ARTICOLO n. 14 / 2025

LA TUTA DENTRO

a proposito di "noi e loro"

Uno dei tre personaggi maschili del film di Delphine e Muriel Coulin – Noi e loro (Jouer avec le feu), tratto dal romanzo di Laurent Petitmangin, Quel che serve di notte (Mondadori) – si chiama Fus. 

Il suo vero nome è Felix ma tutti lo chiamano Fus. La madre lo chiamava così perché Fus deriva da Fußball, ovvero calcio, in tedesco. La famiglia Hohenberg vive a Villerupt, Lorena, cittadina a cinquanta chilometri da Metz e a quindici dal confine lussemburghese. Insomma, il cuore dell’Europa, come si usa dire in questi casi, visto che la regione francese è confinante con Lussemburgo, Germania, Belgio. 

La madre è già morta all’inizio del film, la madre pare morta da sempre, quasi che la sua fine contenesse tutto il dolore possibile, indelebile, anche quello trattenuto in un abbraccio di gioia fra i tre sopravvissuti della famiglia. 

Ecco che allora il soprannome assegnato dalla madre al primo figlio – un vero e proprio lascito – appare ancora più significativo. Fus, ventitré anni, è figlio di Pierre, ruolo interpretato da un convincente Vincent Lindon, vincitore della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. 

Pierre lavora come addetto alla manutenzione ferroviaria. Lavora spesso di notte, avanza lungo i binari con una fiaccola accesa. A sessant’anni, in un’altra epoca, sarebbe già in pensione e riporrebbe la pettorina statale marchiata SNCF, che certifica, comunque, ancora oggi, un forte senso di appartenenza tra gli operai. 

Inciso, che non interessa a nessuno, o quasi: se fosse stato un film italiano con un personaggio italiano – chiamiamolo Piero – nella stessa mansione di Pierre, il personaggio italiano avrebbe avuto, rispetto al francese, almeno cinque anni in più di lavoro prima di arrivare alla pensione, e avrebbe indossato una pettorina anonima, perfetta per occultare un subappalto del subappalto. Ma torniamo al film.

Pierre è stato, in gioventù, un militante socialista, e non ha cambiato idea politica, ma il lutto lo ha chiuso all’interno della famiglia, quasi che il distacco dall’impegno sia stato giustificato da una cura maggiore verso i due figli, per supplire all’assenza materna.

Il figlio minore di Pierre, a differenza di Fus, non ha alcun soprannome. Si chiama Louis, ha vent’anni e sta cercando di essere ammesso alla Sorbona, eventualità che comporterebbe il trasferimento nella capitale. Fus, invece, non studia né lavora. Segue, a fatica, corsi metalmeccanici. Passa le giornate in compagnia degli amici o a dormire dopo una nottata trascorsa fuori; quando si alza, si aggira per la casa in tuta; durante il weekend frequenta la curva calcistica e gioca in una squadra di dilettanti. A ventitré anni, diventare un professionista è quasi impossibile ma Fus continua a giocare, forse per assolvere al lascito materno, al proprio soprannome. E poi il calcio, così come la curva, è un buon modo per scaricare l’aggressività. 

Una rabbia tuttavia ben camuffata in famiglia, tant’è che il padre, almeno in apparenza, nemmeno si accorge delle frequentazioni di Fus, membro di un gruppo di estrema destra.

Il film oscilla tra l’impegno civile e il dramma familiare, presenta nuove occasioni per porci alcune domande. È possibile continuare ad amare un figlio qualora sia affascinato dall’estrema destra? Diventerebbe un corpo estraneo oppure cambierebbe il nostro approccio verso la politica? Fino a quale punto può arrivare il perdono a seguito di un atto violento? Perché la destra e l’estrema destra piacciono? Perché la destra e l’estrema destra sembra che abbiano consenso più dei voti reali? Perché molti giovani credono che la destra e l’estrema destra non siano asservite all’ideologia neoliberale tanto quanto gli odiati progressisti o, appunto, i liberali complici, collusi con la destra e l’estrema destra? 

La famiglia di Pierre Hohenberg non abita in una periferia metropolitana degradata, bensì nella zona residenziale di una cittadina di novemila abitanti. È una modesta, graziosa casetta a due piani ubicata in fondo a una via chiusa; è decadente quanto basta, ha un po’ di giardino utile per passarvi i pomeriggi nella bella stagione, tra l’altalena che conferma il passare del tempo e la porta da bambini, usata da Fus per giocare a pallone assieme al padre e al fratello. 

Queste condizioni sono bastate a Louis per crescere con una speranza nel futuro, un futuro, forse, migliore, raggiunto attraverso lo studio, l’università. Certo, qui, sarebbe stato utile soffermarsi anche su Louis e non soltanto sul deragliamento ideologico esistenziale di Fus. Cosa combinerà, Louis, dopo una laurea in lettere? Farà il volontario in qualche festival letterario mentre il gruppo di potere che gestisce il festival si spartisce soldi e benefici indotti, correlati alla loro funzione? Seguirà uno stage in una casa editrice? Farà il commesso in una libreria di catena? Diventerà un insegnante? Troverà un lavoro qualsiasi, un lavoro che Fus ha rifiutato?

Le condizioni ideali per Louis – cittadina, casetta, giardino – hanno condotto Fus a diventare un fascista, disilluso e rancoroso verso qualsiasi forma di aggregazione sociale che non sia il gruppo di amici fascisti; Fus alterna questo suo rancore a piccoli frammenti di affetto verso il padre e il fratello. Eppure, se Fus vive in quella graziosa casetta, se il padre ha ancora abbastanza soldi per mantenere due figli con il suo lavoro da operaio, è merito anche di quel sistema detestato da Fus; se Fus guida una moto, se ha i soldi per riempire il serbatoio e tracannare birra, lo deve a ciò che resta del sistema novecentesco che ha garantito al padre un lavoro duro, con turni notturni, ma retribuito il giusto.

Un lavoro che, tuttavia, non permette al padre di mantenere Louis all’università, a Parigi. Infatti, di fronte alle regole senza regole del mercato, ecco che la rete di amicizie di Fus consente di trovare un piccolissimo monolocale a un prezzo di poco inferiore rispetto a quanto richiesto dal mercato. Insomma, per vivere in un buco, al settimo piano, senza ascensore, pagando parecchio, ma un po’ meno rispetto a quanto richiesto dal mercato, c’è da ringraziare la rete dei fascisti amici di Fus. È un mondo che si chiude in piccole patrie: l’estrema destra europea, la Francia, la Lorena – «100% Lorena (…) io ci credo», dice Fus –, la curva, la palestra ubicata in un’area industriale dismessa, il gruppo di fascisti. 
«Sono veri, sono puliti», dice Fus al padre, a proposito degli amici.

«Sono i suoi amici, Fus non è così», dice Louis, al padre, cercando di difendere il fratello maggiore, minimizzando la situazione. Ma la situazione è ormai fuori controllo, poiché anche un pomeriggio di gioia, come andare a vedere la partita tutti e tre insieme nella curva dello stadio Saint Symphorien, è intossicata dalla presenza della politica, del gruppo.

A volte vorrei essere un fascista. È confortante credere di risolvere i problemi sapendo che la colpa è di qualcun altro, e questo qualcun altro è sempre in condizioni peggiori delle tue, e per quanto questo qualcun altro viva in condizioni peggiori, è una minaccia, la minaccia, l’unica minaccia. Ah, questo qualcun altro, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo. 

Come potrebbe, un fascista, sopportare i propri fallimenti, le proprie mancanze, la propria decadenza senza questo qualcun altro? Chissà cosa pensa, Fus, per esempio, del fatto che i leader politici di destra ed estrema destra si pongano al di sopra della legge, e si lamentino recitando il ruolo delle vittime qualora una parte dello Stato – la magistratura – intenda applicare la legge; allora i leader politici di destra ed estrema destra urlano sdegnati, sostengono di essere in contatto diretto con il popolo, l’unica legge alla quale dicono di obbedire è quella del popolo, o meglio, di una piccola parte di elettorato, che tuttavia, per convenienza, scambiano per il popolo intero. Chissà cosa pensa Fus, per esempio, della libertà dal pensare, ovvero la libertà dal sapere, la libertà dalla scienza, e se non sente imbarazzo per queste sue libertà: non è una questione di titolo di studio, ma curiosità esistenziale.

Chissà cosa pensa, Fus, per esempio, della speculazione immobiliare che ti asservisce per trent’anni; e cosa pensa del cambiamento climatico, della siccità, delle inondazioni, e cosa pensa del traffico internazionale di droga che entra nell’economia, del commercio internazionale di frutta e verdura gestito dalle mafie italiane, e cosa pensa della sanità pubblica sulla quale comunque conterà in un passaggio del film. 

Non a caso, a volte, i personaggi del film, Fus in particolare, sono ritratti in primo piano, e intorno è tutto sfocato. Il paesaggio non esiste. La società non esiste, se non come sottofondo sul quale innestare il proprio smarrimento, o nel caso di Fus, lo smarrimento e la rabbia.

Eh, sì, a volte vorrei essere non soltanto un fascista, ma un ultras fascista ultracinquantenne. Godrei di impunità quasi assoluta. Se incendio un autobus, blocco un’autostrada, partecipo a una sassaiola, spaccio in curva, mi danno un DASPO.

Fuori dal recinto ideologico calcistico fascista, come minimo, la pena prevista, è dieci anni di carcere. 

La normalizzazione dell’estrema destra; la distinzione, falsa, tra destra ed estrema destra, quando è evidente che sono la stessa cosa; il flirt con i liberali europei; il camuffamento tramite le parole – non fascista, ma sovranista, populista, patriota, conservatore, ultraconservatore, euroscettico – prosegue da così tanti anni che parlarne adesso pare superfluo e insignificante, forse perché è troppo tardi. Certo, esistono alcune differenze tra quelle definizioni, ma sono le stesse differenze che possiamo riscontrare nel guardare il modello di un’auto progettato mezzo secolo fa. La serie 10 non è più la serie 1, ma è anche la serie 1, conserva qualcosa di quell’archetipo; infatti, anno dopo anno, decennio dopo decennio, l’azienda produttrice, a ogni nuova serie dello stesso modello, ha apportato piccole novità e mantenuto qualcosa della serie precedente, in modo da gratificare il consumatore e al tempo stesso tranquillizzarlo: novità & tradizione.

A dispetto di un’ideologia secolare nata durante e subito dopo la Prima Guerra Mondiale, il fascismo è il modello di prova, il primo esemplare; e in quanto tale appare ancora come il luogo della giovinezza. Ma sono ragazzi, dicono le signore davanti ai banchetti dell’estrema destra, in Europa. Già, i ragazzi posizionati con i loro volantini nei giorni di mercato. Voudriez-vous un café, madame? Oh, grazie, come possono essere davvero cattivi se mi offrono il caffè?

Anni e anni passati a normalizzare l’indifendibile mentre, a sinistra, si inaspriva il solito dibattito interno autodistruttivo, accolto con motteggi, sarcasmi, sberleffi reciproci provenienti proprio dalla stessa parte politica. Un magma di distinguo: sì, ma, però, invece. Un fluire ininterrotto di notizie condivise, riferite, analizzate, commentate, triturate, digerite, e ogni parola, in questi anni, è sembrata utile a smontare qualsiasi forma di resistenza alla destra e all’estrema destra; e ogni emoticon irresponsabile, ogni faccina infame e ogni cuoricino tiepido hanno indebolito l’opposizione alla destra e all’estrema destra e rafforzato la destra e l’estrema destra, oltre che a confondere, annichilire, frastornare.

È rassicurante chi promette, mentendo, un idilliaco ritorno al passato: tradizioni, radici, identità, costumi, valori. Eppure nessuno vuole risolvere i problemi della gente, tantomeno la gente stessa. Ah, la gente. I volti di questi leader politici così vicini alla gente? Le mani di questi leader politici così vicini alla gente? Questi leader politici hanno orrore della gente, hanno schifo della gente, gente che peraltro, talvolta, non sempre, purtroppo, ha schifo e vergogna di se stessa e quindi li vota pochissimo, poiché, in gran parte, la gente, il giorno delle elezioni, non vota. 

Questi leader politici di destra ed estrema destra provocano disgusto soltanto a guardarli in faccia, agghindati e agghindate come radical chic da loro tanto odiati. E ancor di più, provocano nausea nel sentirli parlare, e così, più parlano e meno persone vanno a votare. Questi leader politici di destra ed estrema destra criticano il sistema, ma come piace loro girare in auto, scarrozzati dagli autisti pagati dalle istituzioni che vorrebbero abbattere, a parole. In questo, sono distantissimi dall’uomo che sarebbe stato felice di vivere in un’Europa simile: Jörg Haider. 

Almeno, rispetto a loro, Haider è morto come un uomo qualsiasi, un uomo di cinquantotto anni che, in una notte d’ottobre, tra venerdì e sabato, tornava in auto, da solo, come un quadro aziendale o un agente di commercio, guidando a oltre 140 chilometri orari, una velocità doppia rispetto al limite in quel tratto di strada; guidava con un tasso alcolico superiore rispetto a quello consentito. Haider si è schiantato a bordo della berlina nera, lungo un tratto di strada percorso tante altre volte: è morto al sicuro, nella sua Carinzia

Nessuno, tra i politici contemporanei italiani, in particolare tra quelli di destra ed estrema destra – con tutto il loro codazzo di autisti, guardie del corpo, poliziotti – potrebbe morire come Haider: solo, nella notte. Quando questi politici italiani di destra ed estrema destra moriranno allo stesso modo di Haider e di migliaia di altre persone – senza autista, senza scorta – allora potranno sostenere di capire la gente. 

Tradizioni, radici, identità, costumi, valori: il solito ritornello ripetuto o ascoltato indossando prima una tuta Adidas e poi una tuta Puma, entrambe prodotte nel sudest asiatico. 

Ecco in cosa consiste la libertà dell’Occidente. 

Segare i pali della porta da bambini con gli attrezzi inutilizzati, per un lavoro mai iniziato. La violenza è un lavoro svolto gratis. Fus soppianta il suo vero nome, Felix, forse perché Felix era un nome impegnativo, troppe aspettative di felicità all’interno di Felix. 

Essere rabbiosi e infelici è più comodo e rassicurante.

Fus, rinchiuso all’interno del mondo, dell’Europa, della Francia, della Lorena: rinchiuso all’interno della curva calcistica, rinchiuso all’interno del campo di calcio in cui gioca per una squadra di dilettanti, e quindi rinchiuso nello spogliatoio, e dopo lo spogliatoio, rinchiuso al bar con gli amici fascisti, nel comune di Villerupt, e rinchiuso nella graziosa e dignitosa casetta a due piani, con il piccolo giardino, e rinchiuso dentro la camera assieme ai cimeli del passato, le coppe vinte come miglior giocatore di qualche torneo giovanile, in un distantissimo decennio. 

In questo restringimento quotidiano attraversato da violenza, l’approdo è una cella o una bara. «Resta solo la violenza», dice Pierre, amareggiato, impotente, incapace di agire, sconfitto tanto quanto il figlio, il cui cambiamento più significativo è, appunto, aver cambiato la tuta Adidas con la tuta Puma. In realtà, a parte il cambio di tuta, un’alternativa a una cella o a una bara esiste, ed è quella vissuta dalla maggioranza: continuare ad attraversare il mondo senza vedere nulla, o meglio, fingendo così bene di non vedere nulla a tal punto da non vedere nulla.

ARTICOLO n. 13 / 2025