ARTICOLO n. 91 / 2024
Di David Colon
LA GUERRA DELL’INFORMAZIONE
un dialogo con Antonio Sgobba
«La guerra dell’informazione è un conflitto politico globale, in cui sono in gioco le nostre stesse menti. Gli Stati cercano di catturare la nostra attenzione, di coinvolgerci o istigarci al disimpegno, di influenzare il nostro comportamento sfruttando le falle del nostro ragionamento e della nostra psicologia. Hanno profuso notevoli sforzi scientifici, tecnologici e militari in una corsa agli armamenti informativi che prosegue ancora oggi e sembra non conoscere limiti». La definizione è dello storico francese David Colon, docente di Storia della comunicazione, media e propaganda del Sciences Po Centre d’Histoire di Parigi, autore del saggio La guerra dell’informazione: Gli Stati alla conquista delle nostre menti (pubblicato nella Piccola Biblioteca Einaudi nella traduzione di Chiara Stangalino). Il libro è del 2023, l’edizione italiana è uscita qualche mese fa. Nel frattempo, Trump.
Antonio Sgobba: La vittoria di Trump è un nuovo capitolo della storia della guerra dell’informazione?
David Colon: Dal punto di vista del Cremlino, questa nuova vittoria di Trump è senza dubbio una vittoria nella guerra dell’informazione che Putin sta conducendo contro tutti i governi che sostengono l’Ucraina e gli ucraini. In più questa elezione è una nuova tappa nella strategia a lungo termine sia dei regimi autoritari sia di alcuni interessi industriali e politici americani, con l’obiettivo di indebolire la democrazia, svuotandola gradualmente della sua sostanza, in questo caso minando la fiducia degli americani nelle proprie istituzioni.
A.S. Come siamo arrivati a questo punto?
D.C. Non c’è dubbio che le reti di disinformazione del Cremlino e il sostegno che ha portato loro Elon Musk attraverso il suo social media X e i suoi comitati d’azione politica (PACs) abbiano svolto un ruolo importante nelle elezioni. In particolare nei tre stati chiave che hanno fatto la differenza: Pennsylvania, Wisconsin, Michigan. La scala delle operazioni di manipolazione dell’informazione è stata moltiplicata dall’uso degli strumenti di intelligenza artificiale e dal fatto che l’ascesa dei social media ha reso questo il principale mezzo di accesso all’informazione per una maggioranza di americani. Ormai le campagne elettorali americane non si svolgono più sui media tradizionali, ma sui social.
A.S. Lei scrive: «È giunto il momento di uno stato di emergenza informativa, ossia l’adozione di misure eccezionali per difendere le nostre libertà». Che cosa significa concretamente? Quali sono le misure eccezionali necessaria?
D.C. Da una trentina d’anni, i regimi autoritari percepiscono il dominio occidentale nell’informazione mondiale come una minaccia per la loro sopravvivenza: temono la proliferazione, nella loro società, del virus della democrazia, trasmesso dai media occidentali e la forza di attrazione del nostro regime di libertà. Di conseguenza hanno lavorato sia per proteggere le menti dei loro cittadini dalle interferenze delle informazioni straniere che per interferire con le menti dei cittadini occidentali, sia attraverso i loro media internazionali statali che attraverso i nostri media e le reti sociali americane. Il loro obiettivo a lungo termine è quello di indebolire la coesione delle società democratiche, amplificando le divisioni, diffondendo la sfiducia e seminando dubbi e confusione. Quando dico che è tempo di uno stato di emergenza informativa, è perché la guerra dell’informazione condotta dai regimi autoritari rappresenta una minaccia vitale per le democrazie. La risposta da dare è innanzitutto la mobilitazione dell’insieme della società al servizio della protezione delle democrazie, poi l’adozione di una strategia nazionale e internazionale per lottare contro le manipolazioni dell’informazione da parte dei regimi autoritari, e infine l’attuazione a tutte le scale di soluzioni concrete per affrontare il pericolo rappresentato dall’inquinamento dei nostri ambienti informativi da contenuti di disinformazione.
A.S. Cito ancora dal suo saggio: «L’insegnamento del pensiero critico non serve a nulla se prima non ci sforziamo di preservare la qualità dell’informazione disponibile». Vuol dire che investire nell’istruzione non serve a niente?
D.C. È una questione di priorità. Dobbiamo innanzitutto rafforzare quella che l’Ocse in un suo rapporto ha definito “l’integrità dell’informazione”, ovvero: «il risultato di un ambiente informativo che favorisce l’accesso a fonti di informazione accurate, affidabili, documentate e plurali, per permettere agli individui di essere esposti a una varietà di idee, fare scelte informate ed esercitare al meglio i propri diritti». Ciò significa investire in un giornalismo di qualità, basato su un approccio etico e deontologico, indipendentemente dalla proprietà dei media o dal loro orientamento politico. Reporters Sans Frontières (RSF) ha lanciato la Journalism Trust Initiative, che applica indicatori di affidabilità basati su uno standard internazionale come l’ISO. Oggi è urgente sensibilizzare le grandi imprese al fatto che il ricorso alla pubblicità basata sull’acquisto automatico di spazio online spesso le porta a finanziare, senza saperlo, siti di disinformazione – come viene regolarmente denunciato da Newsguard. Il solo fatto di orientare prioritariamente i bilanci pubblicitari verso media certificati o ben valutati da Newsguard sarebbe sufficiente a indebolire l’economia fiorente della disinformazione online. L’educazione ai media, al digitale e alla disinformazione è essenziale, ma non può né deve essere la nostra unica risposta a questioni che sono per lo più sistemiche.
A.S. Nella sua ricostruzione alla guerra fredda segue oggi la guerra dell’informazione. E oggi la guerra dell’informazione è una continuazione della guerra militare con altri mezzi. Ma quindi qual è la differenza tra la guerra dell’informazione di oggi e la propaganda che abbiamo conosciuto nel ventesimo secolo?
D.C. La differenza principale sta nella scala e nel carattere globale della propaganda, dall’avvento dei canali di informazione via satellite, dell’internet e dei social media. Le menti dei cittadini sono diventate la posta in gioco principale nei conflitti, anche militari, mentre l’informazione non è più semplicemente una fonte di potere, ma un potere in sé. Lo si vede oggi in Medio Oriente come in Ucraina: la sfida principale per i belligeranti è la battaglia dell’opinione pubblica mondiale. Il Cremlino sta cercando di vincere la guerra indebolendo il sostegno dell’opinione pubblica europea nei confronti dell’Ucraina e promuovendo le campagne elettorali di partiti vicini alle sue opinioni. Oggi, per il Cremlino è più redditizio investire nella creazione di una rete di influencer che investire nella costruzione di carri armati.
A.S. Lei chiede un massiccio investimento nel giornalismo di servizio pubblico. Perché?
D.C. I media di servizio pubblico si prestano meno che gli altri alle ingerenze informative dei regimi autoritari. Questi ultimi, infatti, sfruttano spesso la leva della proprietà dei media o quella della pubblicità per diffondere le loro storie. Il modello economico dei media tradizionali e dei social media è spesso strumentalizzato dai propagandisti russi o cinesi. Ivan Agayants, che durante la Guerra Fredda dirigeva il dipartimento del KGB specializzato nella disinformazione, si divertiva con la facilità con cui manipolava la stampa occidentale, avida di fonti ufficiali e di informazioni sensazionali: «Se non avessero la libertà di stampa, diceva, dovremmo inventarla per loro».
A.S. Eppure i media del servizio pubblico vengono spesso criticati, c’è chi li considera uno spreco di soldi pubblici.
D.C. In molti paesi, gli attacchi al servizio pubblico spesso provengono dai proprietari di media privati, che li vedono come una forma di concorrenza sleale. Rupert Murdoch, per esempio, ha condotto una guerra senza quartiere contro la BBC per decenni. Questo non significa, naturalmente, che i media pubblici siano necessariamente esenti da rimproveri, ma non bisogna perdere di vista il fatto che essi sono un anello essenziale dell’integrità dell’informazione.
Inoltre, a causa dei tagli ai bilanci dei media pubblici internazionali, diversi paesi, tra cui la Francia, hanno visto indebolire la loro influenza nel mondo, proprio quando la Cina, La Russia o l’Iran investono somme considerevoli nei loro media statali per espandere la loro influenza globale. Il budget dei media russi, per esempio, dovrebbe aumentare del 13,5% nel 2025. Dovremmo fare lo stesso se non vogliamo perdere mercati economici nel mondo domani.
A.S. Lei fa parte del comitato scientifico del Propaganda monitor di Reporter senza frontiere. Qual è l’obiettivo di questa iniziativa?
D.C. Il «Propaganda monitor» di RSF è un progetto di indagine sulla geopolitica della propaganda, che si basa sulla constatazione che la valorizzazione del giornalismo affidabile è l’antidoto alla disinformazione e che l’identificazione degli attori della propaganda è una condizione sine qua non per contrastarla. Quest’anno il Propaganda Monitor si concentra sulla propaganda russa, con un particolare interesse per RT, un organo di propaganda controllato dal governo russo che svolge un ruolo chiave nella manipolazione delle informazioni da parte del Cremlino in tutto il mondo. Questo è già stato espresso in sei indagini, una delle quali dedicata a Vittorio Rangeloni, il giramondo italiano diventato propagandista della rete African Initiative. Il Propaganda monitor comprende anche una sezione dedicata alle soluzioni proposte da RSF per combattere la propaganda e garantire l’integrità dello spazio informativo. L’impegno deciso di RSF nella lotta contro la disinformazione attesta il ruolo che può e deve svolgere la società civile nella protezione del nostro spazio democratico. La lotta contro le manipolazioni è un problema di tutti.