ARTICOLO n. 9 / 2021

La mia patria è la poesia

INTERVISTA DI TOMMASO DI DIO

Tommaso Di Dio. La prima domanda che desidero farle, Adam, è sul rapporto tra la parola e lo spazio. Lei è un uomo abituato a viaggiare: fin da bambino ha sempre vissuto tra culture diverse, tra lingue diverse. Sente che la sua vocazione alla poesia abbia a che fare con questa dimensione nomade? Con l’idea di una parola sradicata, senza confini, disposta a migrare, a muoversi da paese in paese, di voce in voce?

Adam Zagajewski. Direi sì e no. Penso che essere nato in Ucraina, cresciuto in Polonia, aver abitato in tanti altrove, siano elementi molto importanti della mia scrittura. Ciò nonostante, sono sempre rimasto fedele a una sola lingua, la lingua polacca: ho vissuto e appreso molte altre lingue, ma solo la mia mi rassicura. Ho abitato a Berlino, conosco bene il tedesco, leggo i poeti tedeschi, ho abitato in Francia, negli Stati Uniti, ho provato a entrare dentro queste lingue, ma non tanto da sentire che la mia fosse minacciata, mai tanto da metterla in discussione.

T.D.D. L e sue parole mi riportano a quel passo del Libro dell’Inquietudine in cui Fernando Pessoa appunta: «La mia patria è la lingua portoghese». E anche in Czesław Miłosz sembra trasparire lo stesso sentimento quando negli anni Sessanta, risiedendo da tempo in America, scrive: «Mia lingua fedele, ti ho servito […] / Sei stata la mia patria perché un’altra è mancata». Anche per lei la lingua può essere considerata una patria?

A. Z. Sono molto legato alla mia lingua, ma non sento il bisogno di dirlo in una poesia. Ammiro Mia lingua fedele di Miłosz, e ricordo anche il passo di Pessoa, ma per me è come se fosse scontato. Esiste un’esperienza condivisa che va oltre la lingua. C’è la musica, c’è la pittura, c’è la poesia. Per me la poesia è un atto comunicativo, una sorta di comunione. Provo a spiegarmi, quando leggo le poesie di Osip Mandel’štam, uno dei miei poeti preferiti, sento una comunione con lui: ammiro la sua poesia, provo compassione per la sua vita. Ecco, nella poesia c’è un’intesa tra le persone, che va oltre la lingua. E anche se la lingua è fondamentale, nella poesia è come se per un attimo potessimo dimenticarcene.

T.D.D. In questo senso, la poesia diventa un vero e proprio linguaggio universale.

A.Z. Esatto, pensi soltanto a come è iniziata la letteratura moderna in Europa: c’è stato un momento in cui tutti leggevano la poesia latina. All’origine della nostra cultura condivisa c’è un linguaggio universale ed è la poesia di Ovidio e di Virgilio: una comunione, come dicevamo prima, che poi si è scissa in diversi frammenti, certo, ma una traccia evidente è rimasta.

T.D.D. Questi frammenti sono finiti inevitabilmente per creare dei confini. Ha mai sperimentato con dolore l’esperienza dei confini: tra una lingua e l’altra, tra uno stato e l’altro?

A.Z. No, al contrario, ho sempre avvertito un senso di unità, di unità dell’Europa: vivendo in Germania, in Francia, ma anche negli Stati Uniti che per me sono parte dell’Europa, e leggendo i poeti tedeschi, francesi, italiani, ho preso coscienza di questa unità. Ovvio, le lingue dividono, ma c’è un’immaginazione comune che le lega, un’immaginazione segnata più dai punti di contatto che dalle fratture.

T.D.D. Prima parlavamo di Czesław Miłosz. Qual è il suo legame con i maggiori esponenti della poesia polacca? Hanno lasciato in lei un’eredità linguistica che riconosce? Hanno avuto quella «voce che trema» che lei indica essere la voce dei veri maestri?

A.Z. Sì, assolutamente. Il paradosso di questi giganteschi autori polacchi come Miłosz, Herbert, Różewicz, Szymborska, è che le lingue che usano non sono molto distanti tra loro. Questo non significa che siano esattamente identiche – Miłosz è legato alla tradizione, Różewicz è molto prosastico: delle differenze ci sono -, ma non si tratta di universi differenti. È come se fosse un unico universo poetico, e in un certo senso mi sembra di esserci dentro anch’io, in questo universo. Ho imparato molto da loro. E sono sicuro che i miei lettori lo sanno molto meglio di me…

T.D.D. Pensando a questo universo comune, mi piacerebbe far notare questa curiosa corrispondenza: nel 1968 lei aveva 23 anni, Miłosz viveva in America, Jerzy Grotowski pubblicava il manifesto per il suo Teatro Povero, l’anno dopo sarebbe morto Witold Gombrowicz. Mi chiedo come guardasse, in quegli anni, queste espressioni artistiche così complesse. Sentiva già che facevano parte di un kosmos unitario?

A.Z. Un paio di anni fa fui invitato dalla Trinity University Press a fare un’antologia di riflessioni di vari autori polacchi sulla letteratura, all’interno della serie Writers on writing. E raccogliendo questi saggi e pensieri di carattere metaletterario, mi accorgevo di come tutti dialogassero tra loro: mi viene in mente adesso il celebre dialogo tra Gombrowicz e Bruno Schulz, ad esempio. La letteratura era uno spazio di conversazione comune, ma credo che anche gli uomini di teatro seguissero questo dialogo, così come gli uomini del cinema. So che il compositore Witold Lutosławski leggeva molta poesia. Potremmo dire che c’era un’agorà per tutti gli artisti di teatro, cinema, musica.

T.D.D. Spostandoci oltreoceano, vorrei farle una domanda sul suo rapporto con la cultura americana. Ricordo alcuni versi della sua raccolta Dalla vita degli oggetti: «Solo nella bellezza altrui/ vi è consolazione, nella musica/altrui, e nei versi stranieri./ Solo negli altri vi è salvezza…». Lei insegna in America: cosa significa parlare di poesia con un popolo, con «altri» che non condividono la sua storia?

A.Z. Io non sono un americanista. Ho la sensazione di non capire completamente la cultura americana, posseggo solo la mia esperienza personale. Per quanto riguarda la sua domanda, invece: non ce ne ricordiamo, ma soprattutto sulla costa orientale, a New York o a Boston, il pubblico poetico è composto di molti emigranti europei, e loro capiscono perfettamente quella storia. Anche le comunità ebraiche hanno una memoria diversa da quella degli americani. Paradossalmente, credo che sia un ottimo pubblico, e non solo per me, ma per la poesia polacca in generale, perché capisce perfettamente queste nostre poesie, ne capisce l’esperienza. Ed è un paradosso curioso che i poeti polacchi tradotti in inglese abbiano una ricezione molto più forte negli Stati Uniti che in Inghilterra. Sembrava che l’Inghilterra fosse più europea, eppure è negli Stati Uniti che hanno maggiore eco.

T.D.D. Bisogna anche ricordare che l’America è indissolubilmente legata alla sua poesia. Infatti, il suo testo Prova a cantare il mondo mutilato è diventato famosissimo nella versione inglese di Clare Cavanagh (Try to Praise the Mutilated World) perché considerato simbolo del dolore e della tragedia dell’11 settembre. Cosa ha significato per lei vedere i suoi versi assorti a specchio dell’esperienza di così tante persone?

A.Z. Inizialmente sono rimasto stupito. È stato un puro caso che questa poesia sia stata presa e resa una sorta di manifesto. Per me era legata alla mia infanzia, al paesaggio del secondo dopoguerra. Poi all’improvviso gli è stata data una dimensione universale. Qualunque poeta, in una situazione del genere, sarebbe felice di vedere che questo è possibile. Che il linguaggio della poesia può davvero oltrepassare i confini.

T.D.D. In questa nostra conversazione abbiamo ripercorso i suoi viaggi tra nazioni di terra e di carta. In questo nostro peregrinare non possiamo trascurare il peso che l’Italia ha nella sua opera. Dalla poesia alla pittura alla musica. Che ruolo ha avuto l’arte italiana nella sua formazione, quali poeti italiani l’hanno segnata?

A.Z. Quando ero piccolo e cominciavo ad aprire gli occhi sul mondo, la cultura italiana era qualcosa di straordinariamente importante. Penso alla cultura classica italiana, prima di tutto alla pittura, all’architettura, ma anche alla poesia di Dante, di Leopardi. E non era importante soltanto per me. In generale, durante il comunismo, il vostro Paese era una specie di sogno, perché allora non si poteva viaggiare molto: l’Italia, la Francia, erano dei paradisi in cui desideravamo andare. Tra i poeti italiani del XX secolo, il più importante per me è Montale, la cui opera richiama il modernismo europeo; è come se si staccasse dalla nazione della sua lingua di provenienza: Montale è uno dei più grandi modernisti europei, ed è più vicino forse a Gottfried Benn che ad altri poeti italiani. Gli devo molto. Da solo non riesco a riassumere in cosa consista esattamente questo tipo di influenza su di me… Posso dirle che seguo con molta attenzione quello che succede in Italia.

T.D.D. Mi restano le ultime domande da porle, ho necessità però di fare una breve premessa. Nella sua poesia sembra che tutto il dramma profondo e doloroso delle questioni esistenziali trovi un paesaggio musicale, una quiete musicale. Ebbene, in questi giorni stavo rileggendo i suoi libri, e mi sono imbattuto in una poesia dedicata a Friederich Nietzsche, filosofo che lei apprezza molto, e che mi ha fatto venire in mente una piccola provocazione: il filosofo dell’Anticristo sostiene che la Natura ha creato l’uomo come animale capace di fare promesse; lei, al contrario, nella sua prosa Tradimento scrive che tutti quelli che hanno anima mortale sono dei traditori. Ne nasce un principio di contraddizione, tra lei e Nietzsche, un paradosso, tra il credere e il no, tra il fare promesse e il disattenderle. Mi sembra che in tutto il suo lavoro ci sia il tentativo di bilanciare queste due forze opposte: da una parte la fede e dall’altra la libertà, il cambiamento di ogni cosa e l’eternità dell’essere. Nella sua poesia c’è sempre questo contrasto. Adesso arrivo alla mia domanda: mi chiedo se la musica, nei suoi versi, sia lo strumento che usa per ricomporre questo contrasto, questa massima sfida.

A.Z. È una domanda molto complessa. Sento una tensione salutare tra filosofia e musica. La filosofia suscita sempre nuove domande e rende la nostra vita difficile, quasi improbabile. La musica, invece, arriva direttamente. Nella musica non c’è esitazione. C’è melodia, melodia che crea l’essere, un essere vivente, una creatura. Quindi ho bisogno di entrambe le cose: l’incertezza che viene dalla filosofia mi dà una strana ispirazione; e poi quando sono stanco, vado dalla musica che mi propone qualcosa di positivo, una melodia che dona significato.

T.D.D. Vorrei salutarla recuperando la parte finale del suo saggio L’ordinario e il sublime, in cui cita una poesia di Zbigniew Herbert che si chiude con questo verso: «Sii fedele e va’». La poesia di Adam Zagajewski a che cosa chiede di essere fedele?

A.Z. Per me la poesia è essere fedeli all’esperienza interiore. E a tutte le sue complicazioni. La poesia deve sempre essere vicinissima all’esperienza interiore. Non deve tradirla. L’unica fede che esercito è questa. Per me non mentire significa non andare oltre questo. 

Questa conversione con Adam Zagajewski (1945 – 2021) è stata registrata a Bologna il 6 giugno 2019. A Linda Del Sarto, Riccardo Frolloni e Giuseppe Nibali Guzzetta vanno i nostri ringraziamenti.

ARTICOLO n. 84 / 2024