ARTICOLO n. 89 / 2024
L’ODISSEA IN CARCERE
Un dialogo con Valeria Verdolini
«Figlio, dai mali presto uscirai» è la sottolineatura di p.561, nel capitolo dell’Odissea che si intitola “La preparazione della strage”. Odisseo vuole uccidere i «pretendenti in cuore» e medita nel dormiveglia il da farsi. Pagina 560 però, non ha nessuna sottolineatura. Perché ciò che accade a Odisseo è solo un pezzo della storia che racconta Autoritratti, il libro/opera di Tommaso Spazzini Villa, (edito da Quodlibet, che include le postfazioni di Matteo Nucci e Saverio Verini) nato da un progetto di arte partecipata.
Nel 2018 Spazzini Villa ha coinvolto 316 detenuti di diverse carceri italiane, lasciando a ciascuno di loro una pagina dell’Odissea, chiedendo di sottolineare, solo se desiderato, alcune parole all’interno del testo presente sulla pagina. Nell’introduzione al lavoro si legge: «Le loro scelte hanno messo in luce brevi frasi di senso compiuto, che danno voce all’inconscio e al vissuto di ognuno attraverso le parole di Omero. Le pagine vuote rispettano il silenzio di chi non ha sottolineato nulla, perché non ha voluto, perché non ha trovato le parole. Sono autoritratti anonimi fatti di sottolineature e silenzi, in uno scambio di sguardi incrociati tra il testo e il lettore».
Tommaso Spazzini Villa è un artista contemporaneo, due volte finalista del Talent Prize (2015 e 2023). Nelle sue opere esplora soprattutto due tematiche: l’idea di natura e l’idea delle verità intangibili. Ci incontriamo online, ma lo spazio della telecamera è sufficiente per catturare alcuni frammenti del suo studio: un quadro di sfondo, vari livelli di libri, una luce in una bottiglia, una scritta sul muro, mobile. Alle sue spalle si staglia sulla parete: “LE LACRIME”.
A un certo punto la parola torna e gli chiedo le ragioni della scelta. In origine, l’ordine delle lettere generava la parola “MACELLERIA”, ma anagrammandola sono comparse “LE LACRIM(A)E”. Stupito, mi racconta come gli sembri incredibile che dentro la “Macelleria” ci siano “le lacrime”. C’è sempre una parola che si muove, uno slittamento di senso negli scambi con lui. Anche il suo sguardo è mobile, curioso, sorridente. Fatica a vestire i panni dell’intervistato. Incalza con domande, come se quello spazio di racconto agisse sempre per sottrazione, perché richiede spesso al mondo di riempirlo. Quando gli chiedo da dove voglia partire, se dall’opera o dai suoi protagonisti, cede il passo: «Mi faccio guidare da te, mi piace. Mi dispiacerebbe imporre io una direzione». Eppure un inizio c’è, «tutto nasce da Albinati (Edoardo n.d.r.) perché se siamo qui è perché un amico ha detto ad Albinati di venire a vedere una mostra in cui avevo fatto un primo video di questo progetto e da lì lui mi ha presentato i pezzi che sono andati a comporre poi questo volume» e una direzione, pure: Autoritratti vuole illuminare attraverso le parole uno spazio d’ombra.
Valeria Verdolini: Possiamo decidere da che filo prendere questo lavoro, a proposito di Penelope e le sue tessiture. Volendo cercare un principio, la prima questione è: perché decidi di portare l’Odissea in carcere?
Tommaso Spazzini Villa: In un modo assolutamente casuale, siccome tutta la vita succede casualmente. Ho partecipato a un TedX qualche anno fa, e nella stessa sessione parlava anche Cosima Buccoliero, che al tempo era vice-direttrice del carcere di Bollate. Il suo talk verteva sul modello Bollate e più in generale sull’esperienza del penitenziario milanese. Io avevo iniziato a fare questo lavoro di sottolineare all’interno di testi e far emergere delle frasi in autonomia, solo io. Durante il TEDX avevo distribuito alle 1500 persone del pubblico una pagina a testa, facendoli partecipare. Quando poi Buccoliero ha parlato del modello Bollate e dei laboratori con i detenuti, e di quanto queste attività avessero un valore positivo sulla recidiva, al termine dell’evento le ho chiesto se potevo proporre all’istituzione di prendere un libro – l’Odissea – e fare questo stesso lavoro all’interno di un carcere. Lei è stata gentilissima e disponibilissima, e il laboratorio si è fatto.
Parallelamente, un’altra edizione dell’Odissea che però non è ancora stata pubblicata è stata sottolineata da dei ragazzi nei licei. Si tratta dello stesso testo, con la stessa traduzione, la stessa edizione, eppure diversissimo: vedere nella stessa pagina 137 cosa ha sottolineato una persona reclusa e un ragazzo libero – che ha evidentemente una prospettiva sulla vita molto diversa – ha fatto emergere un meta-testo archetipico, poiché contiene così tanti moti del nostro del nostro animo. Il progetto è diventato poi una mostra a Roma, Albinati mi ha messo in contatto con Matteo Nucci e ci è venuta l’idea di pubblicare il volume. Così ora abbiamo questo libro di “autoritratti” di detenuti.
V.V. Un lettore che legge questa Odissea composta di autoritratti, che cosa riesce a vedere di quello spazio altro? Che cosa mette in luce questo lavoro sulle parole dello spazio del carcere che tu hai scelto di raccontare?
T.S.V. La specificità dello sguardo del penitenziario emerge soprattutto con la lettura comparata delle due Odissee, sottolineate da detenuti e ragazzi. Nelle parole scelte dal carcere emerge il dolore. Si tratta spesso di un dolore taciuto. Affiora il nostos, cioè la nostalgia, la lontananza proprio e in questo sentimento il rispecchiamento con Odisseo è fortissimo. Ci sono diverse frasi in cui i sottolineatori parlano alle mogli, alle compagne, ai compagni a casa e parlano della loro distanza da casa. Ce n’è una che dice: «Mi hai donato figli bellissimi e io così misero». Forse sono questi aspetti che colpiscono. Una persona media, esterna al mondo del carcere, di solito non pensa al carcere come un insieme di uomini e donne, ma tende a immaginare generici delinquenti. Così facendo, di fatto li disumanizza. Se ragiono così, non mi interessa niente di chi sono. Cosa fanno? Soffrono? Non soffrono? Nel pensiero comune sono solo persone da tenere chiuse lì dentro. Ecco, questo lavoro inequivocabilmente restituisce quella dimensione vitale poiché dona loro uno spazio di parola diretto. Non lo puoi leggere senza cambiare idea. Nella trama delle sottolineature è evidente che sono persone, sono vite, e so benissimo che è orrendo anche solo verbalizzare questo ragionamento. Però, parlando frequentemente di carcere, sento forte quello scarto che le persone vogliono fare, il loro desiderio di dire «io non ho voglia di umanizzare quella gente, mi sta bene che siano dei capri espiatori che stiano lì dentro». Ecco, creare questo contrasto mi interessa molto.
V.V. Nel libro ci sono queste pagine con le aggiunte scritte a mano. A parte ovviamente portare calore attraverso le diverse grafie, come funzionano nel progetto?
T.S.V. Sulla carta le aggiunte non erano inizialmente consentite perché proprio il lavoro era «fai con quello che ti capita». Si trattava di ragionare su una pagina specifica, con quel dato quantitativo di parole. Perciò, per esempio, da esecutori possiamo stare a piangere sul fatto che «avrei tanto preferito che ci fosse amore non c’è» e se stiamo a pensare che non c’è amore non si trova nient’altro da dire. Se invece ci apriamo a quelle parole possiamo trovare delle meraviglie incredibili. Però poi, quando ho trovato quelle aggiunte sulla pagina, a dispetto delle indicazioni iniziali, le ho volute mantenere comunque perché quei gesti erano così sinceri e spontanei da essere belli, andavano conservati.
V.V. Scorrendo il volume ci sono tre ambiti semantici più ricorrenti nelle sottolineature. Una serie di pagine evidenziano le parole del tempo “prima”, cioè di quello che manca in carcere. Sono le parole che descrivono il mare, la natura: sono le assenze e in qualche modo affiorano nelle parole che vengono scelte. Un secondo blocco riguarda il tempo presente, la vita detentiva, come per esempio quella pagina con «lacrime, lacrime e lacrime» in cui la persona sottolinea anche scrivendo sotto un commento. E poi c’è un terzo blocco, ossia la grande incertezza del futuro. C’è una corrispondenza tra questi tre movimenti dei tuoi autori e il movimento dell’Odissea?
T.S.V. Il mare è un topos incredibile. Il mare, assieme alla natura, alla luce, alle stelle. Una corrispondenza c’è sicuramente perché se facciamo un passo indietro sulla storia dell’Odissea (dove io sono la persona meno con le carte in regola per poterne parlare) si tratta di un’opera che ha radici in una cultura orale, con gli aedi che raccontavano e viaggiavano ripetendo a persone che l’avevano sentita già tante volte la stessa storia dello stesso eroe. In quella formula è evidente il senso di questo racconto così ampio, ossia il bisogno di offrire alle persone uno spazio di rispecchiamento dei propri patimenti, di qualsiasi tipo essi siano, che si riverberano da sempre nella storia di quest’uomo, di questo eroe. Quel racconto ha sempre avuto il potere di sciogliere qualcosa nel lettore, attraverso la sua capacità di rappresentare la loro stessa sofferenza. Perché tutti noi, quando soffriamo, pensiamo di essere gli unici a soffrire. Cioè la nostra sofferenza è “l’unica sofferenza”. E invece io credo che la funzione della letteratura con radici millenarie sia proprio la sua capacità di prenderti per mano e di dire “Guarda, anche a un eroe succede questo. A miliardi di persone è successa la stessa cosa. Questa è la via per tornare a casa. Questo è quello che lui ha affrontato. Questo lo puoi fare anche tu se vogliamo prendere questa storia”. Ma ce ne sono infinite altre. Sicuramente questi tre temi che tu trovi sono qui dentro, ma anche molti di più, perché per esempio rispetto all’Odissea sottolineata dai ragazzi è incredibile come cambiano le cose [mi mostra due pagine 219 a confronto, ndr.].
La pagina sottolineata in nero è stata fatta da un detenuto ed è «Mi hai donato figli bellissimi e io così misero». Quella in arancione è di uno studente e diventa: «Scusa madre per ogni giorno». Questo confronto fa vedere quanto anche la stessa pagina possa contenere due moti d’animo totalmente opposti: uno è un genitore che parla all’altro genitore dei propri figli e l’altro è un ragazzo, Telemaco, che parla a Penelope. Tutto questo è lì dentro. Mi piace pensare all’Odissea come un bacino enorme di cose dentro le quali ognuno di noi si rispecchia e legge parti di sé. Quello che leggo io è diverso da quello che leggi tu. Questo si sposta poi anche a un meta-livello, per cui anche gli autoritratti, la lettura stessa degli autoritratti è comunque diversa in base alla sensibilità del lettore. A me fa sempre molta impressione perché quando parlo con le persone mi dicono quale ritratto preferiscono e per ognuno è diverso. È incredibile questa cosa. C’è quella famosa frase un po’ retorica, «non siamo noi a leggere i libri, ma sono i libri che leggono noi», che però ha un’indicazione molto, molto vera. E in un certo senso questo progetto lo mette in luce, anche se molti sono stati ragionamenti ex post. Non è che io ho fatto questo progetto per verificare tutte queste ipotesi. Io l’ho fatto così, andando veramente a caso e poi ragionando, parlando, vedendo. Abbiamo cominciato a leggerci diversi strati di lettura e di fruizione.
V.V. Nel testo fai parlare tutti, ma non c’è un tuo commento all’opera. L’unica cosa che in qualche modo ci suggerisce forse una tua chiave personale è l’esergo di Pessoa. In cui c’è «la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta». Come mai questa sottrazione e che cosa ci dice con l’esergo, forse è l’unica tua voce nel testo?
T.S.V. Questa sottrazione è stata fonte di grandi patemi da parte mia. Considera che ho riprodotto questo progetto su sei volumi diversi, con gruppi di persone molto diverse: da sconosciuti sui mezzi pubblici a gente dei gruppi di lettura, persone a caso su Instagram, internet, blog, passanti, studenti, detenuti. Alla fine di tutto questo mi sono esattamente fatto la domanda che tu hai appena fatto a me: “Ma tu?”. Per darmi una risposta ho preso una Lettera 22 Olivetti e per un anno e mezzo, sostanzialmente tutti i giorni, in modo metodico, ho preso la Divina Commedia, ho battuto ogni giorno una pagina a macchina. Sono undici terzine, 33 versi. Ho prodotto una copia della Divina Commedia a macchina, ogni giorno una pagina, e nell’arco di quella giornata, su quella pagina, sottolineavo io qualcosa. Il giorno dopo, altre undici terzine, fino a farla tutta. Tutto l’Inferno, tutto il Purgatorio e tutto il Paradiso. Si tratta di un mega autoritratto spalmato su 580 giorni o qualcosa del genere, e non più attraverso le parole di Omero, ma con le parole di Dante e attraverso il viaggio di Dante nelle tre cantiche. E con quello mi sono detto: adesso l’ho fatto, l’ho fatto anche io.
V.V. C’è anche un punto di contatto perché nel canto di Ulisse in qualche modo i due libri si parlano in modo molto chiaro. Sicuramente, Dante l’aveva letto, Omero. A proposito del “mettere in luce” e lasciare in ombra, tu operi una seconda sottrazione. Manca il racconto di tutto quello che è accaduto: cioè di quelle giornate in cui tu entri in carcere e incontri i detenuti.
T.S.V. È stata una scelta voluta, per lasciare più spazio a quella dimensione di cui parlavamo prima, cioè alla loro voce, per sottrarsi a un atteggiamento un po’ pruriginoso e voyeuristico che chi sta fuori dal carcere ha nei confronti del carcere. Ho chiesto a tutti di rimanere anonimi, ho cercato di asciugare il progetto all’essenziale. Il carcere è il carcere, e se qualcuno ha voglia di sapere che cos’è il carcere ci sono strumenti e studi per conoscerlo e capirlo. Io volevo che questo lavoro non diventasse un’indagine socio-antropologica. Volevo che emergesse la potenza delle parole attraverso le parole di Omero. Non dico quali sono le carceri in cui si è svolto o le pene degli autori, basta sapere che le persone che hanno scelto le parole sono persone in una condizione di restrizione della libertà. Un elemento che è emerso molto nell’incontro con loro nei laboratori è la loro sorpresa: mi dicevano “se mi avessi dato una pagina bianca non avrei mai scritto questa frase”.
E qui c’è il punto focale di questo progetto: il cuore del lavoro è proprio l’incontro con il testo, che peraltro è un 361esimo del testo, molto scollegato dal tutto. Le pagine sono state distribuite a caso. Molto spesso la gente non conosce la storia nei dettagli: se pensiamo all’incontro con i Lestrigoni, il punto non è chi sono, cosa fanno, ma cosa dice il testo e come risuonano le parole scritte. A volte mi chiedevano: “Devo leggere proprio tutta la pagina?”. E io dicevo “come vuoi, assolutamente come ti viene, con l’unica regola di scegliere, tra tutte le frasi presenti, quella più vera, quella che per te è proprio vera. Non quella bella. Non quella intelligente. Non quella colta, tantomeno quella che pensi che gli altri vorrebbero per te. Qualsiasi cosa sia, se non c’è niente, lascia vuoto. Non c’è nessun Über dovere a cui bisogna sottostare, solo la possibilità di esprimere qualcosa che forse in questo incastro totalmente casuale della pagina che ti è capitata viene fuori se non c’è nessun problema”.
Poi parlando delle frasi che erano venute fuori c’era sempre la sorpresa: “Ma com’è possibile che io che ho figli abbia ricevuto proprio la pagina con i figli?” Oppure: “E non ho ucciso nessuno”. C’è qualcuno che non ha ucciso nessuno? Un’altra cosa che mi ha colpito molto è accaduta durante un laboratorio. Una signora si è alzata. Aveva la sua pagina in mano e ha detto: “Sai, alla fine è come se questa pagina ti spiegasse la vita, perché quando non hai ancora iniziato a sottolineare niente è come quando sei bambino e tutte le scelte davanti, poi fai una scelta, poi ne fai un’altra, poi sei obbligato a farne un’altra e se fai delle scelte di merda come le ho fatte io, ti blocchi, come io che sono bloccata qua dentro”.
Questo è un altro punto che non avevo assolutamente considerato prima di farlo fare a così tante persone. Si crea una sorta di verità nello sguardo della pagina, cioè c’è qualcosa che poi si rivela di te attraverso le parole scelte e l’azione della scelta: quanta ansia hai a cercare le parole, quanto tempo ci metti, la rifrazione di questo lavoro rispetto a chi lo fa. Nonostante il tutto si sia svolto in una casualità veramente totale, c’era chi doveva cercare in una bella pagina intera piena di parole, ma anche chi ha trovato il senso in quei finali di capitolo con sette righe E mi sentivo male ogni volta che capitavano pagine con quattro righe. Eppure ci sono delle persone che in quelle quattro righe hanno fatto delle cose straordinarie, chi invece con una bella pagina intera ha poi scelto di non fare niente. Questa è anche una piccola metafora della vita: non è tanto quello che ti capita ma l’atteggiamento che hai rispetto alle cose. Bastano due parole per restituire un ritratto di una potenza incredibile, non serve molto di più.
V.V. Ho ripercorso la tua attività artistica e tu parli spesso di questa centralità della natura nelle tue opere. Mi ha colpito perché se c’è un luogo in cui la natura è quasi totalmente assente, quello è lo spazio penitenziario. Anzi, una delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa quando si osservano gli spazi penitenziari è proprio capire se nei cortili dei passeggi si vedono dei frammenti di elementi naturali: il ciuffo di una pianta, un angolo di un ramo di un albero. Come stanno insieme questi due mondi quasi antitetici?
T.S.V. Guarda, stanno insieme per un sottilissimo filo rosso che è lo sguardo. Oltre alla natura, un elemento che c’è, che continua a tornare nella mia ricerca artistica è ciò che non si dà immediatamente a vedere. Non so se hai visto quei lavori [il progetto dell’artista dal titolo “Ombre”, n.d.r.] in cui sono delle foglie secche e che proiettano un’ombra e sulla foglia non c’è nessuna manipolazione da parte mia, ma è solo prendere una foglia e vedere se in una certa angolazione proietta un’ombra antropomorfa. Ecco, posso dirti che questo lavoro degli autoritratti è l’equivalente del lavoro delle foglie, perché mette altrettanto in luce una cosa che c’è. Perché quelle frasi sono lì, ma non si vedono finché qualcuno non le sceglie. Quelle ombre ci sono, ma fino a che qualcuno non mette una luce non si vedono. Non è tanto la natura il filo che le lega, quanto lo sguardo. Lo sguardo capace di mettere in luce ciò che non è immediatamente visibile.
V.V. Mentre parli risuona quella famosa frase di Calamandrei: “Bisogna vedere, bisogna avere visto”, che aveva pronunciato nella seduta costituzionale di stesura dell’articolo 27 a proposito del carcere e dell’umanità della pena. Ma soprattutto, è la stessa frase che ha usato anche l’allora Presidente del Consiglio Draghi quando uscì dalla visita a Santa Maria Capua Vetere dopo la pubblicazione dei video delle violenze e degli abusi in divisa.
T.S.V. Eh sì, questo sguardo può avere chiaramente molti oggetti e molte intenzioni. Ma se l’intenzione è comune, ciò che emerge è sempre valido. In altre parole, se quello sguardo fa emergere una realtà orrenda di violenza taciuta, di soprusi, è fantastico questo aspetto rivelatore. Se quello sguardo fa emergere la poesia che è nelle cose, è altrettanto splendido. Si tratta di un esercizio quotidiano: sintonizzarmi su quello sguardo che non è per niente garantito. Non è che io mi sveglio e ho quegli occhiali per leggere il mondo, è proprio un movimento interno di cercare di non vedere le cose nella loro realtà immediata, superficiale, ma vedere e per poi dire di avere visto un po’ oltre. Un po’ verticale.
V.V. Molti dicono che quando si attraversano le porte del carcere l’esperienza stessa di attraversarlo, di stare in un posto non libero, ha la capacità di chiarire tanti pezzi delle persone che lo attraversano. Questo non vale solo per le persone che entrano in detenzione ma anche per coloro che partecipano a un laboratorio o per una visita. Il carcere ha quasi una capacità propria di rendere le cose più chiare, più leggibili. Lo ritrovo molto in quello che tu dici. In qualche modo diventa più leggibile anche l’Odissea nelle parole delle persone che l’hanno sottolineato. Ci sono altri libri che vorresti far rileggere dallo sguardo altro?
T.S.V. Ho fatto una cazzata enorme. Ho ripetuto lo stesso progetto in Inghilterra nelle carceri inglesi usando il “loro”Ulisse, ossia quello di Joyce. Tutto quello che abbiamo detto è vero per l’Odissea, ma non è valido per ogni libro. Se tu scegli un testo così refrattario come l’Ulisse di Joyce, quella stessa cosa, quella capacità di risuonare, non succede. Ora mi hanno proposto di ripeterlo in America, e di farlo su una traduzione inglese dell’Odissea e di farlo anche nelle università, sto studiando le diverse traduzioni e ne ho individuate tre: due in versi e una in prosa. Perché uno dei problemi che ho riscontrato non avendo come idea a monte di pubblicare il libro è stata ricostruire la pubblicazione “corretta” a partire da quella che avevo già fatto sottolineare.
Per il lavoro avevo infatti scelto la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, al contempo la più facile e più filologicamente corretta. Un’edizione non così semplice da replicare. Perciò, quando è stato il momento di pubblicarla si è trattato di ripubblicare paro-paro quell’edizione, perché se anche l’impaginazione non è la stessa, salta tutto. E poi molti, come hai visto, vanno nelle note. Anche tutto l’apparato di note era da ripubblicare. Einaudi è stata molto generosa nel concedere i diritti di utilizzo e permettermi di mantenere il lavoro fatto su quella bella e rara traduzione.
V.V. Quali parole ti porti dal carcere, se dovessi farmi le sottolineature di questo progetto, un ritratto di questa esperienza?
T.S.V. Forse “disumanizzante”. Ogni tanto penso e spero che arrivi presto il momento in cui penseremo a questo tipo di detenzione come oggi pensiamo a ciò che è stata la schiavitù. Ma come cazzo potevamo pensare che fosse possibile possedere un uomo? Come potevamo affermare rispetto a una persona “Questo è il mio schiavo”? Vorrei che si potesse arrivare al punto in cui si potrà affermare con questa stessa estraneità “veramente noi tenevamo le persone chiuse 23 ore al giorno per 15 anni in una cella da sette con due metri?”. Lo stesso stupore e lo stesso straniamento che poteva aver provato Basaglia nei suoi attraversamenti manicomiali: “Veramente noi tenevamo della gente legata ai letti in quella maniera?”. La parola che più di tutto mi risuona pensando al carcere è “disumanità”, “disumanizzante”, “alienante”. E poi, che il carcere ci riguarda, riguarda tutti noi. È tragico che la gente pensi che il carcere è solo per “i delinquenti” e che loro, a differenza di questi, sono delle brave persone. Come dire “non mi riguarda”: invece il carcere ti riguarda, perché se il carcere non rieduca e la recidiva è al 70%, prima o poi qualcosa del carcere rischi di incrociarlo. Come si dice in inglese shit happens, ci puoi finire dentro pure te.
V.V. C’è un’espressione che mi piace tanto del carcere come “la pena del tempo perso”. Le pene lunghissime, come gli ergastoli, cambiano la prospettiva perché non esiste più un tempo altro rispetto alla detenzione, allora anche quel tempo deve diventare un tempo di senso. Dall’altra parte l’altra questione che paradossalmente la funzione rieducativa trova spazio e senso solo per coloro che hanno delle pene molto lunghe.
T.S.V. Questo rapporto tra il tempo perso e il tempo con prospettiva invece mi ha fatto un effetto enorme, perché poi è lì che si concentra tutto. Se stai dentro e vivi il dentro, o se stai dentro pensando al fuori, in che modo il fuori mantiene un senso per te, senza impazzire nel frattempo? Pensa solo ai rumori del carcere. Mentre parlavamo, mi sono reso conto di un aspetto sul quale forse non avevo mai ragionato se non qui con te che in qualche modo restituisce un ulteriore livello di riflessione sul progetto. Ossia che l’idea di scegliere il carcere è all’interno dello stesso movimento di sottolineare le parole e far emergere una realtà che non si vede. Come le frasi degli autoritratti, chi sta in carcere non si vede. Se si parla di carcere si parla astrattamente del sovraffollamento, dei problemi, invisibilizzando così, allo stesso tempo, le persone, le storie. Però loro sono le parole sottolineate. Con questo lavoro l’idea era di fare emergere loro, di fare emergere chi è dentro, di far emergere la voce di chi è dentro, di illuminarli.
V.V. In qualche modo anche le scelte stilistiche del lavoro, il libro scarno, se non per i due testi di accompagnamento, nessuna descrizione, nessuna aggiunta, sembra quasi funzionale a non confondere, a non affievolire la potenza delle parole.
T.S.V. E lasciare che questa cosa salga. Il libro finisce con questa sottolineatura: «Senza più spavento il futuro aspetto». L’ultima pagina, anziché chiudere, apre.