ARTICOLO n. 28 / 2022

L’ENERGIA DI UNA MONETA

L’11 marzo 2022, alle 10.06, su un treno Tilo, tra la stazione di Lugano e Lugano Paradiso, ho pensato a Franco Cordelli. Premetto che non ho mai incontrato Franco Cordelli e tantomeno Franco Cordelli attraversa, di solito, i miei pensieri. Quante volte avrò pensato a Franco Cordelli, nella mia vita? Quattro, forse cinque. Ho cercato di leggere un paio di libri e di articoli. E tuttavia, guardando uno spicchio di lago la mattina dell’11 marzo 2022, ho pensato a Franco Cordelli. 

Franco Cordelli, il 25 maggio 2014, sul numero 131 de la Lettura, in un articolo intitolato La palude degli scrittori aveva evidenziato alcune frasi scritte da me e da Giorgio Vasta, additandole come esempi di cattiva scrittura; Franco Cordelli non riusciva a capacitarsi, «a me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati», aveva scritto; poi, partendo da lì, aveva diviso la letteratura italiana in varie tribù e recitato il declino della narrativa e della critica.

Un tipico articolo da chiacchiericcio domenicale, la domenica di un’altra epoca unita alla domenica contemporanea, come se la parodia della critica novecentesca si innestasse in lungo post di Facebook. Nel 2014 avevo preferito non replicare. Ma otto anni dopo, davanti all’invitante grigiore dell’acqua alla fine di un inverno afoso, ho pensato a un’abitudine della mia infanzia correlata a una delle frasi stigmatizzate da Franco Cordelli: l’abitudine di guardare, assieme a mio padre, il Lago di Lugano utilizzando un cannocchiale a gettone.

La frase evidenziata da Franco Cordelli era l’energia di una moneta, estratta da un capitolo-racconto intitolato Un altro ancora, contenuto in un mio libro uscito per Einaudi nel 2009: L’ubicazione del bene.

L’energia di una moneta si riferisce al tempo concesso se inseriamo una moneta in un cannocchiale a gettone. Volevo scrivere una storia su un cannocchiale a gettone, evitando di citare quell’abitudine tra me e mio padre. Allora per scrivere quella storia ero partito da una fotografia che non mi convince, di Luigi Ghirri, per giungere a una fotografia che amo molto di più, una fotografia di Allan Sekula: insomma, dalla fotografia del cannocchiale posizionato sul belvedere italiano alla fotografia del cannocchiale che, dietro una vetrata, inquadra un cargo nell’oceano.

Nella celebre fotografia di Ghirri siamo immersi in una intenzionale cartolina. La divulgazione della visione è tutto. C’è una sensazione di benessere nel guardare quell’immagine, come accade quasi sempre con le fotografie di Ghirri. Davvero non abbiamo bisogno d’altro?

Nella fotografia di Sekula, oltre a un cannocchiale, c’è anche una vetrata, uno schermo tra noi e il mare. E al posto del Mediterraneo blu idilliaco di Ghirri, l’acqua è grigiastra, come il cielo, e c’è un cargo. Grazie alla presenza della vetrata, una parte del cannocchiale si riflette nel mare, proprio in direzione del cargo. Inoltre, il cannocchiale, con i suoi due occhietti meccanici, non sta soltanto puntando il cargo, ma sembra fissare noi, che stiamo per avvicinarci a quella che immaginiamo sia la sorgente della visione. Insomma, il nostro sguardo soggiace alle stesse leggi dell’economia. Perfino quando guardiamo da un cannocchiale a gettone, soprattutto in una zona turistica, dobbiamo porci alcune domande. E sono quelle del testo Un altro ancora. Perché un ente, un’azienda del turismo o un’istituzione hanno deciso dove posizionare il cannocchiale a gettone. Quindi noi paghiamo, pensiamo di avere la libertà derivante dal denaro ma qualcuno ha scelto per noi cosa farci vedere.

Ho studiato sia Ghirri che Sekula, ma Sekula mi interessa di più, mi pone dubbi, il punto è proprio quella vetrata tra il cannocchiale e il cargo.

Un altro ancora è un testo diviso in due parti. La seconda parte narra di una coppia di sposi, Monica e Michele. Sembrano felici durante il banchetto nuziale, il fotografo li ritrae nel giardino del ristorante ma la pioggia interrompe il lavoro del fotografo. I due sposi devono partire per il viaggio di nozze proprio l’indomani, allora concordano con il fotografo un appuntamento al loro ritorno, per scattare le fotografie che mancano al completamento dell’album. Indosseranno gli abiti della cerimonia nel giardinetto della loro casa di Cortesforza. Certo, saranno abbronzati, avranno i capelli un po’ più lunghi rispetto al giorno del matrimonio, forse nel loro viaggio di nozze sarà accaduto qualche screzio rivelatore di traumi più profondi. 

Riuscirà la fotografia a mentire – e a dire la verità – come al solito?

È una domenica mattina, a Cortesforza, il luogo immaginario ubicato lungo il Naviglio Grande, diciotto chilometri a sud-ovest di Milano, il luogo nel quale ho ambientato le storie di quel libro. Monica, in abito bianco, è nervosa, cammina avanti e indietro dal soggiorno alla finestra della cucina, in attesa del fotografo. Michele, vestito come il giorno delle nozze, è stravaccato sul divano di casa. Ha acceso il televisore, guarda una partita di rugby, in diretta dalla Nuova Zelanda.

Ho usato questo espediente narrativo per creare l’ulteriore sfasamento tra spazio e tempo. Ecco perché ho scelto la Nuova Zelanda; è una questione di fusi orari, poiché quando in Italia sono le otto di mattina, lì, in estate, è già passato il tramonto, e volevo che la partita fosse in diretta.

La Nuova Zelanda ha una grande tradizione nel rugby, volevo che Michele guardasse una mischia nella quale il pallone scompare sotto i corpi degli atleti, così come le immagini ipotetiche del suo matrimonio erano scomparse due settimane prima.

La Nuova Zelanda è proprio dall’altra parte del pianeta rispetto all’Italia.

E infine, in Nuova Zelanda piove spesso, desideravo ricreare le condizioni climatiche che avevano impedito le fotografie durante il giorno delle nozze, quindici giorni prima, in Italia, così che la pioggia televisiva e satellitare live stridesse con il presente dell’inutile sole italiano, creando un ulteriore cortocircuito psichico.

Insomma, tutto in ordine per allestire la finzione: ma il fotografo utile al falso documentario arriverà davvero?

Questi elementi sono visibili sottotraccia. Un lettore attento o una lettrice attenta dovrebbero percepirli. Certo, da molti anni, leggere davvero, con attenzione, ed effettuare i collegamenti tra le varie parti di un testo e i riferimenti ad altre arti, senza fermarsi gongolando all’effetto immediato, eroico sentimentale, è più faticoso.

Il Metodo Franco Cordelli consiste, almeno per ciò che concerne quell’articolo, nell’isolare una frase e additarla, oppure citare un aggettivo, alla sesta riga di un libro di 350 pagine e chiuderlo, senza parlare dell’opera, senza analizzare gli intrecci, i richiami da un libro all’altro, dalla fotografia alla letteratura, dimenticando una ovvietà: un libro è qualcosa di più delle frasi che lo compongono. Ma per gli amici e le amiche di Franco Cordelli, per i simpatizzanti e le simpatizzanti di Franco Cordelli, quello di Franco Cordelli era «un atto di libertà», «un esempio di rigore», «un gesto etico», perché Franco Cordelli è «magistrale».

La prima parte del mio testo Un altro ancora, è un breve saggio narrativo. Parto dal cannocchiale del belvedere che funziona con una moneta. Dopo aver inserito la moneta abbiamo tre minuti di tempo. 

«Cosa posso vedere in tre minuti? Tre minuti, in molti processi produttivi, è ciò che distingue una cosa buona, utile, che ha senso, da una cosa cattiva, inutile, priva di senso. Ci interessa la produttività del nostro guardare, raggiungere un obiettivo qualsiasi…»

Quindi, dopo aver inserito la moneta, dobbiamo catturare un pezzo di paesaggio che giustifichi l’investimento. In tre minuti cerchiamo di catturare qualcosa, non importa cosa. Siamo clienti, abbiamo pagato, in teoria abbiamo diritto a qualcosa, di utile o inutile, qualcosa che a volte non dura nemmeno tre minuti, poiché, già dopo un minuto e mezzo, siamo stanchi, annoiati dal guardare e non siamo nelle condizioni fisiche né di guardare né tantomeno di vedere. Ignoriamo che quel pezzo di mondo è concesso non soltanto dalle scelte dell’azienda produttrice, ma anche dalla Pro Loco e dall’Azienda del Turismo che hanno deciso di posizionare il cannocchiale in un punto e non in un altro. 

Il cannocchiale – la base esagonale, la sua lente – è prodotto dai lavoratori di un’azienda. Altri lavoratori, con le sembianze momentanee da turisti, inseriranno una moneta per acquistare la quantità di tempo necessaria a vedere qualcosa. Infine, un altro lavoratore ritirerà il denaro.

L’energia di una moneta: ecco cosa ne pensava Franco Cordelli.

«Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa».  

Se utilizzassi il Metodo Franco Cordelli, dovrei prendere una frase scritta da Franco Cordelli, una frase a caso. Per esempio, «alzare i tacchi». Ah, non la sentivo dalle cattive traduzioni dei noir americani anni Quaranta o dai doppiaggi dei film western della stessa epoca: ehi, Frank, bevi questo cicchetto, alza i tacchi e smamma. Ma sarebbe ingeneroso demolire la scrittura di Franco Cordelli per una frase, sebbene, alzare i tacchi, non sia ripetuto dal personaggio di un libro di Franco Cordelli, ma proprio da Franco Cordelli in un suo testo. Eppure, Franco Cordelli ha adoperato con l’energia di una moneta il Metodo Franco Cordelli sottolineando, «non è un bello scrivere». Eh, sì, siamo ancora a «non è un bello scrivere». Quando ho letto la sottolineatura di Franco Cordelli, mi sono immaginato a otto anni, in pantaloncini corti, mentre scrivevo alla lavagna, per punizione.

Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere…

Sono stato fortunato, ho avuto una ottima insegnante alle elementari e non il magistrale maestro Franco Cordelli. Non è un bello scrivere. Più si ripete e più diventa una frase ridicola, eppure perde presto il suo aspetto ridicolo e diventa soltanto straniante. Non è un bello scrivere. Un bello scrivere. 

Io amo un bello scrivere. Tu ami un bello scrivere. Noi amiamo un bello scrivere.

La letteratura è tutta lì, secondo Franco Cordelli. Ma la sua critica – ininfluente dal punto di vista letterario e poetico – è deludente dal punto di vista visivo e politico, e quindi, dal punto di vista di un artista. È ciò che ho pensato guardando lo spicchio del Lago di Lugano, la mattina dell’11 marzo 2022. Significa negare il fatto che per guardare una fetta di mondo con il cannocchiale occorra pagare. Significa esaltare l’ideologia dell’evento, l’evento avulso da un qualsiasi contesto che non sia quello turistico e commerciale, per evidenziare la centralità del belvedere da magazine, l’ideologia del paesaggio privo di conflitto, la visione ripulita, a pagamento. Significa negare che per guardare e avere l’illusione di guardare, serva introdurre una moneta, e quella moneta è guadagnata con il lavoro, un qualsiasi lavoro, come quello di mio padre quando ero bambino, o quello di Franco Cordelli, che scrive un articolo per la Lettura. Nel mio caso, l’energia di una moneta è un omaggio all’energia profusa (profusa la utilizza anche Bufalino, forse non sarò sanzionato per questo) da mio padre nel lavoro, la vita che passa, la morte; e ciò che resta, a volte, è anche qualche immagine guardata e vista, vista assieme: e quindi, resta moltissimo. E nulla quanto alcuni oggetti analogici mi sembrano adatti al passaggio dal Novecento al capitalismo dell’attenzione, o meglio, al capitalismo della disattenzione, e al meccanismo grazie al quale le persone non leggono davvero, non guardano davvero, e non vedono, mai.

Quando ero bambino, andavo con i miei genitori e mia sorella su un belvedere in provincia di Como. Questo luogo era a metà strada tra la sponda occidentale del Lago di Como e il Lago di Lugano: Vetta Sighignola, ribattezzata dal Comune di Lanzo d’Intelvi, Balcone dItalia. Era un piazzale, un parcheggio balconato dal quale, a 1300 metri d’altezza, si vedeva il confine, la vicinissima Svizzera, il Lago di Lugano. C’era un cannocchiale a gettone, chiedevo a mio padre una moneta. Ero sempre emozionato e ansioso, non appena la moneta precipitava nell’oggetto di ferro; ero anche triste, mi sentivo in colpa, stavo utilizzando una porzione del tempo di mio padre, l’energia di mio padre per guadagnare denaro, l’energia trasferita dal corpo al denaro: l’energia di una moneta

E così la mattina dell’11 marzo 2022, più che a Franco Cordelli e ai suoi tacchi, ho pensato a mio padre, alla fine degli anni Settanta, a quando guardavamo assieme il Lago di Lugano alternandoci al cannocchiale, ma in fretta, per non consumare il poco tempo che ci era concesso. Sprecavo una moneta, avevo l’illusione di guardare un pezzo di Svizzera, l’illusione di fuggire, o meglio, di evadere per qualche secondo, almeno con lo sguardo, dall’Italia. 

(«Allora ritorniamo alla nostra utilitaria. Siamo già altrove. Immaginiamo l’uomo che passa ogni lunedì mattina, apre la pancia del cannocchiale per raccogliere le monete. Se fossimo diversi da come siamo, ci piacerebbe pensare che, oltre ai soldi, l’uomo possa raccogliere anche i nostri minuti di immagini guardate, per metterle nel retro del furgone e portarle nel mondo. Ma noi non siamo così. Ci basta vedere l’uomo fermo, al semaforo, mentre impreca, dice qualcosa, un’invocazione o una bestemmia che non udiamo, l’uomo ha i finestrini chiusi, serrato nell’aria condizionata del furgone, e allora sentiamo una voce che nemmeno ci parla, è precedente alla parola, all’immagine: strano essere qui, adesso»).

ARTICOLO n. 96 / 2024