ARTICOLO n. 65 / 2023
LA RAGAZZA CHE MI TRASCINA CON SÉ
Giro la chiave. Scirocco artificiale nell’abitacolo: la prima zaffata del climatizzatore è un vento caldo e puzzolente. Pensavo che la macchina l’avessimo venduta da mesi e invece la sto guidando, bestia di lamiera marcita nel sole tonto dell’Estramurale Capruzzi. Secondo l’orologio analogico incastonato sopra la fessura CD della radio sono le 7:30 del mattino. Ma io non mi sveglio mai così presto.
Fuori dai finestrini opachi e sigillati i marciapiedi sono bianchi e desolati. Le ruote scivolano su Corso Sicilia. Non si chiamava così, questa strada. Contraggo le palpebre per mettere a fuoco la targa della via al primo semaforo rosso. Corso Sicilia, sì, mi sarò sbagliata. Il semaforo diventa verde, ma in questo caso regolare l’incrocio non serve a nulla. Sono sola. La careggiata è sgombra. Ricordo uno scenario simile soltanto in piena pandemia. L’aria condizionata adesso mima l’inverno, anche se dovrebbe essere luglio. Ho cento spilli nell’avambraccio coperto di brina, il mio anello di bigiotteria con la pecten al dito atrofizzato dal freddo. Ancora le 7:30 spaccate, anche se ormai sto parcheggiando. C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro.
Mi inoltro tra le siepi lasciandomi il cancello di ingresso alle spalle. La mia migliore amica del liceo si è fratturata una gamba per scavalcarlo nel cuore della notte, quand’eravamo piccole. Cerco il telefono nella tasca anteriore dello zaino perché un pensiero conduce a un altro e dovrei scriverle per dirle guarda, pensa amore mio, sono qui adesso, non è incredibile che i nostri spettri ancora infestino il fogliame? Ma non ho nessuno zaino e la brina sulle mie braccia si è sciolta in gocce d’acqua.
Il pallore infuocato del Parco 2 Giugno. Oltre gli alberi tisici vedo la colossale insegna del GS che s’è fatta modesta perché sono le mie proporzioni a essere cambiate. Friniscono le cicale e il suono delle scarpe sul pavé si traduce in un sussurro via via più melodioso mentre m’avvicino allo slargo: Avec mes souvenirs / J’ai allumé le feu.
Si scompaginano i parallelepipedi di cespugli e davanti a me si staglia una ruota panoramica che languisce nei trentasei gradi delle 7:30 del mattino, a Bari. C’è il Tagadà. La Nave dei Pirati. Le macchine da scontro e i Calci in Culo. C’è una montagna russa verde e rosa dall’aria assai pericolosa. E due baracchini dei fucili; i fucilini, cosiddetti, o forse sono io a chiamarli così. Eppure, manca qualcosa. Continua a mancare qualcosa.
«Sei stata puntuale», mi dice: i capelli grossi e neri imbiancati della rena smossa dai miei passi.
Sotto l’altoparlante del luna park, il sussurro è tuono: C’est payé, balayé, oublié / Je me fous du passé.
«È molto tempo che non ascolto questa canzone», dico ruotando il mento verso la ragazza. Metto a fuoco le sopracciglia che sono spazzole di setola dura sopra le ciglia turgide, guardiane di iridi verde bottiglia. Sorriso di latte.
«Quale canzone?», mi chiede e ride, mi prende le mani, sta danzando anche se la musica non la sente.
Mi guardo intorno e ci siamo soltanto io e lei. Non un gabbiotto è presidiato. Eppure, le luminarie delle giostre scintillano a malapena visibili nella luce del giorno, intermettono e chiamano. «C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro», bisbiglio.
La ragazza mi trascina con sé sollevando altro terriccio chiaro che mi si appiccica sulle labbra, sui gomiti. Ci avviciniamo ai Calci in Culo e i nostri corpi non proiettano ombre. I seggiolini si muovono in modo dapprima impercettibile, poi vorticoso. Finché si fermano.
«Sali a fare un giro e vediamo chi tra noi due riesce a prendere il pennacchio», dice la ragazza.
La gomma rossa delle sedute intrecciate a filo mocciola per terra, sciolta dall’arsura: «Mi sporcherò i pantaloni», dico, ma lei scuote la testa e io ubbidisco anche se di nuovo non vedo alcuna persona nel gabbiotto, non ho idea di chi possa stare azionando l’attrazione, non posso credere di essere già stata sparata come un proiettile sopra le chiazze scarlatte di seggiolino liquido, su, nel tremore giallo delle prime ore di una mattina afosa nella città in cui sono nata. La ragazza non c’è, non è salita, mi ha preso in giro, mi fa un cenno dal basso, sono altissima. La mia mano raggiunge il pennacchio che è una bisaccia piena.
Mi gira la testa. Ora sono a terra. Lei mi chiede di aprire la bisaccia anche se non so come io abbia fatto a scendere. Sento il suo respiro che odora di petrolio mentre ricevo un’extrasistole dal petto.
Il premio dei Calci in Culo è un completo maschile elegante. Nero. Giacca e pantaloni coordinati in lana, di fattura resistente. Una camicia candida, di cotone leggero, con le maniche corte.
«Manca qualcosa», commenta afferrando il mio polso e di nuovo sorride. Il sorriso è giallognolo come cagliata, i capelli più corti hanno acquisito una sfumatura olivastra, la faccia è gonfia e lucida mentre mi consegna una canna da pesca che culmina in un cerchio di metallo. «Catturane uno, forza», mi dice con convinzione e io mi sporgo sul chiostro d’acqua lurida su cui galleggiano piccoli animali impagliati: manguste, marmotte, gufi, falchetti con le ali dispiegate per l’eternità.
Pesco una donnola rampante.
«Bravissima!»: si porta i pugni stretti alle guance la ragazza, che ora sale sulle punte dei piedi per prendere il mio trofeo tra i molti trofei che pendono da ganci da macello, ognuno dei quali mi è familiare per un verso o per l’altro. Un libro su Tutankhamon con molti gemelli – una collezione intera, a dire il vero, di quelle vendute in edicola – e una bottiglia piena di aranciata amara senza zucchero, un’arcata superiore di denti finti, Momendol in confezione intonsa, vecchia edizione de La buona terra di Pearl Buck, lavagna bianca con logo di casa farmaceutica, bastoncini di incenso, pile stilo a grappoli.
La ragazza mi dà, raggiante, una cravatta blu istoriata da germogli celesti. La sclera si rapprende, molle, attorno alle due iridi scure. «Ho scelto bene?».
Mi brucia la lingua, mi asciugo il sudore attorno al naso con il monte di Venere della mano, la gomma dei seggiolini dei Calci in Culo rappresa sui polpastrelli. «Non è tutto», sospiro. «Non è tutto».
Pronuncio queste parole e le nostre giunture sono squassate in un anello di latta rovente che fa sopra e sotto, sotto e sopra. Stavolta sull’attrazione è salita anche lei, mi stringe forte le falangi con le dita gelate, il sorriso da cagliata si è fatto fontina, tremano i denti guasti separati da un diastema in cui soffierebbe il vento, se soltanto di vento ne soffiasse in questa mattina di luglio al luna park del Parco 2 Giugno, nella città in cui sono nata e cresciuta.
Io rido perché di tutte le giostre il Tagadà m’è sempre parsa la più divertente. Rido ma mi accorgo presto del completo di lana nera disabitato, con la cravatta bene annodata, che la ragazza ha messo in forma sulla panchina di fronte alla giostra. E la forma umana disabitata sembra proprio che mi stia osservando, o almeno vegliando, mentre la sagoma della ragazza sta mutando a partire dalla clavicola incassata negli zigomi verde acido sempre più ampi della faccia sempre più rotonda, la chioma ormai rada.
«Vuoi fare la Nave o vuoi scoprire il prossimo premio?», mi scorta e mi accorgo di come abbia smesso di somigliare al termine che finora ho usato, cioè ragazza.
Non rispondo. È la creatura a decidere.
«Premio sia», dice e mi porta a sparare.
I peluche appesi nei fucilini sono i miei peluche, li riconosco. «Ecco dov’era finito il Pisolone», dico tra me e me soffermandomi sui molti musi di pezza espulsi dalle pozze della memoria, alcuni accomodati sulle mensole, altri impiccati.
«Puoi colpire Mamma Oca, Grubby o Teddy Ruxpin»: la voce della creatura non ha perduto allegrezza, ma ora pare distorta.
I tre pupazzi parlanti rantolano, come une nenia, quattro lettere in sequenza: p, a p, a. La pallina di piombo viene inghiottita dalla pelliccia dell’orso.
Sento un rumore simile a un applauso e mi viene recapitato nei palmi un paio di occhiali. Grandi, quadrati, montatura marrone, tartarugata. Li conosco più di ogni altra cosa.
«Adesso hai capito perché sei qui?», chiede la voce distorta a me che non ho il coraggio di alzare lo sguardo.
Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien.
Le pupille della creatura mi fissano dall’ovale lentigginoso di lepidottero, le antenne corte attente, bocca spalancata, lingua aerografata color pesca da cui gronda un rivolo di saliva. Dai segmenti di invertebrato-giocattolo spuntano cinque paia di zampe e pseudozampe.
«Adesso prendi il completo, la cravatta e gli occhiali. Depositali qui», continua la bestia puntando il dito contro la sua stessa cassa toracica, una mela di stoffa logora solcata da un varco. Dal tunnel spira maestrale profumato. «Seppellisci il tuo dolore dentro di me».
«Questo luna park non esiste più, non è così?», chiedo.
Annuisce.
«Negli anni Ottanta venivo qui con mio papà tutte le domeniche».
«Lo so», risponde il Brucomela. «Conservo il ricordo di tutte le bambine che mi hanno attraversato il cuore».