ARTICOLO n. 17 / 2024

LA DISTANZA PIÙ BREVE

Quando si è laureato non pensava di dover sparare. 

Si era iscritto ad Agraria come se non avesse alternative, futuro laureato per soddisfare i suoi desideri e le aspettative dei genitori. Aveva scelto la facoltà legata all’attività della famiglia paterna: la terra. Il presente universitario omaggiava la tradizione, il passato, ma soltanto per distanziarsi e ipotizzare il futuro, il futuro come manager nella Grande Distribuzione Organizzata. 

Prima di arrivare a sparare, aveva studiato alternando i libri ai laboratori; aveva studiato, annoiandosi, la storia dell’agricoltura, che gli era parsa troppo astratta rispetto alla smania di vivere, alla dipendenza dal quotidiano. Certo, occorreva conoscere la storia dell’agricoltura, il pensiero degli agronomi nel corso dei secoli per comprendere il lungo processo grazie al quale miliardi di esseri umani si erano affrancati dalla fame, ma il problema della fame, così come quello della guerra, non si era risolto in tutto il mondo, e allora lui preferiva concentrarsi sul benessere smemorato, su ciò che aveva trasformato la storia dei popoli in vicende individuali. 

Il suo ruolo sarebbe stato quello: soddisfare la fame del singolo cliente.

Aveva studiato le teorie per analizzare la conformazione degli animali, allo scopo di quotare le funzioni economiche delle esistenze, poiché ogni animale offriva, in potenza, qualcosa, e spettava all’essere umano trasformare la potenza animale in prodotto: carne, grasso, latte, uova. Aveva studiato la chimica organica, la metodologia per ispezionare e stimare i rischi degli alimenti di origine animale, le tecniche di trasformazione e conservazione. Ma soprattutto aveva studiato come valutare il cosiddetto benessere animale, le procedure relative all’allevamento e alla macellazione, o meglio, al ciclo di macellazione di bovini, suini, polli, pesci.

Ecco, ciclo di macellazione. Sia da studente che da manager della Grande Distribuzione Organizzata aveva utilizzato locuzioni tipiche – qualità nutrizionale, regime alimentare – perché così imponeva, e impone, ogni linguaggio tecnico ripetuto in modo meccanico. 

Ogni linguaggio tecnico utilizza parole condivise con linguaggi tecnici di altri settori; da alcuni decenni, per esempio, sembra sia impossibile sottrarsi al sostantivo filiera: filiera del libro, filiera della carne. 

Nella seconda metà degli anni Novanta, subito dopo la laurea, era stato assunto presso la sede centrale di un’azienda di supermercati. Il suo ruolo era adeguato alla laurea in agraria e all’indirizzo scelto durante gli studi: era diventato il buyer junior della carne. 

Il suo capo cinquantacinquenne – il buyer senior – aveva iniziato come compratore della carne quando la parola buyer non era di uso comune. Il buyer senior lavorava per quella azienda di supermercati da trent’anni, aveva comprato carne in ogni angolo del pianeta senza parlare inglese. Durante la sua carriera era stato affiancato da numerosi buyer junior i quali – dopo pochi anni, a volte dopo pochi mesi e perfino dopo poche settimane – avevano cambiato lavoro, passando alla concorrenza o a un altro settore. 

Eppure quando il buyer senior aveva visto il nuovo buyer junior, aveva pensato che quel trentenne potesse essere la scelta giusta; il buyer junior conosceva davvero la carne; il buyer junior, durante i mesi estivi della giovinezza, aveva coltivato la terra nell’azienda agricola dello zio e, fin da bambino, aveva assistito all’uccisione degli animali sull’aia della cascina. Ma quello era il passato.

Il buyer senior aveva notato la voglia di crescere, il desiderio, in prospettiva, di diventare buyer senior al suo posto. E allora il buyer senior aveva organizzato, in accordo con il presidente dell’azienda, un addestramento specifico, che necessitava di dieci giorni – due settimane lavorative – all’interno di un macello. 

Il buyer junior aveva guidato l’auto aziendale, una Fiat Punto bianca utilizzata in precedenza da un altro collaboratore. Aveva percorso la tangenziale e un tratto di autostrada fino al macello, pensando di analizzare capi di bestiame, di verificare la macellazione, la filiera della carne, appunto. 

Appena arrivato, era stato accolto dal responsabile della macellazione che gli aveva mostrato un foglio, il disegno raffigurante la testa di un bovino. Il responsabile della macellazione aveva indicato con un pennarello l’obiettivo al centro del cranio; poi gli aveva mostrato una pistola e i proiettili captivi, punte acuminate d’acciaio. 

Il responsabile della macellazione aveva condotto il buyer junior alla finestrella che si affacciava su un breve tunnel, il punto in cui attendere l’animale; si trovava un po’ più in alto rispetto al passaggio del bovino, come se il buyer junior si affacciasse al davanzale di una finestrella al piano terra, e quella leggera posizione rialzata servisse ad avvicinarsi meglio alla testa. Il bovino era entrato nel breve tunnel, aveva compiuto pochi passi, al buyer junior la testa era sembrata grande. Il responsabile della macellazione aveva sparato, colpendo il punto mostrato poco prima sul disegno. 

Il bovino era stramazzato incosciente a terra, nella condizione tra lo stordimento e la morte, morte che sarebbe avvenuta pochi secondi dopo, nella giostra di macellazione. 

Adesso toccava al buyer junior. Il bovino successivo era entrato nel tunnel, al buyer junior la testa non era sembrata grande, semmai più simile al disegno del foglio che alla realtà sopraggiungente, sì, lo spazio in cui colpire era davvero minimo, come se la testa del bovino si fosse ristretta, diventando la testa di un ovino, un agnellino di tre chili. 

Aveva sparato, il bovino era stramazzato a terra, incosciente, pronto alla macellazione.

Se ci fosse stato il tempo per porsi domande, il buyer junior avrebbe risposto che lui non uccideva l’animale, lo stordiva, lo inviava alla macellazione in uno stato di incoscienza per evitare sofferenze, e farlo morire meglio. Ma poco dopo il primo bovino, ne era uscito un altro, e poi un altro, e un altro ancora.

Alla fine del primo giorno, il buyer junior, salendo sull’auto aziendale, aveva sentito un indolenzimento al braccio destro, tenuto per quasi tutto il giorno in posizione di sparo. Così aveva guidato la Fiat Punto bianca in autostrada e poi in tangenziale usando la sola mano sinistra. Ma quei giorni, e il dolore al braccio destro, erano passati. 

Non tutti i buyer junior erano riusciti a sparare in fronte ai bovini. Lui sì, e questo lo aveva fortificato. Sparare nella fronte di un essere vivente, di centinaia e centinaia di esseri viventi, significava aderire davvero al processo di apprendistato e a qualcosa di più grande della carriera aziendale. Tra l’altro, un apprendistato di quel tipo non era necessario a un buyer junior, ma lui non si era sottratto, e l’azienda aveva così testato le doti di resistenza fisica e mentale. La promozione da buyer junior a buyer senior poteva essere valutata anche attraverso gli spari all’inizio della carriera. 

Dopo quei giorni, il buyer junior aveva comprato la carne che lui stesso aveva anestetizzato prima della macellazione, la carne che il consumatore italiano avrebbe trovato in vendita al supermercato. 

Il buyer junior sarebbe diventato buyer senior e avrebbe avuto una carriera manageriale ancora più significativa se, una decina d’anni dopo, non si fosse ammalato di cancro. 

E tuttavia, poiché aveva aderito fino in fondo al proprio ruolo, a quarant’anni, da malato terminale, era andato in Scozia per partecipare a una fiera del bestiame, conscio che sarebbe stata l’ultima fiera della sua vita, durante la quale aveva premiato un allevatore scozzese per la miglior carcassa

Era morto poche settimane dopo. 

Il buyer junior era un mio caro amico ai tempi del liceo e della giovinezza. Ventidue anni fa, sei anni prima che morisse, avevo scritto un monologo su un buyer della carne. 

Di recente ho ripensato a ciò che mi aveva raccontato a proposito della macellazione ebraica e della macellazione islamica. 

Gli addetti alla macellazione kosher erano tre, rabbino compreso. Ciascuno aveva un compito preciso. Uno leggeva ad alta voce ciò che sembrava una preghiera. Uno effettuava la visita dell’animale. Uno sgozzava. L’animale era infilato in una gabbia rotonda, quasi al buio. Il meccanismo della macchina spingeva l’animale verso una finestrella aperta, così l’animale sporgeva la testa, e allora la macchina manovrata dall’uomo si stringeva intorno al collo, ribaltava la bestia e la sgozzava, uccidendola per dissanguamento. La macellazione halal era molto simile. Avveniva durante la recita del Corano. L’animale era imprigionato in una gabbia ricoperta da un telone nero. La gabbia doveva essere rivolta verso La Mecca; anche se la macellazione avveniva nei pressi di Lodi, ciò che contava era La Mecca, la direzione verso cui l’animale, adagiato su un fianco e sgozzato da specifici coltelli, rivolgeva lo sguardo prima di morire dissanguato.

In entrambi i casi, il personale che tagliava e disossava la bestia era sempre ebreo o musulmano. La macellazione kosher e la macellazione halal avvenivano soltanto una volta la settimana, poiché bisognava allestire la parte del macello che, di solito, era pronta secondo i metodi di uccisione stabiliti dall’Unione Europea.

Oltre alle storie che raccontava il mio amico a proposito della macellazione kosher e della macellazione halal, mi è tornato in mente un piccolo, prezioso libro che avevo letto quando era uscito in Italia, nel 2011: Esecuzioni a distanza, di William Langewiesche (Adelphi). Il libro era composto da due brevi testi: il primo narrava di Crane, tiratore scelto statunitense che aveva combattuto in Afghanistan e in Iraq, eccellendo, diciamo così, per la precisione della mira grazie alla quale aveva ucciso afgani e iracheni; il secondo testo raccontava la vita dei militari che pilotavano i Predator, piccoli aerei pilotati dalla base di Alamogordo, New Mexico; i Predator restavano in volo fino a ventiquattro ore, viaggiando alla velocità di circa cento chilometri orari; erano sensibilissimi alle intemperie, tanto che una semplice pioggia poteva causare loro danni; i Predator erano utili nella raccolta dati e aiutavano le truppe di terra ma, all’occorrenza, potevano sparare e uccidere in Afghanistan o in Iraq, a tredicimila chilometri di distanza dal punto in cui erano pilotati.

Il tiratore scelto Crane, a differenza di molti soldati semplici, non sparava all’impazzata. Se fosse stato un pessimo tiratore, si sarebbe comportato come il soldato britannico che sparava a casaccio e recriminava di aver “ucciso più asini che talebani”: disappunto mitigato in parte dal fatto che, a giudizio del soldato britannico, si trattava comunque di “asini talebani”. Crane era invece un tiratore serio, professionale, e questo fatto implicava un altro tipo di inquietudine. «A quanto sembra Crane ha colpito sempre e solo bersagli giusti. Ciò significa che in varie occasioni ha rinunciato a sparare». Langewiesche evitava qualsiasi sbavatura epica guerresca e ci costringeva a un calcolo balistico, una cifra che tuttavia racchiudeva anche la responsabilità del gesto. Crane, per esempio, si era trovato a 806 metri di distanza da un altro uomo, un afgano nascosto dietro una roccia e inquadrato nel mirino del tiratore scelto statunitense. Non sappiamo nemmeno dire se 806 metri siano tanti o pochi: 806 metri sono due giri di una pista d’atletica, più quei sei metri in cui di solito, al termine della gara, si crolla a terra ansimando per lo sforzo. L’essere umano più veloce impiega circa un minuto e quarantuno secondi per compiere 806 metri; un proiettile impiega pochi istanti. Ammettiamo che in quella circostanza Crane abbia deciso di sparare, come possiamo definire la morte dell’uomo? Si può considerare un’uccisione remota oppure è la giusta distanza per sentire ancora la responsabilità del corpo di un altro uomo, l’idea che quell’uomo stesse rifiatando dietro una roccia, poco prima di essere colpito?

Mentre Crane prendeva la mira sotto il sole, in mezzo alla polvere, altri militari, a tredicimila chilometri di distanza, nella cittadina di Alamogordo, in un anonimo edifico di mattoni rossi, erano seduti su “una poltroncina di vinile marrone” e pilotavano aerei che volavano a oltre quattromila metri d’altezza, nel cielo afgano. «Oggi ci hanno dato l’Afghanistan, ma possiamo avere mappe di qualsiasi parte del mondo».

Già da buyer junior il mio amico aveva molta libertà di azione. Poteva comprare carne in ogni zona del pianeta, ma per ovvi motivi logistici privilegiava l’Italia e alcune nazioni europee, come la Francia e l’Irlanda. E poi, quando possibile, preferiva visitare i macelli, gli animali che sarebbero diventati le bistecche del consumatore. E tuttavia, con il passare degli anni, il suo lavoro era diventato più simile a quello dei militari di Alamogordo e quindi molto simile alla maggior parte dei gesti che compiamo ogni giorno. 

Cosa ci infastidisce di più? Chi uccide a distanza, con un Predator o un drone? Chi bombarda e uccide con un caccia F35? Oppure ci fa più orrore chi entra nelle case armato di fucili mitragliatori, guarda negli occhi le vittime e ascolta le urla prima di sparare? Oppure ci fanno orrore tutte queste situazioni, consci che nulla possa essere come i videogame dell’infanzia ininterrotta, perché ci pongono nella condizione di spettatori e complici? 

«L’addestramento non lo aveva preparato a niente del genere. Era come se gli avessero insegnato a uccidere in astratto», scriveva Langewiesche.  

Il buyer senior aveva mostrato al buyer junior il processo attraverso il quale si giungeva alla fettina di carne nel supermercato. Ma le uccisioni non sempre avvenivano secondo le procedure, in apparenza così ineccepibili come quelle stabilite dall’Unione Europea. 

Un essere umano si stancava di affacciarsi alla finestrella nel tunnel del macello, stravolto dal dover sparare con quella frequenza, stravolto dal dover mirare la piccola parte della testa di un altro essere vivente; e quindi accadeva che il proiettile captivo non centrasse il punto esatto per stordire l’animale, e l’animale giungeva alla macellazione ancora cosciente.

Raid. Operation Enduring Freedom. Farm to Fork. 

Mettiamo una ulteriore pellicola tra il linguaggio che depista, i gesti e le loro conseguenze. Quando i nostri corpi ci parlano, troviamo giustificazioni, utilizziamo sotterfugi, come guidare l’anonima Fiat Punto bianca con la mano sinistra in autostrada, dopo centinaia di colpi sparati in fronte ai bovini, il braccio destro indolenzito.

«Tra i movimenti del controllo e la risposta del Predator c’è un intervallo di due secondi, il tempo necessario a trasmettere il segnale attraverso le fibre ottiche in Europa, e da lì, via satellite, all’aereo in volo sull’Afghanistan». Il tempo necessario affinché il pilota, dall’altra parte del pianeta, possa correggere le oscillazioni.

Vorrei credere che due secondi di lieve discrepanza satellitare tra l’istante di Alamogordo e l’istante dell’aereo nel cielo afgano – come la breve riflessione di Crane a 806 metri di distanza, la sensibilità dei Predator alle gocce d’acqua o il dolore al braccio destro del mio amico ventisette anni fa – siano una forma residuale di resistenza anomala, forse nemmeno troppo consapevole, ma grazie alla quale possiamo ancora definirci, insomma, qualcosa.

ARTICOLO n. 93 / 2024