ARTICOLO n. 4 / 2022

LA FINE DI UN MONDO

Strange days have found us
Strange days have tracked us down
They’re going to destroy
Our casual joys
We shall go on playing or find a new town
Yeah!

JIM MORRISON

Viviamo tempi apocalittici. Passeggiando per le strade della mia città alle prese con l’emergenza sanitaria, la paura del contagio, la corsa alle vaccinazioni, sento risuonare in petto la tensione del far convivere lo scorrere della vita ordinaria con lo spettro aleggiante (ma mai così in carne) della morte. Sento mancarmi il respiro e alzo gli occhi al cielo. Nello spazio affissioni vicino al ponte fra via Melchiorre Gioia e il parco Bam svetta la gigantografia di Don’t look up, il film di Adam McKay di cui parlano tutti e che pochi giorni fa ho divorato anche io.

Dal mio punto di vista di europeo di mezza età appassionato di cinema ci ho trovato il difetto delle commedie cerebrali americane moderne: esageratamente ammiccante, la sceneggiatura per tutta la durata del film si sforza di mostrarsi intelligente e mostrare sé stessa più che essere funzionale alla narrazione. Terminata la visione, per capire sé stessi sbagliando nel formulare il mio giudizio, ho dovuto rivedere The fortune cookie del 1961, una black comedy scritta da Billy Wilder e I. A. L. Diamond, perché la ricordavo anch’essa densa di dialoghi feroci, e quasi barocca nello sciorinare ipercinetico battute scoppiettanti, e ho capito che no, non mi sbagliavo affatto. 

Don’t look up è figlio dei nostri tempi, della voglia di chi scrive (il cinema, ma in generale tutto) di scrivere come se si stesse partecipando a un concorso, a un talent. Si procede per ammasso, si accumula, tendendo alla saturazione, come se si dovesse lanciare un detersivo, corrompere una giuria o impressionare col mostro il pubblico del circo. Per cui se scelgo di raccontare l’Apocalisse, bulimicamente infilo nel copione tutte le battute possibili. I film di Billy Wilder, ma anche la screwball comedy americana degli anni Trenta, o persino Hitchcock, possono essere anch’essi film molto parlati, ma sanno fermarsi, lasciare spazio all’immagine, sanno respirare. Hanno sceneggiature scritte ancora in funzione della storia da raccontare.

Il cinema commerciale contemporaneo, non tutto ovviamente, è scritto come se si dovesse tirare un sasso gigantesco nello stagno e far sì che gli anelli derivanti scavalchino lo stagno della storia (cinematografica). Si scrive cinema (o serie tv, ancora meglio) un po’ come se si stesse facendo uno scoop giornalistico, un saggio di danza, uno spettacolo di stand up comedian in cui conquistare tutti e far ridere sempre, pena la fucilazione.

Peccato perché la storia è semplice ma azzeccata: una coppia di scienziati scopre che una cometa è diretta verso la Terra e che nel giro di sei mesi la distruggerà. Ma il mondo non prende sul serio la notizia, perché troppo indaffarato in altre questioni. Anzi, in un certo senso la accoglie ma solo per inglobarla e piegarla al processo di spettacolarizzazione mediatica che ben conosciamo. 

Oddìo, siamo davvero così sicuri di conoscerlo bene? In questo senso bisogna ringraziare Adam McKay, perché ha scritto una storia che pone esplicitamente delle domande e sottolinea fenomeni che forse davamo per scontati oppure che no, non conoscevamo affatto. Siamo sicuri di essere a conoscenza della nostra tecno-tossicodipendenza? Di aver letto sul foglietto gli effetti collaterali? Siamo sicuri di essere pienamente coscienti di vagare ormai come dannati nella spirale digitale dell’ostensione del nostro ego? Siamo davvero sicuri di non ritrovarci in fondo disperati e soli, nel mondo che tutto comunica e interconnette?

Disperati e soli gli esseri umani lo sono da sempre. Eppure, mentre scelgo il petto di pollo al supermercato, ho la sensazione che mai come in questo momento storico da questa parte del mondo si faccia finta di non rendercene conto. Ci illudiamo di essere belli, eterni, connessi, sempre disposti alla cosa più importante da fare: scrollare, taggare, filtrare, levigare la nostra immagine per metterla in piazza, fino alla disintegrazione del corpo, alla mortificazione della carne.

In questo senso Don’t look up è un bel film, o più che bello è un film necessario. Pedagogico addirittura, didascalico come il cinema popolare italiano degli anni Cinquanta, quello non engagé: la commedia, il melodramma, il bellico e persino il comico. Cinema barocco, grottesco, semplificato, rispetto a quello degli autori, che si dava in pasto alle masse assetate di intrattenimento e fungeva bene da chiave interpretativa dei tempi e della Storia. Perciò Don’t look up, con i suoi errori, il suo sovraffollamento nevrotico di temi trattati, dalla satira contro Trump al ruolo dei media, è per come sintetizza la nostra epoca nuovo cinema popolare, cinema che sono molto felice che gli americani producano in questo periodo. È un prodotto che ha il coraggio di mettere nero su bianco che la fine del mondo non avverrà con scoppi e cataclismi. Neanche con asteroidi, pestilenze, guerre mondiali, virus, terremoti. La fine del mondo innanzitutto non avverrà. Sta già accadendo. Il mondo (o una parte del mondo, e poi a seguire tutto quanto) finirà senza effetti speciali, senza clamori. Finirà nello squallore. La solitudine ci seppellirà. Non saranno gli alieni, non sarà il meteorite imprevisto. Saremo noi a non saper governare il presente in selvaggio mutamento con un’idea di futuro e una visione adeguate. 

Saremo noi a guardare sugli schermi dei telefonini la famiglia nucleare morire. 

L’Annuario Istat dice che soltanto qui da noi in Italia il numero delle famiglie monoparentali (cioè composte da un solo elemento) negli ultimi quarant’anni è cresciuto tanto che, solo nell’ultimo ventennio è passato dal 21,5% del 1997-98 al 33% nel 2017-2018, fino a rappresentare un terzo del totale.

Fanno parte della categoria giovani e vecchi: giovani che si staccano dal nido (perché a quanto pare non siamo più neanche tanto mammoni, neppure quello, dato che lasciamo casa dei genitori solo leggermente in ritardo rispetto alla media europea, che è di 26), anziani rimasti soli magari dopo la morte del marito o della moglie, giovani che vivono lontani dalla famiglia di origine per motivi di studio o per scelta ma che non sono economicamente autosufficienti, i single economicamente autosufficienti, i divorziati o separati, i vedovi, e gli stranieri che, arrivati in territorio italiano, vivono soli.

Le cause della parcellizzazione familiare sono tante. C’è l’invecchiamento sempre più evidente della popolazione, e come dicono ormai tutti i docenti di demografia intervistati dai giornali, ci sono le trasformazioni sociali e i modi di formazione della famiglia: anche a voler stare con un’altra persona, lo si rimanda, ci si sposa sempre più tardi. Perché si invecchia sì, inesorabilmente, ma non si muore e si rimane in scena strombazzando quanto sia giusto rimanere fanciulli in eterno, in nome di Peter Pan e del mito dell’innocenza. A ingrossare le file dell’esercito degli isolati c’è poi ovviamente la donna, che, finalmente slegata dal ruolo obbligato di moglie e madre a cui è stata per secoli culturalmente assegnata, secondo i dettami della società patriarcale, si rende autonoma e indipendente economicamente e sceglie di vivere da sola. C’è un ancora misterioso e inspiegabile, per il piccolo mondo antico che abitiamo, 5% di donne che per scelta non vogliono procreare (come scrive in un bell’articolo Simonetta Sciandivasci uscito su La Stampa). E infine ci sono i fallimenti dei progetti d’amore, i separati e i divorziati tutti, anche loro, nuclei monoparentali. Li incontro ogni giorno al supermercato o al parco al mattino portare il cane a pisciare. Popolo di non anuptafobici, abbiamo vinto le guerre di indipendenza e soli regniamo sovrani.

Ma non per forza, e non ancora, felici. Dobbiamo ancora imparare. Monoparentalmente si è infatti più esposti al rischio di povertà, visto che ad esempio non si possono condividere affitti e bollette con qualcun altro. È di sicuro il problema economico quello più rilevante, ma a questo ne vanno aggiunti altri, di altro carattere, come il fatto di non poter contare su una rete di sicurezza familiare, rappresentata dai genitori o dai fratelli, quantomeno nell’immediato. Ci sono anche alcuni studi che rileverebbero conseguenze psicofisiche: il 14% di chi vive da solo, nel momento in cui gli è stato chiesto come si sentisse, ha risposto: «molto male».

Abbiamo tutte queste persone sole, ancora in coda all’hub vaccinale, che aspettano pazienti scrollando le schermate dei social; tutte queste persone sempre più giovani e sempre più vecchie che postano davanti alla Posta, per distrarsi, in coda alla Fine di un Mondo. Giovani e vecchi soli che consumano e inquinano il pianeta più di quanto farebbero in famiglia; solitudini che costano care agli Stati, esseri umani che non moriranno ma si ammaleranno e che di conseguenza comporteranno costi, assistenze sanitarie e sociali che nessun bilancio riuscirà più a sostenere se ci ostineremo a vivere con la rivoluzione tecnologica nuova in mano e sistemi di pensiero vecchi in testa, sistemi mai rimpiazzati da una nuova visione. Avremo allora superato e risolto antichi familiar-borghesi problemi (il patriarcato, il maschilismo), fatto conquiste di eguaglianza sessuale, ma senza le regole nuove queste conquiste rimarranno sterili, o buone per i rotocalchi o i videosalotti di un mondo inaridito. Un mondo di persone sole, così perdute a toccare schermi da non accorgersi che la fila è già cominciata: quella per la grande adunata nella Valle di Giosafat, obbligatoriamente in presenza.

ARTICOLO n. 93 / 2024