ARTICOLO n. 64 / 2023
Di Sofia Silva
LE MIE LACRIME EVAPORANO
La temperatura dell'estate
Da un decennio faccio finta che non sia estate. Questo perché l’estate italiana è pura cronaca, un canale all-news che alterna barbecue, roghi e stelle cadenti.
Scrivo questo primo paragrafo a inizio giugno e già immagino i dolori dell’estate: scemeranno i titoli che sostituiscono a “catastrofe climatica” la parola “maltempo” e inizieranno le perifrasi per descrivere l’Italia che brucia. Qualcuno in settembre dirà che un’alta percentuale di roghi dolosi è dovuta a “povera gente” che fa danno per ledere il vicino, far crescere gli asparagi selvatici, non annoiarsi, stanare i cinghiali. Gesù, i cinghiali – inizieranno i servizi sui cinghiali nell’Urbe deserta, sui cassonetti che bruciano, sulle code, sulla necessità di idratarsi col gelato gusto frutta ché la crema fa ingrassare, sull’escherichia coli e gli enterococchi nelle acque calde e sporche. Qualche sudato amministratore si mostrerà scandalizzato perché un tedesco in mutande si è tuffato in un canale di Venezia, nella prospettiva di multare persino i bagnanti nei teleri di Gentile Bellini; qualche politico commenterà le azioni estive di Ultima Generazione (che nell’agosto 2022 si incatenò alla Cappella degli Scrovegni, l’unica immagine dolce come la giustizia dell’intera stagione) e lo farà con parole tanto bonarie quanto inascoltabili. I social perderanno l’unica utilità di strumento di divulgazione professionale, per mostrare foto di paradisi naturali che porteranno alcuni a pensare di provare invidia quando no, non la proveranno più, perché l’invidia richiede immaginazione. Poi arriverà l’ecfrasi degli storyteller novecenteschi, i templari della Sammontana: scrittori, poeti, editorialisti, tendenzialmente Millennial, determinati a liricizzare tutto, tovaglie onte, teste di triglia, latte di Coca-Cola tra i cardi, schedine dell’Eurojackpot aggrovigliate alla lattuga di mare. Filtrata dalla loro penna l’estate italiana è un sospiro languido e dorato; la Morte è in ferie, il caldo ci accarezza, tutti sono innamorati. E poi di nuovo cinghiali.
L’estate. Proprio oggi leggo sui quotidiani che la Procura di Padova, la mia adorata città, ha impugnato 33 atti di nascita, dal 2017 a oggi, di figli di coppie omogenitoriali, dichiarandone illegittimo già uno. I bambini si troveranno orfani di un genitore davanti alla legge. I fratelli non saranno più fratelli. Il Procuratore esclude ripercussioni sulla “vita sociale” della bambina a cui è già stato negato il secondo genitore; e la vita interiore, psichica, il simbolico di quella bambina, chi lo tutela quello? Quale estate dovrebbe mai iniziare con una notizia così?
Inutile dire che c’è l’idea di estate italiana, e l’estate stessa. Ogni ventuno di giugno inizia il dickensiano Canto d’Estate, prendiamo per mano un tizio smunto con i braccioli, lo Spirito dell’estate passata: rivediamo la piazza di campagna piena di passerotti che saltellano tra le chips, oggi sbranati dai gabbiani; di sera corriamo verso il campanile inseguendo il garrito delle rondini, oggi ingollate dai falchi. Con le palpebre socchiuse e impastate di crema solare, udiamo la cantilena del Cocco Bello e il papà sbuffare perché qualche altro bimbo gli ha spruzzato il giornale con l’acqua di mare; il nostro sudore profuma di lenzuola d’albergo e ci innamoriamo di qualsiasi ragazzino che abbia il caschetto di DiCaprio. Il nostro nostalgico amico, lo Spirito, ci dà un bacino e ci si scioglie appresso, lasciandoci alla mercé di un sole antagonista.
L’estate italiana è dei bambini, agli adulti ormai si dovrebbe chiedere solo di arginare i danni e sopravvivere moralmente. E proprio per elargire un consiglio in merito alla sopravvivenza morale ho deciso di unirmi a questa serie estiva dedicata all’idea di temperatura.
Il mio consiglio: piangere leggendo, piangere copiosamente nella giornata più calda della stagione; affrontare una catarsi che frigga insieme moccio e sudore, questo è l’unico modo per resistere all’Italia che ci si scioglie tra le mani.
Nel giorno torrido dell’estate 2022, la più calda dal 1979 e quella che ha segnato la più grave siccità in Europa nel corso di cinquecento anni, sdraiata in un posto indefinito lungo la costa Est sudavo l’acqua che non avevo bevuto, mi ricoprivo la pelle fototipo 1 di bolle, mentre il naso si intasava poiché leggevo e rileggevo i ricordi di Edith Eva Eger e in particolare la pagina in cui si separa definitivamente dalla madre davanti all’ingresso di Auschwitz. L’anno prima si consumava la medesima scena lungo la costa Ovest con un libro di Mario Tobino, Per le antiche scale, che racconta l’andirivieni in un manicomio lucchese poco dopo la metà del secolo; meno straziante a livello oggettivo, ma commovente per me che sono affettivamente ossessionata dagli alienati. L’estate antecedente era stato il turno di Tutti i viventi di C.E. Morgan, che mi aveva commosso pazzamente ma non ricordo perché, rammento solo che mia cugina chiese: “Cazzo piangi ancora?”. L’anno prima fu la volta di un paginone della nostra migliore scrittrice, la Rosa Matteucci, che ho il privilegio di chiamare amica; non ricordo se per una scena con il padre o in memoria di un infante, fatto sta che le telefonai con voce spezzata e lei, sempre contegnosa, mi liquidò con un “Caretta sto marciando”. Quest’anno penso di essermi bruciata il libro più straziante in maggio, Come d’aria di Ada d’Adamo, la storia della scrittrice, ancor giovane madre malata di cancro e di sua figlia, affetta da una grave patologia. La narrazione piena di grazia dei loro corpi esili, sofferenti e dipendenti, del destino di uno quando sarà privo dell’altro, s’intreccia al pulsare sociopolitico di temi come l’aborto terapeutico, il dopo di noi, le barriere non solo architettoniche, attraversati da queste due creature massimamente femmine.
Ricercare lacrime interpersonali, che esulano dai propri dolori, nei giorni in cui gli italiani si dimenano per celebrare l’idea di estate, offre conforto. Tiene saldi alla vita, impedendo a questo nemico, il nuovo caldo, di bruciare la coscienza. Forse la mia è solo una versione alfabetizzata dell’ideale dell’ostrica di verghiana memoria, il “tenace attaccamento” della povera gente allo “scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, la “rassegnazione coraggiosa” all’affanno, quando si è sostenuti da alcuni valori. Forse lo scoglio cui sta attaccata la mia ostrica è il dolore corale, oggi soppiantato dalla sua confusa sorella, la rabbia.
La rabbia divora se stessa oltre che la mia siesta. Gradi 32, sdraiata sul divano ascolto una voce provenire dalla radio, un dirigente privo di biografia utilizza parole populiste per annientare il concetto di agroecologia. Sento: “tradizione” – mi assopisco pensando che non va bene che persino gli agricoltori abbiano cominciato a starmi sulle palle – “melanzane…”. Zzz. Questo problema dell’essere privi di biografia è penetrato nel mondo dell’arte: artisti bravissimi, privi di biografia. A dover raccontarne la vita dopo i diciotto anni, si elencherebbero le mostre in istituzione; per fortuna che le privazioni infantili spesso corrono in soccorso al discorso biografico, altrimenti costoro sarebbero per la maggior parte grandi professionisti, alla meglio professionisti con vizi. Mi sveglio, qualcheduno su Radio3 parla di Botticelli, ma io ho cominciato a odiare persino Botticelli e pure questo non va affatto bene. Nel mio dormiveglia dittatoriale, sogno di rinchiudere La Nascita di Venere nel deposito degli Uffizi, privando ben tre generazioni di Italiani di quella composizione lassista. L’arte negata è arte politica. Zzz. Un’intervista a un bagnino. Zzz. Il meteo.
Se la temperatura delle estati d’adulta è quella che permette alle lacrime della mia catarsi arrostita di seccarsi sulla pelle, da ragazzina era la temperatura della Resistenza. Al liceo, l’intera classe fuorché la sottoscritta adorava il professore d’italiano. Il prof era borbonico, penso, e dava da sei in su onde poter dire in classe quello che gli pareva. I miei compagni mangiavano la carota, felici di avere un professore così bonario. Questo individuo dell’Italia che fu aveva un programma culturale riassumibile in: Tomasi di Lampedusa, Federico de Roberto, tutti i librettisti d’opera e stop. Di conseguenza la mia scaletta di letture estive doveva compensare le lacune dell’anno scolastico: sotto l’ombrellone si portava Pratolini, Fenoglio, Vittorini, i lenti vagoni dei loro treni, la polvere sulle loro suole. Mi sembra archeologia, l’idea che una ragazzetta veneta litighi su Fontamara con il proprio professore abruzzese, però l’esempio è utile a suggerire l’idea di quanto sia cambiata, almeno per me, la temperatura dell’estate. I venticinque gradi percepiti di allora accompagnavano la mia scaletta estiva di libri utili a conoscere l’Italia magica che mi aveva preceduta, i 35 gradi di oggi accompagnano lo scalone di libri dolenti che aiutano la mia coscienza a rimanere salda, contro ogni canale all-news, contro chi fa spallucce se interrogato sul prelievo dell’acqua per uso agricolo, contro il gelato al pistacchio come unico pasto, contro il mirabolante evento di ritrovarsi un cinghiale nel cassonetto.