ARTICOLO n. 19 / 2025

LA MACCHINA DI ROBBINS

in memoria di tom robbins

Ancora ricordo il piacere, quasi fisico, che mi procurava leggere e rileggere, da ragazzo, Cowgirl: Il nuovo sesso di Tom Robbins. Quell’estasi che, forse, solo da giovani si riesce ancora a provare per un romanzo. In questo caso un romanzo scanzonato, esplosivo, surreale, pop, di un autore americano di culto degli anni ’70. Un autore fondamentale della controcultura americana, seppure distante dalle correnti e dai gruppi letterari. Da giovane girovaga per gli Stai Uniti in autostop come un beatnik (con tanto di tappa obbligata al Greenwich Village). Ma beat non lo sarà mai. 

Nessun possibile legame con i vari William Burroughs, Grefory Corso, Allen Ginsberg e Jack Kerouac. In seguito (intanto è stato arruolato e viene spedito in Corea del Sud) si avvicina al mondo hippie, con tanto di viaggi psichedelici nella mitica West Coast. Ma anche in questo caso non si registra nessuna sua affiliazione a gruppi o comuni. Anzi la cronaca lo vuole appartato e poco propenso anche a esposizioni pubbliche.

Tanto estroverso nei suoi scritti quanto ritirato nella vita privata, Tom Robbins muore il 9 febbraio all’età di 92 anni. Nel 1976 diventa famoso con Cowgirl, che avrà anche una travagliata riduzione cinematografica diretta da Gus Van Sant (e chi se no!) con protagonista una splendida Uma Thurman nei panni di Sissy Hankshaw. A Cowgirl fa seguito Natura morta con picchio (1980): un altro successo. Ma soprattutto un manifesto ironico dei temi della controcultura, tra spinte riconducibili all’esecrato individualismo borghese e, di contro, all’attivismo politico (fino al terrorismo), l’ecologismo e il misticismo dalle venature orientaleggianti, occhieggiando anche certa estetica psichedelica.

E scriverà ancora… dai libri per bambini ai romanzi brevi e lunghi… ricordo ancora Coscine di pollo (Dalai) del 1990 e Tibetan Peach Pie, una biografia, ovviamente “a modo suo” (in Italia è uscita per Tlon). Se sicuramente non lo ritroviamo nel movimento beat, tantomeno lo possiamo ricondurre al fenomeno della letteratura postmoderna americana anche se condivide con Kurt Vonnegut, John Barth e Donald Barthelme lo spirito umoristico e l’approccio pop, così come ricorda Ishmael Reed, soprattutto per i contorsionismi narrativi.

Da quando è giunta la notizia della sua scomparsa sto provando a capire quale può essere l’immagine che raccoglie il suo spirito vitale e critico, la sua vena surreale usata come machete per colpire il sistema. Dove si racchiude il suo spirito di alfiere della controcultura. E allora mi sovviene la macchina di Cowgirl. L’incedibile macchina del tempo descritta in Cowgirl: «Lei non ci crederà, ma è solo un mucchio di ciarpame, coperchi di bidoni, della spazzatura e vecchie padelle, lattine di lardo e paraurti d’auto, il tutto legato insieme e appeso nel bel mezzo della grotta del Siwash. Di tanto in tanto quel trabiccolo si muove perché un pipistrello va a sbatterci contro, o un sasso si stacca e ci casca sopra, o una corrente d’aria lo investe, oppure senza una ragione apparente e così una sua parte va a urtare contro un’altra. E allora emette un bong o un ping. (…) Ed è così che funziona, battendo liberamente, follemente, ai più strani livelli».

Questo “mucchio di ciarpame” è la macchina di Robbins, il sorprendente, surreale meccanismo a orologeria descritto in Cowgirl: Il nuovo sesso. È la macchina creata e custodita da uno strano personaggio, il Cinese, una sorta di guru libidinoso che vive come un eremita sui monti. Più precisamente in una grotta che, appunto, ospita anche il suo famoso orologio. Il Cinese è fuoriuscito dalla Tribù dell’Orologio che conserva un altro meccanismo a orologeria che è in pratica una clessidra ad acqua riempita di carpe. La tribù aspetta pazientemente che un evento catastrofico elimini il tempo per poter godere di una nuova fase di pura gioia. Senza tempo. Il Cinese invece si limita a segnare il tempo, ma segnarlo prevedendo la fallibilità, il caso, la non linearità. Lontana, eppure imparentata con le macchine celibi di Marcel Duchamp o quelle poeticamente inutili di Jean Tinguely e di Bruno Munari, la macchina di Robbins sfida, con fare beffardo, le convenzioni della Modernità. Sì, perché se la Modernità nasce dall’incrollabile fede nella scienza e nella matematica (in quella computabilità che oggi regna sovrana) determinatasi con l’Illuminismo, allora Robbins ci descrive un possibile altrove.

Naïf, utopico, persino puerile, eppure così carico di energia, proprio come i movimenti di controcultura di cui è intriso il suo libro. La macchina di Robbins prevede un tempo che non è calcolabile con algoritmi, che si discosta totalmente dal discorso sulla tecnica che prima Marx ed Engels e poi Heidegger (ma anche Oswald Spengler, Ernst Jünger, Walter Benjamin, Georg Simmel fino a Lewis Mumford) hanno provato a decifrare ed evidenziare.

Una fede incrollabile nella matematica e nelle scienze politecniche che già fa capolino nell’Uomo senza qualità di Robert Musil (la vocazione ingegneristica e matematica del protagonista come ricerca di un posto nel mondo), nella Montagna incantata di Thomas Mann, nella Colonia penale di Franz Kafka (ma in tutto Kafka troviamo questa “macchina”, questo dispositivo logico e matematico, che si chiami potere o burocrazia, che opprime l’essere umano) e che si riassume in quella “mente euclidea” ben descritta ne I fratelli Karamazov di Fiodor Dostoevskij: «Posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a conoscere soltanto uno spazio a tre dimensioni».

Ecco, la macchina di Robbins si dispone sfacciatamente in un altrove rispetto alla “mente euclidea”, rifugge il calcolo e la precisione, la burocrazia. Sente il pericolo di un sistema di controllo che non risiede più in un potere autoritario ma si concretizza in una rete a maglie strette dove la norma è lo scandire del tempo, è il calcolo del denaro sonante, è il dominio di sistemi statistici e probabilistici che tendono a invadere sfere sempre più private e intime. L’ultima utopia possibile passa così attraverso una giovane autostoppista bisessuale dai pollici prodigiosamente giganti, un gruppo di cowgirl e, per l’appunto, un orologio decisamente improbabile.

Pur tra i cascami vagamente new age degli anni ’60 e ’70 si intravede una critica possibile al dispositivo tecnico-scientifico di potere. Uno sguardo sulla sua consunzione e sulla sua disumanità. Da qualche parte tra le comuni hippie si fa largo uno sguardo nuovo e si alimentano nuove narrazioni che ci ricordano che la macchina per antonomasia è quella umana, una macchina diversa, una «soffice macchina», come predicava William Burroughs, lui sì un vero guru psichedelico della controcultura. Ci mancherà allora Robbins e il suo affabulare concitato, il suo improbabile realismo surrealista… e soprattutto la sua macchina utopica.

ARTICOLO n. 18 / 2025