ARTICOLO n. 59 / 2021
LA LETTERATURA È NATURA
TRADUZIONE DI MARGHERITA PODESTÀ HEIR
Il testo che oggi vi presentiamo è una lectio che Karl Ove Knausgaard ha tenuto nel 2019 alla Fiera del Libro di Francoforte.
Eccoci qui a Francoforte, centro finanziario d’Europa noto per la sua Borsa, una delle più importanti al mondo, dove tutto ruota sulla capacità di agire rapidamente e guadagnare denaro con altrettanta velocità. Ora che ci troviamo alla Fiera del Libro, la più grande al mondo, dove analogamente si parla di vendita e acquisto, seppur di libri e limitatamente ai più recenti, di cui ogni anno se ne sfornano centinaia di migliaia, vorrei cogliere l’occasione per riflettere su una delle peculiarità più importanti della letteratura, e cioè la sua lentezza.
Non mi riferisco alla quantità di tempo necessaria per leggere un libro, ma a quanto può durare il suo effetto nel tempo e allo strano fenomeno per cui persino opere letterarie scritte in altre epoche, con presupposti radicalmente differenti, a volte profondamente estranei ai nostri, siano ancora in grado di parlarci. Non solo, ma sono anche capaci di dirci qualcosa su chi siamo, qualcosa che altrimenti non avremmo visto, o avremmo colto in modo diverso.
Non sono molte le caratteristiche che accomunano un villaggio spagnolo di inizio Seicento alla nostra epoca, eppure il romanzo di Cervantes Don Chisciotte della Mancia si lascia leggere anche oggi, pur per altri motivi. Quello più significativo è probabilmente il fatto che il conflitto di fondo sul quale verte l’opera è anche il nostro. Un vecchio nobiluomo che ha letto troppi romanzi cavallereschi interpreta tutto ciò che vede sotto la loro luce. Per esempio, parte all’attacco di un gregge di pecore, credendo che sia un esercito e fa lo stesso con un mulino a vento, convinto che si tratti di un gigante. Don Chisciotte è un’opera comica, ma il fenomeno, il modo in cui ciò che leggiamo o vediamo è in grado di creare una realtà propria che, se non viene corretta e in base alla quale agiamo di conseguenza, non è più comica poiché chi, seduto nelle proprie stanze, sviluppa una visione ristretta del mondo non assalta mulini a vento o pecore, ma esseri umani.
A questo punto perché non spingerci ancora più a ritroso nel tempo, all’Impero Romano, più o meno nel Sessanta avanti Cristo, quando Lucrezio scrisse la sua unica opera nota, il De rerum natura. In questo poema didascalico Lucrezio spiega come il mondo sia costituito da atomi, ma la realtà atomica di Lucrezio non è isolata, come invece ci viene presentata oggi negli articoli e nei libri di carattere scientifico, con i suoi elettroni e nuclei, campi elettromagnetici, particelle e onde. Nel poema di Lucrezio la dimensione atomica coesiste accanto al mondo così come lo vediamo ogni giorno, con le sue pianure erbose e i suoi fiumi, i suoi ponti e le sue case, le sue mucche e le sue capre, i suoi uccelli e il suo cielo. Sono due facce della stessa medaglia, senza l’una non esiste l’altra. Nel mio animo sussistono pochi dubbi sul fatto che oggi il mondo sarebbe apparso diversamente se la scienza fosse rimasta ancorata al mondo stesso e non l’avesse perso di vista, poiché in questo è implicito un obbligo, e di conseguenza una rettifica continua: non siamo più grandi del bosco, non siamo neppure più grandi dell’albero. E siamo fatti degli stessi elementi costitutivi.
Cervantes scrisse il suo primo libro quattrocento anni fa, un’opera che da quel momento in poi è stata trasportata lentamente dal fiume del tempo, comunicando cose diverse a epoche diverse. Il poema che Lucrezio scrisse più di duemila anni fa rimase a lungo nell’oblio, ma quando fu riscoperto all’inizio del Quattrocento, rappresentò un importante presupposto del nascente Rinascimento e, non solo lo si può leggere tuttora, ma continua a parlarci, a dirci cose che abbiamo dimenticato o che forse non abbiamo mai capito esattamente.
La letteratura non agisce lentamente soltanto nella storia, ma anche nel singolo lettore. Ricordo che la prima volta che ho letto la poetessa danese Inger Christensen, e in particolare il suo poema Alfabeto, era a metà degli anni Novanta, quindi venticinque anni fa. Alfabeto è un elenco di cose che ci sono nel mondo e comincia così:
Ci sono gli albicocchi, ci sono gli albicocchi
Ci sono le betulle; e le bacche, le bacche
e c’è il bromo; e l’idrogeno, l’idrogeno
ci sono le cicale; la cicoria, il cromo,
e ci sono le clementine; ci sono le cicale,
le cicale, i cedri, i cipressi, il cervelletto
ci sono i daini; i desideri, i dadi,
ci sono i delinquenti; i daini, i daini;
il deserto, la diossina e i dì; i dì
ci sono; i dì, i decessi; e le descrizioni
ci sono; le descrizioni, i dì, i decessi
Quella volta, venticinque anni fa, pensavo che questa poesia fosse bellissima, che da essa scaturisse un particolare ardore esistenziale, ma il mio non era stato che un infiammarsi momentaneo. Poi, qualche anno fa, mi è ritornata in mente. Non so perché, ma rileggendola, ha acquisito una nuova carica, un nuovo significato. Innanzitutto, perché in questo suo evocare cose, animali e piante ho percepito un dolore, come se adesso su di essi aleggiasse un’ombra. Poteva trattarsi della certezza che un giorno moriremo, lasciandoci tutto questo alle spalle, ma poteva anche trattarsi della certezza che un giorno potrebbero essere loro a morire e a lasciarci per sempre. Sono molte le specie di animali che con il passare del tempo non possiamo più dare per scontate. Secondariamente perché ho capito come la forma stessa del poema si muove intrecciando cultura e natura. Le cose che vengono elencate non sono enumerate in maniera casuale, da un lato sono strutturate in ordine alfabetico, dall’altro seguono la cosiddetta sequenza di Fibonacci, dove ciascun numero è il risultato della somma dei due precedenti: 1,1,2,3,5,8,13,21 eccetera. In natura questa serie numerica è presente ovunque, per esempio nella riproduzione delle api, nel modo in cui gli steli si ramificano, nel numero di petali dei fiori, nell’ordinamento delle spirali esistenti nelle pigne, negli ananas e nei girasoli.
Questa struttura latente, che è stata isolata dalla scienza e che la natura non conosce, ma che si limita semplicemente a seguire, appartiene tanto al misticismo quanto alla matematica e, insieme alle parole isolate dal poema che evocano singoli oggetti e singoli fenomeni, ci rende il mondo al tempo stesso familiare e alieno, sensoriale e astratto, tangibile e intangibile.
Christensen si rifà palesemente a Lucrezio. La parola che Lucrezio usava per «atomo» è la stessa che usava per «lettera dell’alfabeto». Questo valeva anche per i primi greci che scrivevano dell’atomo: anche loro utilizzavano la parola «atomo» per «lettera dell’alfabeto». Lucrezio paragona ripetutamente gli atomi alle lettere – allo stesso modo in cui le poche lettere dell’alfabeto si possono combinare secondo modalità infinite per esprimere tutto ciò che esiste tra cielo e terra, si possono combinare i pochi atomi esistenti per creare cielo e terra e tutto quanto si trova nel mezzo.
Scienza e letteratura leggono entrambe il mondo e, prima o poi, entrambe si imbattono nell’illeggibile, nel confine dove ha inizio l’incomprensibile. Una volta, in uno dei suoi saggi, Inger Christensen scrisse che questo confine sussiste dentro di noi e che nella scienza, il dialogo tra il leggibile e l’illeggibile conduce all’uso di termini come teoria del caos, frattali, superstringhe, soltanto perché ricorrere alla parola Dio parrebbe troppo pressante e invadente.
Ogni cosa esiste una accanto all’altra
Gli atomi, le lettere dell’alfabeto, la letteratura, la scienza, il mondo.
E la conoscenza e la distruzione.
Anche il mondo, nel cui centro ci troviamo adesso, qui a Francoforte, con i suoi grattacieli e le sue automobili, il suo aeroporto gigantesco e le sue banche, si è creato lentamente e, se si vuole fissarne l’inizio, risulta fondamentale il periodo di grandi sconvolgimenti che ha contrassegnato l’Europa più o meno quando venne recuperata l’opera di Lucrezio. Fu l’umanista Poggio Bracciolini a ritrovare il testo, probabilmente l’unico esemplare esistente, e la scoperta ebbe luogo in un’abbazia tedesca a soli cento chilometri da qui, a Fulda, nel gennaio 1417. Trent’anni dopo, intorno al 1450, Gutenberg inventò il torchio tipografico. Anche questo avvenne in questa area geografica, a Magonza, a soli quaranta chilometri da Francoforte. Sempre in quest’arco di tempo in Germania prese forma la leggenda di Johan Faust, l’erudito itinerante che vendette la propria anima al diavolo e, come sapete, anche la Fiera del Libro che apre oggi risale a quel periodo: la sua primissima edizione è datata 1478.
Non è chiaro come sia nata la leggenda di Faust, ma esiste in ambito storico un Johan Faust che corrisponde alla descrizione. Si dice che sia nato due anni dopo la prima Fiera del Libro, quindi nel 1480, in un luogo chiamato Knittingen, a soli centoquaranta chilometri da qui. Johan Faust viene descritto dai suoi contemporanei come «un dotto ciarlatano che si spacciava per profondo conoscitore delle arti magiche» e che vagava da un’università all’altra della zona. Sappiamo che era a Würzburg nel 1506, a centodieci chilometri da qui, e a Kreuznach nel 1507, a centotrenta chilometri da qui. Sappiamo anche che nel 1509 conseguì un grado accademico all’Università di Heidelberg, a soli novanta chilometri da qui. Non si può quindi escludere che Faust abbia frequentato la Fiera del Libro di Francoforte.
Un altro candidato storicamente esistito sarebbe un certo Johan Fust, vissuto tra il 1400 e il 1466. Era orafo e socio in affari di Gutenberg a Magonza, a quaranta chilometri di distanza da dove ci troviamo adesso.
E il diavolo? Dov’era?
Sappiamo che almeno in un’occasione era al Wartburg, a centonovanta chilometri da qui. Intorno al 1520 il diavolo era stato visto in quel castello da un monaco che a tarda notte era intento a tradurre la Bibbia in tedesco. Il monaco si faceva chiamare Junker Jörg, in realtà il suo vero nome era Martin Lutero, che si arrabbiò a tal punto con il diavolo che lo aveva disturbato mentre lavorava da scagliargli addosso un calamaio.
È stato dunque qui, in questo mondo contrassegnato da una singolare mescolanza di superstizione e raziocinio, magia e scienza, roghi di streghe e stampa dei libri che si è costituita la realtà in cui viviamo adesso. La scoperta del torchio tipografico ha reso possibile accumulare e diffondere il sapere in un ordine di grandezza fino a quel momento sconosciuto. È stato questo il presupposto da cui è scaturita la lenta separazione della scienza dalla religione che ha mutato in modo così radicale la nostra visione del mondo e la nostra comprensione di noi stessi da risultare quasi inconcepibile l’idea che prima non fosse così.
Che cosa ci faceva qui il diavolo, cosa c’entrava nella creazione di ciò che sarebbe divenuto il nostro mondo?
Naturalmente si potrebbe affermare che la leggenda di Faust rappresenti una narrazione protestante di carattere formativo nata durante il periodo della Riforma, dove la colpa di Faust non è necessariamente quella di ricercare il sapere, ma di farlo al di là di Dio. Per Goethe – originario anche lui di Francoforte – il peccato di Faust era profano: cercava la conoscenza senza conoscere l’amore.
È difficile però prescindere dal fatto che dove sussiste una brama di sapere, c’è anche il diavolo. È stato il diavolo, sotto forma di serpente, a tentare Eva, convincendola a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza e determinando così la cacciata degli esseri umani dal Paradiso ed era sempre il diavolo l’entità evocata da Faust nei suoi tentativi di penetrare i segreti della natura.
Ma questo cosa significa?
Con tutte le nostre innovazioni tecnologiche, dalla stampa a caratteri mobili all’aeroplano e alla centrale nucleare, è come se ci seguisse un’ombra, invisibile, eppure percettibile perché le sue conseguenze si manifestano davanti ai nostri occhi. Karl Benz, che nel 1885 aveva costruito la primissima automobile in un garage di Mannheim, a soli ottanta chilometri da qui, difficilmente sarebbe stato in grado di prevedere che l’automobile, che avrebbe unito luoghi e persone, aperto e messo in relazione culture diverse e ampliato in maniera radicale il raggio d’azione di una vita umana, in futuro avrebbe ucciso un milione e duecentocinquantamila persone all’anno. E non sapeva neppure che le emissioni di ossido di carbonio provenienti dalle automobili avrebbero causato l’aumento della temperatura globale, contribuito a causare lo scioglimento dei ghiacci, l’elevarsi del livello del mare, la devastazione degli incendi boschivi, l’espansione delle aree desertiche e l’estinzione di specie animali.
Questo fenomeno, per cui le azioni benintenzionate di uno si trasformano in un male incontrollabile quando l’uno diventa tanti, viene chiamato dal filosofo francese Michel Serres «peccato originale». Il diabolico consiste nel fatto che, per quanto ognuno di noi desideri soltanto il bene, tutti insieme commettiamo il male.
Il diavolo è associato alla trasgressione, sì, il diavolo ne è l’incarnazione stessa. Cercare di carpire alla natura i suoi segreti più reconditi è una trasgressione ed è per questo che Faust deve cercare l’aiuto del diavolo.
Il diavolo esiste perché per noi la trasgressione è perniciosa e questa conoscenza è antica quanto la cultura stessa. Faust era rilevante nel 1500 come nel 1800, quando Goethe scrisse di lui, e negli anni Quaranta del Novecento quando Thomas Mann fece lo stesso nel suo romanzo Doctor Faustus. L’opera si apre con una scena che è mi è rimasta impressa nella memoria quando ho letto questo libro all’età di diciannove anni. Due ragazzi, dagli strani nomi di Serenius Zeitblom e Adrian Leverkühn, crescono insieme nel profondo della Germania di fine Ottocento e, all’inizio del romanzo, il padre di Adrian mostra loro alcuni esperimenti di carattere scientifico che riguardano il modo in cui potrebbe comportarsi la materia morta, inanimata qualora fosse viva. Adrian, che in seguito venderà la propria anima al diavolo, ride della reverenza che il padre nutre nei confronti dei misteri della natura, mentre Serenius rimane inorridito.
Non so perché questa scena mi sia rimasta impressa nella memoria a diciannove anni, ma so perché continuo a ritornarci: lì, in quella stanza, si incontrano ciò che è vivo e ciò che è morto, ciò che è autentico e ciò non lo è, l’alchimia e la scienza, il diavolo e la modernità. Nessuno degli elementi presenti in quella stanza è scomparso dopo che li aveva riuniti Mann, anzi, si sono addensati perché da allora è stato scisso l’atomo ed è stato isolato e localizzato il DNA, schiudendo così la possibilità di manipolare il genoma. Le opportunità che si aprono alla scienza sono enormi, si possono migliorare le piante, aumentare la produzione di cibo, coltivare organi, sì, è addirittura possibile creare una nuova vita. Si potrebbe dire che gli esseri umani sono diventati finalmente come Dio, ma in un testo antico che ha richiesto più di tremila anni per giungere qui, possiamo leggere che cosa è successo a un altro che voleva diventare come Dio:
Eppure tu pensavi:
«Salirò in cielo,
sulle stelle di Dio
innalzerò il trono,
dimorerò sul monte dell’assemblea,
nelle parti più remote del settentrione.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all’Altissimo».
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell’abisso!
O, per dirla con le parole del forse più grande poeta tedesco in assoluto, Friederich Hölderlin, nato a centosessanta chilometri da Francoforte: «Ciò che ha sempre reso la terra un inferno è stato proprio il tentativo dell’uomo di renderla un paradiso». D’altro canto, che la conoscenza e la distruzione si trovino una accanto all’altra non dice nulla sulla loro sequenza e, in una delle sue celestiali poesie, lo stesso Hölderlin scrisse anche qualcos’altro, di egualmente veritiero: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».
Nota della traduttrice. In riferimento alla poesia di Inger Christensen e alla citazione di Friedrich Hölderlin si fa fede al testo norvegese proposto dall’autore. Nel caso specifico di Christensen, per mantenere il gioco letterario delle iniziali dei vocaboli sono state utilizzate parole italiane differenti da quelle originali ma allo stesso tempo affini dal punto di vista semantico.
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