzo ai passanti, alle volte, mannaggia a lui, che dava sempre ragione alla mamma, anche quando i castighi erano oggettivamente esagerati.
Adesso sono quasi due anni che è calato attorno a me un silenzio assordante. Il sole sale e scende, mi illumino e poi divento buia, e nulla cambia, nulla si muove. Quando piove riesco a contare ogni goccia che scende senza essere interrotta. Quando i vicini fanno rumore, spero sempre che stia arrivando una di voi. L’ascensore non sale più fino al quarto, la polvere, finalmente libera di planare dove vuole, sghignazza sui mobili e sul pavimento. I letti sono sfatti, in cucina non si sente neanche più l’odore del caffè e nessuno tira l’acqua del water. Niente più bucati stesi nella camera del lavoro. L’altro giorno ho sentito i singhiozzi del ferro da stiro: si sentiva solo, abbandonato dall’acqua distillata. Lo scaldabagno cercava di consolarlo, ma niente, era disperato.
Poi, a un certo punto, c’è stato un po’ di movimento. Entrava della gente che non conoscevo, diceva che avrebbe voluto comprarmi. Arrivavano accompagnati da un signore, che mi mostrava neanche fossi il Louvre: qui c’è questo, qui c’è quello, poi c’è il terrazzo… Le persone arrivate con lui mi scrutavano come se dovessero trovare dei difetti per poter dire che insomma, qui ci sono dei lavori da fare, i bagni sono vecchi, nessuno vuole il marmo in sala, la cucina è da rifare… Lo ammetto, Marina, a volte ci rimanevo molto male: ma chi si credono di essere questi sconosciuti, che vengono qui e si lamentano di me? Devo dire, però, che invece alcune persone erano piene di complimenti, ma, da quello che ho capito, i loro portafogli erano troppo vuoti per avermi tutta per loro.
Io sono sempre stata come sono adesso, non avevo la più pallida idea di essere più grande delle mie colleghe, altre case che per altro non vedo mai. Sono una signora degli anni Cinquanta, figlia del dopoguerra, il periodo in cui ospitavamo famiglie più numerose e costavamo meno. Adesso, mi pare di capire, la nostra metratura, corridoi inclusi, non serve più: lo dicevano anche al telegiornale l’altro giorno, che in Italia si fanno pochi figli. Inoltre, specialmente qui a Milano, costiamo un occhio della testa, e su Rai3 parlavano degli stipendi bassi italiani e degli studenti che si lamentano di non potersi permettere un affitto in città. Io che sono qui vuota, grande e costosa, mi sono sentita un po’ in colpa.
Marina cara, ti scrivo per dirti che ho preso una decisione importante: cambio famiglia, anzi, famiglie, ho scoperto che mi divideranno in due appartamenti, e sono contenta. Vi ho cresciute, vi ho fatto compagnia, vi ho dato un tetto sotto cui sentirvi protette. Vi ho amato moltissimo. Ma adesso che mi avete abbandonato tocca a loro. Mi fanno il lifting, mi dipingono e mi riempiono di mobili nuovi, di compagnia, di amore. Come per voi, anche per loro sarò il posto dove tornare dopo le vacanze, dopo una giornata difficile, dopo il cinema. Accoglierò i loro amici e apprezzerò tutti i complimenti che riceverò. Non credere che sia stata un passo facile. Ti ho visto la settimana scorsa piangere perché era l’ultima volta che saremmo state insieme. Anch’io ho pianto. Ma sappi che rimarrò sempre nel tuo cuore e tu nel mio. Conserverò le gomme masticate attaccate al muro dell’ascensore.
Ringrazio te, le tue sorelle e i tuoi genitori per tutto: l’amore, la fiducia, la pulizia, i cambiamenti, le esperienze passate, quei tappeti sedicenti persiani, il gatto insopportabile che si arrampicava sulle pareti e quelle lezioni di pianoforte: ammettiamolo, mai state portate. Ma, come dicono i teatranti e i rocchettari, the show must go on.
Ti abbraccio,
la tua casa di Via Sismondi