ARTICOLO n. 48 / 2021
LE RADICI DEL GHIACCIO
Sono sveglio prima degli altri, come spesso accade. Il silenzio attorno a me è assoluto.
Le notti nell’Artico hanno qualcosa di speciale. Non dimenticherò mai la prima volta che ho dormito qui: l’emozione di essere a diretto contatto con il ghiaccio maestoso, la luce del Sole che non sparisce mai, vera e propria compagna di vita di chi fa il mio mestiere. Ho sempre avuto l’abitudine di svegliarmi presto e una volta sveglio non sono in grado di riaddormentarmi; un’inclinazione che con la paternità si è acuita ancora di più e che non mi ha più abbandonato.
Il primo «esercizio» mattutino in mezzo ai ghiacci dell’Artico è quello di vestirsi, e non è così semplice come si potrebbe pensare. Per affrontare il mondo che ci attende al di fuori della tenda occorre infatti indossare più di uno strato. Qualcuno la chiama vestizione a cipolla: diversi strati dal diverso spessore e dalla diversa funzione, uno per il vento, un altro che serve come base a contatto con il corpo, un altro ancora come strato intermedio.
È un esercizio di contorsionismo puro: la tenda non è più alta di mezzo metro, perciò tutte le operazioni devono essere coordinate. I pantaloni vanno infilati dondolandosi sulla schiena, quindi, seduti a gambe incrociate, si infilano i diversi strati superiori; poi, è la volta dei calzini, doppi e spessi, che fanno fatica a scivolare sui piedi ormai freddi. Primo comandamento: mai usare cotone. I nostri abiti ci tengono al caldo perché intrappolano l’aria calda vicino alla pelle, ma quando il cotone si bagna cessa di funzionare poiché le sacche d’aria nel tessuto si riempiono d’acqua. Quando camminiamo e sudiamo l’indumento di cotone assorbe il sudore come una spugna e se l’aria è più fredda della temperatura corporea (come accade in Groenlandia), sentiremo un certo freddo, con i vestiti ormai saturi e incapaci di fornire l’isolamento necessario. Ecco perché i nostri abiti sono sempre di materiale isolante, che sia lana, oppure sintetico.
Mi avvicino alla cerniera lampo dell’ingresso della tenda. Ci metto un’attenzione estrema per non svegliare i miei compagni di viaggio e di ricerche: quel fruscio metallico in una situazione normale sarebbe quasi impercettibile, ma qui ogni piccolo rumore viene amplificato. Le nostre tende sono quelle da campeggio, «quattro stagioni» come si dice in gergo. Sono leggere e si montano in meno di venti minuti, con il materiale esterno impermeabile che ci protegge dalla pioggia, presente anche in Groenlandia. Molti pensano che le tende siano fredde, ma in generale, non è così. Specialmente quando il cielo è limpido, il forte Sole della Groenlandia ne riscalda l’interno a tal punto che dobbiamo tenerle aperte per favorire la circolazione dell’aria fredda prima di andare a dormire. Ciò è ancora più vero in piena estate, quando il Sole non tramonta mai. Il nostro accampamento, come dicevo, è immerso in un silenzio siderale; il sibilo del vento – a volte costante, a volte ritmato – è l’unica sorgente di inquinamento acustico, se di inquinamento possiamo parlare. Tiro infine giù la cerniera e il rumore che fa mi sembra quasi quello di un’esplosione. È normale: il suono in fondo non è altro che la trasmissione di onde di pressione che, una volta raggiunto l’orecchio, vengono ricodificate dal cervello; in Groenlandia la rarefazione dell’aria e l’assenza di altre fonti sonore danno l’impressione che i suoni più comuni della quotidianità acquistino un timbro differente, altrove inaudibile. Forse è la stanchezza, forse solo un’allucinazione sonora; forse il freddo che gioca con i nostri sensi.
Esco carponi, mi allungo sullo stuoino di materiale impermeabile che abbiamo lasciato all’ingresso. Mi siedo. Serve un ultimo sforzo, quello di infilare gli stivali sui calzini di lana, troppo spessi, ma necessari. Mi sento già stanco. Stanco, e però allo stesso tempo eccitato all’idea di ciò che ci aspetta: ogni avventura, ogni imprevisto dovrà essere risolto solo ricorrendo agli oggetti che abbiamo portato con noi. Quando si è in mezzo al ghiaccio della Groenlandia non si ha il lusso di andare al supermercato o dall’elettricista nel caso qualcuno avesse dimenticato di portare un cacciavite o un rotolo di spago.
Se gli altri si sono svegliati non lo danno a vedere; sotto la tenda si percepisce solo il ritmo di respiri diversi. È stata una di quelle notti che mi piace definire «interessanti», quando qualcuno si sveglia e ti sveglia, ponendo a bruciapelo una domanda, facendo balenare un’idea o – più frequente – avendo sentito qualcosa che lo ha messo in allarme. Questa notte è toccato a Patrick. È stato uno dei miei studenti di dottorato, non ha mai lasciato New York e ha studiato la Groenlandia esclusivamente dai satelliti o sui modelli. L’ho invitato a unirsi a noi non solo per offrirgli una (meritata) possibilità di crescita professionale ma anche perché la potesse sperimentare dal vivo. Sono convinto che tutti coloro che studiano questa immensa e meravigliosa distesa polare debbano, almeno una volta nella vita, visitarla di persona. Patrick mi ha svegliato che saranno state le tre. Era un po’ agitato, mi ha domandato se avessi sentito un forte rumore, come un rombo, qualcosa di strano proveniente dal ghiaccio sotto di noi. «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno non farti scrupoli, svegliami anche fosse notte fonda» gli avevo detto appena atterrati. Ed ecco che lui mi aveva preso in parola.
Ho cercato di rassicurarlo, gli ho spiegato che spesso il ghiaccio genera rumori, che a volte, visto il silenzio assoluto che ci circonda, si tratta solo d’impressioni. Ciò che si sente, di solito, è un rumore cupo, come ci fosse qualcosa che si sta spaccando sotto di noi; ricorda il suono di una pietra enorme che atterra su un terreno montuoso. Gli ho detto di tornare a dormire, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Non che io fossi convinto al cento per cento delle mie parole, ovviamente: in mezzo all’Artico occorre stare attenti a qualsiasi piccola cosa. Dopo pochi minuti dalla chiacchierata con Patrick ho iniziato a sentirlo anch’io, il rumore di cui parlava: è il ghiaccio che scorre sotto di noi, potente, inesorabile, con una velocità che in estate, in superficie, può raggiungere anche diverse centinaia di metri al giorno. Per intenderci su quanto sia rapido tale spostamento, è come se stessimo a Roma, piantassimo la tenda in piazza di Spagna e ci svegliassimo il giorno dopo a piazza del Popolo. Patrick ha colpito nel segno. Io non sono più riuscito a prendere sonno: da un lato sono preoccupato, dall’altro eccitato. Ho i muscoli tesi, l’udito attento a ogni rumore, anche il più impercettibile. Mi sembra quasi di stare auscultando il respiro di un dinosauro, solo con i miei pensieri.
Il fluire del ghiaccio è un fenomeno poco noto; molti credono che il ghiaccio della Groenlandia (così come quello degli altri ghiacciai) sia immobile, statico. Materiale inanimato. In realtà è il contrario. Come gli antichi greci ci insegnano, panta rei: tutto scorre. E anche il ghiaccio scorre, come un fiume denso che fluisce per effetto del proprio peso. Rallenta d’inverno, quando è più freddo ed è meno fluido. Ma d’estate è come discendere una collina su una strada bagnata, non c’è freno che tenga. Durante la stagione «calda», l’acqua penetra nel ghiaccio attraverso crepe e fratture e, una volta raggiunta la roccia sulla quale quest’ultimo scivola, ne lubrifica la superficie, favorendone un’ulteriore accelerazione.
A questo stavo ripensando mentre guardavo gli stivali che finalmente sono riuscito a infilarmi. Quelli che indosso adesso non sono gli stessi che userò per la nostra escursione, sono alti fino al polpaccio e poco adatti a camminare, ma perfetti per la vita al campo. Hanno un’imbottitura tale da proteggere i piedi da temperature fino a −40 gradi centigradi. I miei, di piedi, non sentono ragioni e sono freddi dal momento in cui esco dalla tenda fino a quando rientro a fine giornata. Spesso mi sento dire: «Tu devi essere abituato al freddo e non ci fai caso». Ahimè, è invece vero il contrario: io sono di costituzione longilinea e ho poca massa che mi può aiutare a mantenere il calore del corpo. Gli stivali che utilizziamo durante l’escursione sono scarponi da montagna o da ghiaccio. Hanno una struttura più rigida che favorisce la stabilità delle caviglie e riduce il pericolo di distorsioni ma, al tempo stesso, proteggono meno contro il freddo.
Una volta fuori mi accomodo sulla sedia pieghevole vicino l’ingresso della tenda. Ho una gran voglia di una bella tazza di caffè bollente, ma meglio aspettare che siano tutti svegli. Continuo a vagheggiare, quasi fossi ancora tra veglia e sonno. Penso a come sia impossibile quantificare, dandole un valore economico, la fortuna – non trovo una parola migliore per definirla – che ho nel ritrovarmi al cospetto del paesaggio che sto osservando. Qui, in silenzio, circondato da neve e ghiaccio.
Chi non è mai stato nell’Artico avrebbe di certo delle sorprese, anche solo a un primo sguardo. Quello che mi trovo di fronte è tutt’altro che un paesaggio monotono o piatto. Dune di neve dalle dimensioni di pochi metri sono allineate lungo la direzione principale del vento, più o meno come in un deserto. Quando abbiamo sistemato le tende siamo stati costretti a tenere conto anche di questo: capire da dove soffiava il vento, per evitare che riempisse i nostri alloggi con la neve che luccica, come fosse ricoperta di piccoli preziosi diamanti. Il luccichio, che mi ricorda le grandi onde cavalcate dai surfisti nelle Hawaii o sulle spiagge di Rio de Janeiro, nasce dalla frammentazione dei fiocchi di neve dopo che sono caduti al suolo. È dovuta al vento e ad altri fattori che li spezzano, letteralmente, in piccole parti e li orientano in maniera del tutto casuale. Questi fiocchi di neve – o meglio ciò che ne rimane – agiscono quasi fossero una moltitudine di minuscoli specchi che, sparsi sulla superficie, riflettono la luce del Sole in tutte le direzioni. Ecco perché vediamo il luccichio.
Continuo a osservare ammirato. Il velo di neve che è stato soffiato via dal vento dipinge figure circolari che seguono il profilo della brezza polare. È come se dietro di me ci fosse un pittore che avesse deciso di aggiungere questi dettagli al quadro che sto guardando. Qualcuno che, dopo aver posto del colore su alcuni punti dell’orizzonte, abbia deciso di stenderlo usando il pennello come una spatola. Il cielo turchese – un turchese unico a causa dell’atmosfera più sottile e meno umida rispetto alle latitudini meridionali – fa da sfondo ai miei pensieri: è un colore maestoso, che seppure non sia dotato della potenza delle nubi cariche di pioggia nelle campagne inglesi o di quella repentina violenza tipica dei temporali equatoriali, si manifesta come una grande onda di colore. Maestoso ma fermo, consapevole della propria grandezza e della propria forza senza alcuna necessità di ostentarla.
La vastità che il cielo abbraccia in queste zone è ciò che lo definisce. I due elementi, il cielo e il ghiaccio, condividono lo spazio, autocrati cromatici che non lasciano il campo che al blu e al bianco. Ho un flashback. Mi viene in mente quando, tornando in elicottero dal mio primo viaggio tra i ghiacci della Groenlandia, ho rivisto – dopo tante settimane – il verde della tundra, il rosso e le varie sfumature del terreno brullo. È stato in quel momento che ho capito, che mi sono sentito come se, durante quei lunghi giorni passati sul ghiaccio, fossi stato in grado di ascoltare e pronunciare solo alcune parole. Come se qualcuno avesse tagliato una parte del mio vocabolario cromatico e della mia stessa persona.
È una piacevole desolazione quella che il ghiaccio mi propone di fronte agli occhi. Infonde un senso di pace, di tranquillità. Mi lascio avvolgere da questo stato a metà tra il sogno e la veglia, come fossi su una scialuppa che dondola in un mare calmo. Qui non esiste il tempo come lo intendiamo altrove; è qualcosa che mi ricorda il tempo «geologico» della mia terra d’origine. Non mi serve un orologio; non posso e non ha senso controllare le ultime notizie, scaricare un nuovo album. Qui lo scorrere delle ore per come siamo abituati a viverlo non ha nessun valore.
Il ghiaccio è un elefante, io una cellula. Quello della Groenlandia impiega migliaia di anni a formarsi: anno dopo anno, la neve che si ammassa e che non fonde durante l’estate viene letteralmente sommersa da altra neve. La Groenlandia nasce e si sviluppa grazie all’azione di milioni di minuscole particelle, grazie ai fiocchi di neve che si accumulano gradualmente con il passare del tempo. Sotto il proprio peso la neve si comprime, espellendo l’aria e trasformandosi in ghiaccio fino a raggiungere la densità il cui valore è dogma per gli addetti ai lavori: 917 chili per metro cubo. Novecentodiciassette. Questo è il numero magico, cabala polare: la struttura geometrica del ghiaccio lascia meno del 10 per cento del volume all’aria, mentre il resto è occupato da acqua in stato solido. È un processo costante quello della formazione del ghiacciaio, che va avanti per decenni, per secoli, per millenni. Non appena raggiunta una massa «critica», il ghiaccio comincia letteralmente a «fluire» sotto il proprio peso. Ancora una volta la gravità, questa misteriosa e affascinante forza naturale, forgia il mondo che ci circonda.
A fondersi il ghiaccio impiega poco tempo: il lavoro lento e certosino della natura viene reso vano in una giornata, forse anche meno. La vasta distesa congelata si muove seguendo un ritmo naturale, a dispetto di noi, cellule impazzite nella società moderna, che ci spostiamo frenetiche, cercando di afferrare tutto prima che il prossimo stimolo digitale appaia sullo schermo del nostro telefonino. Come un virus che attacca tutto e tutti, noi, piccoli esseri umani, siamo riusciti, con le emissioni di gas serra e il riscaldamento globale, a minacciare e mettere in ginocchio persino la maestosa Groenlandia.
Al centro di questa terra polare, lì dove è più spesso, il ghiaccio ha un’altezza che può arrivare fino a circa 3 chilometri, per poi ridursi fino ad alcune centinaia di metri lungo la costa, dove confluisce verso l’oceano come un fiume di lava perlato. Le sezioni di ghiaccio più profonde sono le più antiche, quelle che hanno subito la maggiore pressione e che giacciono sulla roccia granitica da migliaia di anni. A mano a mano che il ghiaccio scorre verso l’oceano, e si prepara a tornare alla propria fonte d’origine, fonde in superficie, diluendo una parte della sua memoria con il mare stesso. Gli strati di ghiaccio depositati in periodi diversi vengono deformati, ondulati, fusi insieme dal continuo scorrere, così che la superficie si confonde con le radici.
Ripenso agli ultimi dettagli degli esperimenti, ripetendo a mente le diverse azioni da fare e non fare. Stiamo per raccogliere i dati che ci aiuteranno a capire quanto il cambiamento climatico stia influenzando la fusione di questi ghiacci e come ciò stia, a sua volta, influenzando l’innalzamento del livello dei mari. Studieremo non solo l’impatto dell’aumento delle temperature sulla formazione e sull’evoluzione dei sistemi di fiumi e laghi contenenti l’acqua derivata dalla fusione, ma anche come il Sole – e il fatto che il ghiaccio stia diventando più «scuro» – giochi un ruolo fondamentale. Sappiamo, però, che la Groenlandia è molto più di tutto questo. Noi siamo qui anche per scoprirla, per assaporarla, per assorbirla.
Guardo e sogno, sogno e penso. Penso alle mie origini, alle mie radici, che a volte temo siano state sradicate quando ho lasciato l’Italia. Ripenso a quella parte del Sud dalla quale provengo: terra dura, ricca, dove le radici – per tutti coloro che vivono ancora lì o che sono rimasti legati a doppio filo pur non vivendo più là da molto tempo – van‑ no in profondità. Radici che rappresentano un punto cardine della mia esistenza: qualcosa che mi definisce e mi influenza anche nel mio paese d’adozione, gli Stati Uniti, dove risiedo da ormai molti anni. Le radici legano, trattengono, avvolgono, stritolano; ci danno più stabilità, ma ci rendono anche più difficile concepire un vero cambiamento. Ci si trasforma lentamente, a poco a poco, come seguendo il pulsare di una linfa che dal terreno inerte irrora il tronco, i rami e le foglie.
Il torpore del mattino, la stanchezza accumulata e quella grande voglia – o meglio, quel bisogno – di caffè, per un brevissimo istante, mi rendono quasi allucinato. Immagino radici che sprofondano nel terreno gelato, radici mobili, che si spostano seguendo lo scorrere del ghiaccio e insieme lo scorrere del tempo. In questa mattina fredda dell’Artico mi sento a mio agio seguendo questo pensiero: anch’io in fondo mi sono spostato lontano dal mio luogo d’origine. Un movimento necessario per far nascere nuovi rami e nuove fronde che, a loro volta, hanno potuto crescere succhiando la linfa dalle radici originali, irrobustendosi e allargandosi grazie a spore e altri materiali seminali.
Il ghiaccio, con il suo statico dinamismo, mi ricorda un po’ me stesso.
— Il testo di Marco Tedesco con Alberto Flores d’Arcais è ripreso dalle pagine di Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare