ARTICOLO n. 96 / 2024

L’ANNO DEL PENSIERO BORGHESE

Non è stato un anno facile.

Non parlo per me: quella che voglio fare in questo ormai usuale appuntamento di Capodanno è una riflessione ampia, cercando di renderla collettiva.

Almeno per quella collettività che sento più vicina e che attraverso quotidianamente come donna, come volontaria e come divulgatrice.

Non è stato un anno facile, dicevo.

Il 2024 è stato segnato da due parole: dissenso e scollamento.

La prima definizione è spesso abusata in senso borghese, anche da parte di intellettuali e riferimenti politici e culturali del centro-sinistra. Secondo questo adattamento liberale e rassicurante, il dissenso sarebbe una forma di disaccordo espressa con toni e modi educati, preferibilmente con linguaggio forbito e non scurrile, rigorosamente nelle giuste sedi (le loro, di solito). La rabbia, il dislivello di potere, la frustrazione derivante dalla discriminazione sistemica, dall’inedia dei rappresentanti politici, dal paternalismo dei riferimenti culturali, dalla paura del futuro, sono elementi che non sono compresi e accolti in questa forma degradata del concetto di dissenso: a palazzo l’educazione viene prima di ogni altra cosa. 

Il secondo termine, che è quello che più mi preme analizzare, è, come dicevo, scollamento.

Lo scollamento delle élite (culturali, editoriali, imprenditoriali, politiche) dal paese reale. Nello specifico: dalle richieste del paese reale. Non più adatte a leggere il contemporaneo, probabilmente addormentate in stipendi a cinque zeri, o con le pance troppo piene dalle cene nei salotti-bene, hanno perso la capacità di rappresentare o quantomeno ascoltare le questioni della società civile.

In questo anno appena trascorso, lo scollamento si è fatto talmente evidente da diventare scisma. Da un lato, i soliti incravattati che cianciano svogliati di argomenti che non conoscono – un esempio su tutti, i maschi in tv che parlano di aborto: mi auguro che questa piaga finisca nel 2025 –, dall’altro il tumulto di chi quei temi li vive sulla propria pelle ogni giorno. Nel mezzo, il perbenismo che separa e rende incomunicabili i due estremi.

Lo scollamento tra chi dovrebbe essere capace di leggere il presente e il contemporaneo reale è stato così netto ed evidente da aver costellato il 2024 di momenti colmi d’imbarazzo, tanta era l’inadeguatezza del circolo intellettualpolitico di comprendere il mondo (spesso anche quello a loro più vicino).

E mentre il fronte transfemminista – che nel suo associazionismo, nel suo mutualismo dal basso, nel suo continuo teorizzare e mettere in pratica, mettersi in discussione e non arrendersi alle limitazioni e discriminazioni imposte da una politica deumanizzante rimane a mio avviso la forma più adatta a leggere e cambiare il presente – incalzava la politica e il mondo intellettuale con richieste e rivendicazioni specialmente sui temi della violenza maschile contro le donne, l’altro lato faceva spallucce e pregava di agitarsi, certo, ma in modo composto e non troppo rumoroso. 

Questo scisma – scaturito da un malcelato perbenismo e dalla paura di perdere le poltrone – si è fatto particolarmente evidente in questi mesi, diventando una vera e propria faglia ogniqualvolta si parlasse di violenza di genere. Già, perché la violenza maschile contro le donne è stato uno dei temi più discussi anche di questo stanco 2024.

L’attenzione delle generazioni Z e Millennial sulle dinamiche di potere sessiste è infatti in continua crescita. Dal 2016, anno del MeToo, fino alla pandemia del 2020, in cui le case divennero i luoghi dai quali proteggere moltissime, troppe donne, l’attenzione e preparazione collettiva su questi temi si è fatta impressionante.

Un livello tale di autoformazione (già, perché nelle scuole e nelle famiglie di certi argomenti non si parla: in Europa siamo, su questo, fanalino di coda; se vogliamo proteggerci e decostruirci dobbiamo ancora farlo in autonomia, declinando alla singola inclinazione personale la formazione su determinate materie) sulla questione di genere non si vedeva dagli anni ’70. E anzi, azzardo: con l’avvento dei social, di piattaforme di informazione intersezionali e di reti nazionali transfemministe sempre più ramificate e solide, credo si siano raggiunte zone e fasce di popolazione fino a qualche decennio fa irraggiungibili.

E non solo. Movimenti globali come il MeToo ma anche il corrispettivo spagnolo che ha investito Podemos solo qualche mese fa hanno reso le voci e le preoccupazioni di intere categorie un rumore costante che è ormai impossibile da ignorare.

Eppure, incredibilmente, in Italia siamo riusciti nell’impossibile.

Anche nel 2024 abbiamo ignorato, sottovalutato, snobbato e sminuito la coralità delle voci arrabbiate dalla staticità di questo paese su temi urgenti da talmente tanto tempo da essere ormai diventati anacronistici.

Mentre gennaio si apriva con il femminicidio di Ester Palmieri, Valditara proponeva un programma di educazione sentimentale (?) autogestito (??) facoltativo (…) per le scuole superiori di secondo grado. In un paese ancora ricolmo di rabbia per i femminicidi del 2023, è stato come ricevere uno sputo in un occhio. L’ennesima dimostrazione di quanto questo paese sottovaluti l’importanza della prevenzione e della formazione in ambito scolastico, a partire dalla scuola dell’obbligo. Ma nessuno ne ha parlato con consapevolezza, al di fuori degli ambienti femministi. Il circuito intellettuale non pervenuto, la sinistra nemmeno.

Sempre a gennaio cresceva una tensione palpabile, destinata a non arrestarsi per tutto il corso dell’anno. Questa escalation di rabbia – legittima – veniva veicolata e cavalcata dai quotidiani e dai programmi di infotainment, che hanno iniziato a seguire con morbosità i casi di femminicidio di Cecchettin e Tramontano. 

Morbosità che ci porterà a dover subire, durante tutto il 2024, un bombardamento mediatico assolutamente non professionale sulle parole di Impagnatiello (che finisce pure per scrivere una lettera manipolatoria, irrispettosa ed egomaniaca che verrà letta in diretta a La Zanzara) e quelle di Turetta, di cui verrà mandato in onda perfino il video dell’interrogatorio.

Mentre le parole dei femminicida occupavano le prime pagine dei quotidiani e i caroselli social dei profili d’informazione, Vanessa Ballan e altre 100 donne venivano uccise dai compagni e dagli ex. Ma queste notizie sono passate in secondo piano perché eravamo e siamo ancora troppo impegnati ad ascoltare le a quanto pare così preziose e interessanti parole di Impagnatiello e Turetta. Delle donne sembra evidente che ci interessi meno degli uomini che le hanno uccise.

Da febbraio, la Lega e Salvini hanno iniziato una campagna xenofoba mirata alla ricerca di consensi sfruttando le vicende di violenza sessuale commesse da stranieri. Facendo leva sul razzismo insito nella nostra cultura colonialista e nazionalista, gli appelli – patetici – del leader del Carroccio sono serviti a plasmare parte del suo elettorato e ad aprire la strada a una propaganda becera e falsa sul tema della violenza maschile contro le donne.

Non solo quelli della Lega torneranno a chiedere a gran voce misure punitive quali la castrazione chimica per gli stupratori (di nuovo: questo dimostra quanto siano ignoranti sul tema), ma forniranno uno spunto di riflessione al loro esponente nonché Ministro Giuseppe Valditara, che arriverà a dire che gli stupri nel nostro paese siano nella stragrande maggioranza dei casi commessi da stranieri.

Non pago di aver tirato questa colossale bufala ripresa e difesa anche da Meloni (i dati ministeriali e ISTAT smentiscono infatti questa dichiarazione propagandista approssimativa e superficiale; in più il Ministro e il Presidente non tengono di conto del sommerso dei casi di violenza mai denunciati, dimostrandosi così di nuovo inadeguati nel trattare un argomento che richiede non solo preparazione, ma anche della doverosa serietà), Valditara, nello stesso discorso, riuscirà a dichiarare che il patriarcato non esista. Anzi, che non esista più dal 1975, anno della riforma del diritto di famiglia.

Il Ministro pronuncerà queste parole in collegamento video, a Montecitorio, davanti a Gino Cecchettin, durante la presentazione nazionale della Fondazione Giulia, intitolata a sua figlia e che si occupa proprio del contrasto alle forme patriarcali di violenza maschile contro le donne.

In questo panorama desolante e palesemente sessista portato avanti dagli esponenti del Governo – non riconoscere il problema vuol dire non avere cura o grande interesse per la qualità della vita e sopravvivenza delle donne – la risposta intellettuale e politica della sinistra è stata tiepida quanto sciapa.

Già durante Sanremo vi fu un primo accenno di tentennamento da parte della sponda intellettuale: in seguito al problematico discorso che avrebbe dovuto sensibilizzare sul tema del consenso scritto da Matteo Bussola e recitato dagli attori di Mare Fuori sul palco dell’Ariston, parte della bolla editoriale finì per schierarsi dalla parte del collega. Il testo, deresponsabilizzante verso le istituzioni, sbilanciato, impreparato e supponente, non citava mai le parole sessismo, misoginia, possesso, violenza maschile, patriarcato. Declinava al singolo – e alla singola, giusto per ribadire il Leitmotiv cerchiobottista “anche le donne sono violente” – la responsabilità della riforma del lessico sentimentale e anche della salvezza dalle situazioni di pericolo (che bello ribadire così velatamente che se ti menano alla fine è un po’ colpa tua). 

Già in questa occasione gran parte della classe intellettuale si dimostrò poco preparata nel comprendere la gravità di un discorso approssimativo di quel tipo sul palco più guardato d’Italia, e non furono poche le accuse di isteria ed esagerazione nei confronti delle associazioni e delle voci transfemministe che dissentivano dalle infelici scelte lessicali di Bussola.

Si intuivano già una certa frizione e disgusto verso modi e temi che fino a pochi mesi prima si erano accolti e cavalcati senza indugio. Ma quel periodo idilliaco sembrava già ampiamente terminato: un autore era stato toccato dalle critiche legittime da parte di chi di questi temi si occupa quotidianamente con preparazione e serietà, e questo poteva diventare un precedente pericoloso. Le femministe mica si incazzeranno pure con la classe intellettuale? Non avranno mica l’ardire di rivoltarsi contro il mondo della cultura che per qualche mese – giusto il tempo della durata di un qualsiasi trend topic – ha dato loro attenzione?

Questa frizione è diventata scisma irrimediabile a novembre, quando il caso Caffo ha investito le pagine dei giornali, le televisioni e soprattutto i social media. Invitato a Più libri più liberi, fiera dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin, durante un processo che lo vedeva prima imputato e poi condannato in primo grado per violenza domestica e lesioni gravi, Caffo è diventato il simbolo della incapacità della classe intellettuale di essere oggettiva e coerente.

Molti intellettuali hanno difeso a spada tratta la decisione della fiera di invitare il filosofo a un evento per lui in quel momento assolutamente inopportuno, visto a chi era titolato. E come da perfetta prassi reazionaria, le voci di dissenso verso questa partecipazione sono state tacciate di violenza, di cattiveria, di istintualità barbara. 

Per difendere un collega (e amico: siamo qui nella sfera di quello che Fulvio Abbate ha denominato “amichettismo”) molti scrittori e scrittrici nonché editori sono venuti meno a un principio su cui per anni si era fatto informazione e divulgazione (e fatturato), e nel ricevere delle dure quanto doverose critiche si sono difesi con la peggiore arma possibile: il piagnisteo classista.

I social sono stati derubricati a luogo inadatto al pensiero, al ragionamento, alla cultura. La pratica del dissenso e la richiesta di spiegazioni sono diventate in questa contro-narrazione delle forme di violenza. Le richieste di coerenza sono state dipinte come il solito “fascismo degli antifascisti”. La teoria transfemminista ridotta al mero luogo comune di roba da bambine frustrate che usano slogan per sentirsi grandi. Da un lato gli intellettuali, dall’altro chi non è in grado a detta di molti di comportarsi in modo educato.

Tra le mille levate di scudi della classe intellettuale che ho letto in queste settimane, quella più gettonata recitava: «Queste critiche faranno solo da assist alla destra». Anche qui, mi duole vedere quanto non sia chiaro un concetto semplice, ovvero che chi ha agito in questo modo screditante, sessista, classista e incoerente ha proprio avuto gli stessi comportamenti delle destre. E forse non è nemmeno troppo chiaro a queste voci di quanto la destra faccia tesoro proprio di questi comportamenti incoerenti e garantismi ad personam, di questo doppio standard acritico e giustificante verso “i nostri” che commettono abomini, di questo scollamento tra idee e pratica che diventa infantile, pericoloso, contraddittorio. 

L’inadeguatezza della classe intellettuale nell’essere davvero coerente e nel saper leggere il contemporaneo ha dato ancora più armi alla destra, che ne esce rafforzata, tacciando da un lato le femministe come isteriche e la sinistra dei salotti come ignava e in definitiva molto più simile a loro di quanto questi immaginino. Nello screditare le ragioni del movimento transfemminista davanti a casi come quello di Caffo a PLPL ne ha vinto soltanto chi crede che il dibattito sulla violenza maschile contro le donne sia una solfa ideologica senza fondamento, e questo è un fatto imperdonabile. Come è imperdonabile l’ammutinamento culturale e partitico verso i temi del femminismo e le battaglie che questo movimento cerca di portare nella politica.

Mentre in Francia (e nel resto d’Europa e del mondo) non si faceva altro che parlare del coraggio di Gisèle Pelicot e della banalità del male che vive negli uomini comuni che hanno partecipato a quei dieci anni di stupri senza mai un tentennamento, senza mai un ripensamento o un dubbio sulla loro condotta, in Italia ci si azzuffava contro le femministe che di nuovo protestavano davanti a un’occasione di inopportunità come quella di invitare Tony Effe a un evento pagato con i fondi pubblici. Si è urlato alla censura, in un modo scomposto e reazionario.

Mentre le prime fasi del processo di Mazan si svolgevano a fine estate in Francia, qui in Italia avevamo un enorme problema con i ritardi dell’applicazione del codice rosso da parte di questure e tribunali. I casi di Angelica Schiatti, Federica d’Orazio e di Elisa Aiello sono tra questi, ma anche quello di Casaviolenza, donna che rimane anonima per sua scelta e che denuncia pubblicamente i ritardi del tribunale nel trattare la sua vicenda di abusi domestici. E in tutto questo stallo alla messicana tra procure, tribunali, applicazioni di misure cautelari, donne parcheggiate per anni in case rifugio, altre costrette a rimanere chiuse in casa per paura di essere ammazzate, sul Corriere della Sera viene intervistato Caffo – sempre lui – e gli viene chiesto quanto sia dura per lui essere imputato di violenza e di quanto sia dura la sua, di vita. Non quella della donna che ha, da verdetto del tribunale, picchiato e screditato per anni. L’articolo viene rilanciato e apprezzato da molte intellettuali vicine agli ambienti progressisti.

In Francia, le intellettuali si uniscono intorno a Pelicot e le fanno scudo e contemporaneamente fanno pressione a Macron per riformulare una legge sul consenso che tuteli le vittime di violenza sessuale in modo più specifico e porti il Codice penale francese in linea con le direttive europee di contrasto alla violenza maschile contro le donne. Le attiviste francesi, la classe intellettuale, la sinistra parlamentare e la società civile si muovono in modo coeso e riescono a far breccia con le richieste giuridiche espresse dalla convenzione di Istanbul. Il processo ai fatti di Mazan diventa un punto di partenza e di coesione. Le proteste che hanno invaso le strade del sud della Francia e il sostegno collettivo non sono mai state tacciate di isteria e infantilismo. 

Mentre Gisèle Pelicot ricordava che la vergogna deve cambiare lato quando si parla di violenza di genere, in Italia ci si barricava dietro a un muro di garantismo borghese, che ricordava i tempi del processo a Izzo, Ghira e Guido per il massacro del Circeo. “Fino a prova contraria” è stata la frase più ripetuta per settimane, insieme a “non sono questi i modi per fare cultura”.

Tra giornalisti di sinistra (in un disperato tentativo di cercare un po’ di visibilità: l’Italia è una Repubblica fondata sull’io-io-io) che davano alle femministe delle trumpiane fascistoidi e direttori editoriali che urlavano alle femministe di essere delle Erinni, tra garantisti dell’ultima ora e paternalismi alla “ragazze mie lasciate che vi insegni come si sta al mondo”, la classe intellettuale ha dimostrato di essere assolutamente inadatta a leggere il presente e le sue urgenze, proprio come il centrosinistra al quale spesso si assimila e dal quale si fa sovente coccolare.

Ma tutto questo ha un costo, e questo costo a me personalmente spaventa moltissimo.

Non comprendere la rabbia, non comprendere le urgenze, la frustrazione, la fame, la necessità di intere categorie e ben due generazioni può avere effetti disastrosi.

Non solo per la cultura, che rischia di diventare ancora più polverosa ed elitaria di quanto già non sia, ma anche per la politica, che allontanerà sempre di più i giovani e le categorie marginalizzate dal dibattito e dai programmi politici.

Il rischio di tutti questi discorsi sul metodo è che ci si dimentichi il merito. 

E in questa dimenticanza si sviluppa il terreno perfetto dove coltivare la rabbia.

La questione di genere è solo uno dei tantissimi temi affrontati male e con superficialità da un certo mondo politico-culturale del centrosinistra. Lo snobismo ormai neanche troppo latente che caratterizza la nuova alta borghesia di sinistra tratta con sufficienza ogni tematica civile e sociale che non si piega alle logiche della democristianità ed esige invece risposte pronte e ascolto diretto dopo secoli di marginalizzazione.

Sono davvero poche le voci che si sono schierate in controtendenza in questo 2024 (mi preme ricordare Sciandivasci, Terranova, Kan, Paganelli, Signorelli, Sfregola e Coin tra queste) ma al di fuori di questa bolla c’è un intero paese che si muove e agita alla ricerca di azioni e risposte. Lo dimostrano le piazze piene, i collettivi più vitali che mai, le nuove forme di informazione (le redazioni di Scomodo e Generazione su tutte), le associazioni e le ONG che non arretrano di un millimetro e procedono nella loro resistenza attiva a un sistema che non tutela intere fette di popolazione. Lo dimostrano anche la poca voglia che hanno le nuove generazioni di prendere ormai sul serio i bacchettoni dei salotti perbene, la valanga di meme satirici verso la classe politica e intellettuale (come Madonnafreeeda), lo strafottente desiderio di far arrabbiare questi nuovi democristiani perché tanto ormai la frattura è scomposta ed esposta, tanto vale farli fessi più che interlocutori.

Mi chiedo dunque a cosa siano serviti in queste settimane tutti quei retorici articoli di giornale che parlavano dei modi adeguati, gli spazi giusti, i pericoli del digitale e della polarizzazione. Me lo chiedo perché credo sia davvero naïf non comprendere quanto ormai si debba spesso per necessità essere polarizzanti se manco gli intellettuali “di sinistra” capiscono più il concetto di opportunità e tutela delle vittime di violenza di genere.

Mi chiedo davvero come si possa pensare di dare lezioni d’etichetta davanti a un paese in tracollo senza prendersi quantomeno un sonoro vaffanculo di rimando.

Mi domando in quale bizzarra dimensione parallela si sia finiti per doverci sorbire le preoccupazioni sulle derive del digitale da parte di chi fa soldi tramite l’autopromozione su internet (tutti i giornali, tutti i partiti, quasi tutti i giornalisti, ogni casa editrice, assolutamente ogni scrittore, ndr).

Mi chiedo fino a che punto si debba tirare ancora la corda prima di capire che forse l’unico pregio della sinistra italiana era quello di saper leggere le necessità della classe operaia e delle cosiddette minoranze. E ora questo pregio è un lontanissimo ricordo.

Mi chiedo anche però quanta paura abbiano tutti coloro che hanno criticato i movimenti dal basso in questi ultimi 12 mesi. Paura di non essere più in grado di parlare ai giovani, paura di non saper più comprendere il presente, paura di non saper più immaginare un futuro diverso, paura di perdere i riflettori su di sé.

Sono molto curiosa di vedere come questa frattura e questo scisma a sinistra influenzeranno il 2025.

Sono però molto fiera di quello che vedo intorno a me.

Nuove forme di associazionismo, anche culturale, stanno nascendo. 

Nuove forme di pensare la politica e gli spazi pubblici.

Nuove forme per esprimere il dissenso e nuovi modi – corali, collettivi – di stringerci intorno a chi si batte per le giuste cause, in qualsiasi modalità queste battaglie avvengano. 

In un anno tragico per quanto riguarda la gestione della violenza maschile contro le donne, mi porto dietro il ricordo di questo sentimento. È come sentire elettricità nell’aria, come se qualcosa stesse per accadere. Non dico la rivoluzione, no. Dopotutto non siamo il paese delle rivoluzioni. Ma credo che in questo 2024 si sia tracciata una linea netta e sono sicura che i nuovi intellettuali, le nuove forme di giornalismo ed editoria, le voci dell’attivismo e dell’associazionismo non siano assolutamente più disposte a fare un passo indietro o sottostare a forme di bon ton vecchie quanto mortificanti.

Ecco, questo è il senso del motto – derubricato a slogan dalle élite di centrodestra e centrosinistra – “non una di meno”. Forse ci voleva la caduta della classe intellettuale per capirlo davvero appieno. Ma che non piangano, lì al centrosinistra: dal suolo di solito si può solo risalire.

ARTICOLO n. 95 / 2024